La crisi sanitaria globale legata al Coronavirus risolleva la questione dei fattori sociali determinanti per la salute degli individui nella società capitalista.
Secondo il manuale di Max Brooks (Manuale per sopravvivere agli zombi) un attacco virale di Classe 3 si verifica quando a essere colpite sono ampie zone urbane o rurali densamente popolate, le vittime sono migliaia, viene dichiarato lo stato di emergenza, i militari prendono il sopravvento e la copertura dei mass media è H24. Durante un attacco di Classe 3 il panico prende il sopravvento e il saccheggio diventa ordinario. Nel frattempo, spiega Brooks, quelli che vivono all’interno dell’area infestata, isolata e sorvegliata dai militari, sono alla mercé del virus.
A giudicare da quanto accade nel mondo in queste ultime settimane, è evidente che l’attacco di COVID-19, detto Coronavirus, appartenga alla Classe 3 descritta da Brooks e, visto che questi sembra sapere il fatto suo, dobbiamo prendere sul serio il suo più grande avvertimento: il miglior alleato dei virus è l’ignoranza, il loro più atroce nemico la conoscenza.
Armarsi di conoscenza
Prima di tutto bisogna capire che cosa è questo ‘attacco’. Le interpretazioni che si trovano in giro sono variegate. Tra queste troverete quelle che danno la colpa ai medici incapaci o avidi, all’inettitudine dei governi, alla disorganizzazione dei servizi sanitari, all’assenza di risorse adeguate, ai media o perfino alle abitudini alimentari di certe ‘razze’ ritenute inferiori (quella cinese, nel caso specifico). A parte quest’ultima, palesemente stupida e fuorviante, tutte le altre interpretazioni potrebbero contenere qualche elemento di verità, ma sono tuttavia semplicistiche. La realtà è complessa, i virus anche, perciò se vogliamo armarci di conoscenza combattiva dobbiamo partire dalle determinanti sociali della salute e della malattia oltre che, in generale, dal ruolo della medicina nella società. In altre parole, ci tocca partire da lontano per scandagliare tutto il perimetro del campo di battaglia. Prima di procedere, però, è necessario riportare alcuni dati.
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COVID-19 e SARS-CoV-2
Secondo “The Lancet” “il numero di persone affette dal nuovo coronavirus 2019 (COVID-19) ha superato le 75.000 unità a livello globale, di cui oltre il 99% in Cina, con più di 900 casi in altri 25 Paesi al 20 febbraio 2020”. Numero che è cresciuto negli ultimi 5 giorni, anche se si tiene conto dei circa 150 casi italiani. Sempre secondo “The Lancet”, il 3 febbraio 2020, gli unici Paesi africani con laboratori in grado di testare il coronavirus con la sindrome respiratoria acuta grave (SARS-CoV-2) erano il Sudafrica e il Senegal. Appena due settimane dopo, l’OMS ha provveduto a inviare kit di analisi a 27 paesi del continente, che sono già in uso. Entro la fine di questa settimana, il numero di paesi in grado di rilevare il COVID-19 dovrebbe essere salito a 40.
Gli scienziati di tutto il mondo stanno lavorando a ritmo serrato per capire come rilevare, trattare e controllare il nuovo coronavirus. Circa due settimane fa, l’OMS ha riunito quasi 400 scienziati per sviluppare un forum di ricerca, che ha generato una roadmap, la cui pubblicazione è prevista per la fine di febbraio 2020.
I medici cinesi sono stati i primi a promuovere questa mobilitazione internazionale nella ricerca identificando rapidamente il nuovo coronavirus e condividendo pubblicamente le sequenze del suo genoma.
Finora si è scoperto che la percentuale di casi gravi aumenta con l’età. Proprio come le persone che originariamente avevano contratto il coronavirus con la sindrome respiratoria acuta grave (SARS-CoV) dalle civette e nel Medio Oriente il coronavirus con la sindrome respiratoria (MERS-CoV) dai cammelli, si sa che la SARS-CoV-2 proviene da un animale. I ricercatori hanno anche scoperto che circa l’81% delle infezioni conosciute può essere classificato come lieve e che soltanto il 2-3% provoca la morte.
È evidente che parliamo di una malattia infettiva a basso tasso di mortalità, rispetto a molte altre. Ovviamente, il tasso di mortalità dipende anche dalla geografia e dal reddito.
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La rivoluzione della mortalità è nostra
I dati sopra riportati non ci dicono molto. Dobbiamo capire di più e meglio, cioè dobbiamo capire come siamo arrivati a questo punto e come è possibile un’epidemia mondiale nel 2020, visto che provano a convincerci da tutte le parti che laddove c’è sviluppo, dove il capitalismo prospera la salute migliora. Le origini dell’idea che il capitalismo sia un bene per la salute vanno cercate nella “rivoluzione della mortalità”, che fu avviata in Inghilterra alla fine del XIX secolo. Nella fase precedente, la salute della maggior parte delle persone, misurata in base all’aspettativa di vita, era assai scarsa. Le malattie infettive erano molto diffuse, gran parte delle quali trasmesse da animali domestici a seguito dello sviluppo dell’agricoltura stanziale. Le persone mangiavano cibo contaminato e bevevano acqua dai fiumi che servivano anche come fognature, proprio come centinaia di milioni di persone nei paesi poveri sono ancora oggi costrette a fare.
Quando però l’industrializzazione costrinse masse di persone a spostarsi dalle campagne alle città, gli effetti furono persino peggiori. Alcuni report segnalano, ad esempio, che a Liverpool, nel 1840, l’aspettativa di vita media dei bambini nati in famiglie operaie era di soli 15 anni. Inoltre, fatte pochissime eccezioni (come la vaccinazione contro il vaiolo, adottata a partire dal 1800), la maggior parte delle cure per le malattie infettive erano inutili o, addirittura, dannose: nel 1850, ad esempio, le donne erano più sicure partorendo a casa piuttosto che negli ospedali, dove si registrava un alto di tasso di mortalità.
Nel 1820 l’aspettativa di vita media mondiale era di circa 26 anni. Nel 1890 era salita a 30 anni. Nel XX secolo si è registrato un rapido miglioramento: nel 2000 l’aspettativa di vita globale è passata dai 33 anni del 1910 a quasi il doppio. Nel 2004 la longevità media mondiale era di oltre 65 anni, più o meno come l’aspettativa di vita nella sola Europa nel 1950.
Questo cambiamento è stato definito anche “transizione epidemiologica”, per marcare il passaggio dall’epoca in cui le malattie infettive erano le principali cause di morte a quella in cui le malattie croniche non infettive, che si sviluppano soprattutto nelle persone anziane, risultano essere le cause principali.
Questa transizione ha spinto ad associare acriticamente il capitalismo alla buona salute. In realtà, non è così. Fosse per il capitalismo i bambini nati nelle famiglie operaie avrebbero ancora 15 anni come aspettativa di vita e i maschi adulti non più di 26, proprio come nel XIX secolo. Ad aver radicalmente cambiato le carte in tavola è stato il movimento operaio organizzato, il quale, oltre a creare le società di mutuo soccorso, è riuscito a strappare ai padroni, con le lotte, paghe e alloggi migliori, così come migliori condizioni lavorative e migliori servizi sanitari.
È stato il movimento operaio a rendere possibile la “rivoluzione della mortalità” in Inghilterra, centro del capitalismo nel XIX secolo, così come in seguito in tutto il resto del mondo. Non può dirsi, quindi, un successo, nel senso di un effetto voluto, del capitalismo, così come la rivoluzione socialista del 1917 non può dirsi una conquista dell’autocrazia zarista. Ciò che ha prodotto la “rivoluzione della mortalità” è stata la lotta dei lavoratori contro i tremendi costi sociali del capitalismo, non un beneficio che la borghesia ha generosamente elargito ai proletari.
Infatti, la riprova la si può avere osservando la geografia della salute mondiale oggi: i miglioramenti generali sono stati accompagnati da persistenti disuguaglianze nella salute, le quali sono recentemente aumentate. A livello internazionale, le nazioni più povere in genere, ma non sempre, hanno una salute molto peggiore di quella delle nazioni ricche. Il Giappone e la Svezia hanno l’aspettativa di vita più alta, pari a circa 73 anni; l’Angola arriva a 29 anni. Un bambino nato in Swaziland ha 30 volte più probabilità di morire prima di compiere cinque anni rispetto a un bambino nato in Svezia. Un maschio canadese di 15 anni ha cinque volte più probabilità di raggiungere i 60 anni rispetto a un maschio nella Federazione Russa.
Mentre ci sono miglioramenti generali, anche se recentemente rallentati, a livello mondiale nella salute, alcune regioni o nazioni – in particolare l’Africa subsahariana, i paesi dell’ex Unione Sovietica, l’Iraq e la Corea del Nord – hanno registrato un calo sensibile nell’aspettativa di vita.
Nei primi venti anni del XXI secolo ci troviamo di fronte ad un mondo pieno zeppo di paradossi nella salute. Ci troviamo di fronte ad ‘epidemie’ simultanee – nei paesi più ricchi ci sono le epidemie di obesità, nelle nazioni più povere, quelle di denutrizione.
Il rapporto tra ricchezza e salute, a livello nazionale e internazionale, non è l’unico a determinare le diseguaglianze esistenti. Anche il sesso e la nazionalità sono importanti.
Le enormi diseguaglianze nella salute non sono dovute a una mancanza di risorse o capacità tecniche. Non viviamo in un mondo di scarsità, ma in un mondo in cui le risorse sono disegualmente distribuite. Basterebbe anche una piccola parte della spesa statale per gli armamenti, o anche la ricchezza dei 1.000 miliardari del mondo per equilibrare la situazione.
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I fattori che producono e malattie
La salute è prodotta sia da fattori sociali che dai sistemi sanitari. L’affermazione potrebbe sembrare scandalosa, ma non lo è. La ragione per cui non si condivide questa affermazione è da cercarsi nel fatto che si ritiene che le determinanti della salute e della malattia siano prevalentemente biologici. In tal modo, malattia e mortalità sembrano avere poco a che fare con l’ambiente sociale ed economico in cui si verificano. Se si adotta questa prospettiva, la soluzione agli attuali problemi di salute è vista quasi interamente all’interno del quadro stabilito dalla medicina moderna, e le idee relative ai cambiamenti sociali sono viste come irrilevanti.
Inoltre, il modo in cui la medicina è spesso presentata, nonché l’accettazione da parte della società della sua pretesa autorevolezza, si basa in larga misura sulla sua definizione come scienza naturale. Così, si presume che sia possibile separare il medico dal suo oggetto di studio (il paziente) allo stesso modo in cui si presume che uno scienziato naturale sia separato dal mondo naturale, e si dice che il progresso della medicina sia basato sull’uso del “metodo scientifico” che presumibilmente garantisce una conoscenza certa e oggettiva. Si ritiene, quindi, che la medicina, per il suo carattere ‘scientifico’, possa produrre un corpo di conoscenze incontestabile e autonomo non contagiato o contagiabile da considerazioni sociali ed economiche di più ampia portata.
Infine, alla base di questa visione c’è una particolare idea del rapporto tra medicina, salute e società; ovvero c’è convinzione che la medicina scientifica fornisca l’unico mezzo praticabile per mediare tra le persone e la malattia. La medicina è considerata per definizione buona – l’unico problema è che non ce n’è abbastanza per tutti, e la discussione si concentra quindi sul modo in cui questo corpus di conoscenze scientifiche e competenze tecniche possa essere meglio distribuito.
Anche qualora ci fossero disaccordi sulle allocazioni delle risorse, resiste sempre la convinzione comune che il problema di fornire un’assistenza sanitaria efficace per tutti, così come il problema della povertà, possa essere risolto, in ultima analisi, attraverso i normali processi di democrazia parlamentare e la politica delle lobbies. Questo presupposto dipende, naturalmente, da una concezione più ampia della natura del capitalismo, in particolare dalla convinzione della sua capacità di risolvere i problemi sociali attraverso la crescita economica.
Gli studi critici, invece, hanno ampiamente dimostrato che la scienza neutrale e di beneficio per tutti non esiste. Essa va intesa, piuttosto, come forma di attività umana perennemente in relazione con le caratteristiche della società in cui è prodotta. La scienza non è il risultato del genio solitario, del caso o della provvidenza, ma di (macro)fattori che determinano il suo contenuto e orientamento in un dato momento storico. Le radici mondane della scienza e le sue strettissime connessioni con il sistema economico e i modi di produzione furono al centro della relazione del fisico sovietico Boris Hessen al Congresso Internazionale di Storia della Scienza e della Tecnologia, tenutosi a Londra nel 1931. La relazione, dal titolo “Le radici sociali ed economiche della meccanica di Newton” sconvolse gli scienziati borghesi dell’epoca, i quali, da allora, furono costretti a fare i conti con quello che fu definito “l’approccio esternalità” alla scienza.
Se si adotta l’approccio esternalista, appare chiaro che le condizioni di vita e di lavoro, così come i servizi forniti dai sistemi sanitari sono i fattori che determinano la salute individuale e collettiva. Se peggiorano i primi si aggravano i secondi. L’equazione è piuttosto semplice, per quanto celata. Perciò, non si può parlare di salute o di medicina senza chiamare in causa le condizioni sociali ed economiche.
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Fin qui, però, la visione potrebbe essere ampiamente condivisa. Si accetta con una certa facilità il fatto che uno “stile di vita” stressante possa causare malattie o ridurre le aspettative di vita, ma si è riluttanti ad associare tutto ciò al capitalismo. Piuttosto, si sostiene che sia l’industrializzazione a distruggere la salute e, di conseguenza, si accetta con un sospiro la realtà pensando che ci sia poco da fare, come se l’industrializzazione e il modello di sviluppo che lo caratterizza fossero disgiunti dal capitalismo. Come se si possa comprendere la ragione dell’utilizzo degli antibiotici negli allevamenti (che secondo l’OMS ci stanno rendendo immuni agli effetti degli antibiotici, il che ci espone in massa a malattie d tipo medievale) o il sovra-utilizzo dei pesticidi in agricoltura (che diverse ricerche considerano alla base di numerose malattie diffuse nel mondo) senza la perenne ansia di profitto del capitale.
In realtà, la cattiva salute e le malattie sono strettamente correlate al modo di produzione capitalistico, imperniato sulla ricerca del profitto senza fine. Con questo non si vuole ripetere, per l’ennesima volta, quello che è un luogo comune della retorica di sinistra, ovvero che il ‘capitalismo causa malattie’, perché non ci aiuterebbe a comprendere la varietà dei contesti e delle malattie in tutti i luoghi e in ogni momento. Il metodo scientifico ci deve spingere ad analizzare concretamente tutte le variabili presenti in un dato luogo e momento.
Tuttavia, in generale si può affermare che la distribuzione delle malattie nelle società capitalistiche segue la distribuzione del reddito. Coloro che hanno redditi più bassi tendono ad avere tassi di patologia e di mortalità più elevati, per una serie di ragioni. In una società capitalista il reddito è uno dei principali fattori che determinano lo standard di alloggio, il luogo in cui vivono, la loro dieta e la loro capacità di rimanere caldi e ben vestiti. Tutti questi fattori sono significativi per la salute. Inoltre, la qualità della vita (e quindi della salute) è sempre più influenzata dall’accesso ai beni e ai servizi forniti dallo Stato. Anche quando questi sono in linea di principio distribuiti su base universalistica, in pratica non sono distribuiti in modo uguale.
Di conseguenza, per capire le malattie e il loro andamento non si può fare a meno di considerare i suoi fattori sociali di produzione.
COVID-19 in Italia
Il recente resoconto dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, dal titolo “Lo stato della sanità in Italia” fornisce un’ulteriore prova della stretta relazione tra salute ed economia. Ciò che emerge è una situazione vicino al disastro. La riduzione del personale, il radicale ridimensionamento delle strutture ospedaliere, le crescenti diseguaglianze nella quantità e qualità dei servizi forniti dalle singole Regioni, a seguito del federalismo sanitario introdotto con le riforme degli ultimi decenni, la crescita dei settori privati e gli scarsi investimenti pubblici ha prodotto una sensibile riduzione nell’accesso alle cure da parte dei cittadini italiani più poveri. Categoria, questa, in costante aumento a seguito della crescente precarizzazione lavorativa, radicale abbassamento del livello salariale e intensificazione degli orari e ritmi lavorativi, per non menzionare i colpi ricevuti dall’inflazione e dalla crisi industriale che ha colpito il paese, in particolare nel meridione.
Cosa c’entra questo ragionamento con il COVID-19? C’entra. In primo luogo, perché determina le modalità con le quali si affronta la malattia, cioè i malati. Senza un numero sufficiente di personale sanitario o di strutture sanitarie, in presenza di gravi diseguaglianze territoriali nei servizi e di una popolazione generalmente indebolita nella qualità della vita e della salute, per le ragioni riportate nel report del Parlamento, non resta che mettere in campo l’esercito e sperare di scamparla.
La storia insegna che, una volta usciti dalle caserme, gli eserciti vi rientrano con difficoltà.
All’attacco di Classe 3, rispondere con un attacco di classe generalizzato
Niente più di un attacco alla salute ci riporta sul terreno del valore d’uso, a uscire dal terreno dei valori di scambio, a imparare a riconoscere i veri nemici, a scegliere le armi giuste e a organizzarci per non improvvisare mai più una difesa.
La conoscenza è solo una parte della lotta. Il resto deve venire da noi. La determinazione per riavere indietro quanto ci è stato tolto non la possiamo imparare, la dobbiamo avere. Senza tutto questo la assai probabile sopravvivenza al COVID-19 non ci salverà da altre malattie ed epidemie in arrivo. Accettare passivamente i virus o lanciare un attacco di classe generale al capitale, loro padre ‘naturale’, dipende da noi.
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