C’è un legame indissolubile che lega la gestione svedese dell’emergenza coronavirus e le radici nazionalistiche e scioviniste, tutt’altro che solidali e internazionaliste, della socialdemocrazia di quel paese.


Come ampiamente riportato in altri articoli usciti in esclusiva (prima di quasi tute le altre testate italiane) qui su La Voce delle Lotte, la Svezia ha adottato una strategia di laissez faire nei confronti del virus, lasciando ristoranti, bar, negozi e scuole primarie aperte. Nel primo articolo avevamo spiegato questa strategia come la volontà politica di sacrificare le vite umane dei più anziani per difendere l’economia. Nel secondo avevamo denunciato la crisi sanitaria che pazienti e lavoratori stanno pagando anche in Svezia. In questo articolo cercheremo di abbozzare un’indagine storica per spiegare alcune peculiarità della socialdemocrazia svedese e per capire come sia possibile che riesca a godere di un consenso quasi ”nordcoreano” e che quasi nessuno all’interno del Paese, anche e soprattutto a sinistra, osi o abbia osato criticarla. L’obiettivo finale può essere rivelato senza alcun pudore, ma anzi con orgoglio: convincere anche i riformisti più ottusi e gli ammiratori più caparbi della Scandinavia che i fatti pongono l’umanità di fronte a un bivio: socialismo o barbarie del capitalismo. A differenza di quanto pi o meno esplicitamente sostenuto da certi pezzi della sinistra presuntamente radicale (da Rifondazione in Italia a Sanders negli Usa) non esiste una terza via. O meglio: ciò che appare come una terza via non è altro che una pericolosa illusione volta, nei fatti, a garantire ai capitalisti il lusso di continuare a sfruttare.

Alcuni osservatori hanno giustamente notato che la caparbietà con cui la socialdemocrazia ha difeso la fondatezza scientifica della strada intrapresa contro il coronavirus, frammista a certe allusioni (infondate) dei primi giorni circa ad esempio l’inferiorità del sistema sanitario italiano rispetto a quello svedese, possono essere letti nell’ottica di una retorica sciovinista che non è affatto nuova alla socialdemocrazia svedese né alla sua storia, che è in gran parte avulsa e indipendente rispetto a quella del movimento operaio europeo. Per fornire una qualche nota teorica dobbiamo tornare indietro alla fine dell’800 quando Kjellens, uno dei padri del nazionalismo svedese, proponeva uno Stato forte e credeva nella nazione come organismo vivente. Il senso della comunità della nazione, tuttavia, non doveva essere necessariamente costruito su base etnica, ma sulla base di esperienze storiche condivise all’interno di un dato spazio geografico. Come ammesso dagli autori di ”Är svensken människa” (“Lo svedese é umano?”), almeno due idee fondamentali del nazionalismo di Kjellens confluirono in quella che allora era la nascente socialdemocrazia svedese: la collaborazione tra capitale e lavoro in nome della nazione e dell’interesse nazionale, e la fiducia in uno Stato forte. Nel 1932 il socialdemocratico Per Albin Hansson, ideologo della nozione di Folkhemmet, diventa primo ministro. Appena un anno dopo, nel 1933 Hitler prenderà il potere in Germania usando Volkgemeinschaft (Comunità nazionale, di popolo) come slogan. Sull’influenza esercitata dalla socialdemocrazia svedese sul nazismo tedesco molto si potrebbe scrivere e ricercare, ma qui mi limiterò ad aggiungere un fatto che la giornalista Elisabeth Åsbrink ha rilevato nel suo libro (un’informazione reperibile anche su Wikipedia e altre fonti): la socialdemocrazia svedese nel 1922 fu responsabile della fondazione, a Uppsala, del primo istituto statale al mondo di biologia della razza, attivo fino al 1958. In quegli anni l’eugenetica si affermava come scienza all’interno del paese scandinavo, ma non solo. Questi due fatti furono le premesse teoriche per una serie di politiche di sterilizzazioni forzate votate dal parlamento a partire dal 1934 e che proseguiranno fino al vicino 1976: in quel lasso di tempo 30.000 persone furono sterilizzate contro la loro volontà (in un paese che contava appena un paio di milioni di abitanti). Alcuni studiosi, forse per difendere l’immagine della socialdemocrazia, osservano che ”solo” 400-500 individui di questi 30.000 sarebbe stati sterilizzati per motivi strettamente legati alla loro ”razza”.
Anche se questo fosse vero, non verrebbe meno né il carattere reazionario di queste politiche né tanto meno quello squisitamente ”classista” e ”anti-operaio”: infatti, se anche affermassimo, con una buona dose di verosimiglianza, che la socialdemocrazia, pragmatica e distante dall’idealismo velleitario di Hitler e d
el discorso nazista sulla “purezza ariana”, abbia sterilizzato proletari e sottoproletari per motivi squisitamente economico-sociali (perché non erano in grado di provvedere al mantenimento dei figli, etc), questo non la assolverebbe di una virgola dalla sue responsabilità: significherebbe infatti aver ribaltato la realtà vedendo nei ”poveri” un problema letteralmente da annientare o nascondere, invece di lottare per la loro emancipazione. Va inoltre notato che a queste ragioni pratiche, va sommata una buona dose di razzismo e intolleranza: ammesso e non concesso che la questione della razza non fu la ragione primaria alla base delle sterilizzazioni, in pratica molti degli sterilizzati, e cioè molti di quei proletari e sotto-proletari costretti alla miseria dalle condizioni economico-sociali che la socialdemocrazia non era e non è in grado di mutare, appartenevano a minoranze etniche come rom e sami – il razzismo verso i sami é un fatto documentato, come mostra il film Sami Blood. Dopo quasi mezzo secolo da quegli avvenimenti si ha l’impressione che ancora una volta la Svezia investa sulla presunta scientificità di una teoria (allora era l’eugenetica e la biologia della razza, oggiè l’immunità di gregge) per giustificare misure disumane, motivate da ragioni in realtà squisitamente economiche (allora era la necessità di “ripulire” la società da sottoproletari e “reietti”), oggi quella di liberarsi dei pensionati.

Paradossalmente, i sentimenti nazionalisti e sciovinisti che infestarono l’Europa negli anni ’30 e che furono alla base del successo dell’ascensione delle destre (fascismo, nazismo e franchismo), in Svezia non furono cavalcati da una destra organizzata, ma piuttosto dalla socialdemocrazia stessa che, come osservato da Berggren e Trägårdh, ebbe modo di sfruttare nel processo di costituzione della sua identità politica la sua maggiore autonomia ideologica dal marxismo europeo (rispetto al resto del movimento operaio del continente) e il suo rifiuto, squisitamente pragmatico e anti-intellettualistico, di ”complicate” elaborazioni teoriche (come quelle avanzate nel dibattito all’interno della socialdemocrazia tedesca) a favore di un maggiore senso pratico ”alla svedese”. Questi due fattori sono, dal nostro punto di vista, sinonimo di un analfabetismo teorico che segnerà per sempre la storia della sinistra svedese rendendola q-uasi costitutivamente- da un lato, nazionalista-sciovinista, dall’altro incline sempre e comunque al compromesso con la borghesia. Un valido esempio dell’eccezionalissimo della socialdemocrazia svedese é Lindström che nel 1928 in Socialism, nation och stat (“Socialismo, nazione e stato”, una delle rare e elaborazioni ”teoriche” sul tema) considera la nazione, in opposizione all’internazionalismo marxista, un fatto innegabile (a mo’ di concetto eterno), il suo paese (la Svezia) uno Stato-nazione omogeneo, e il compito della socialdemocrazia quello di integrare il più possibile anche i lavoratori nella vita di questo Stato-nazione omogeneo e, nel migliore dei casi, di offrire loro gli strumenti per emanciparsi, non come classe, ma solo sul piano individuale, come osservato da Trädgårdh. Gettare luce sulle radici ambiguamente nazionalistiche e social-conservatrici della socialdemocrazia svedese è uno dei passaggi che gli autori del libro compiono al fine di preparare il lettore alla loro teoria, secondo la quale, ”ciò che è caratteristico della società svedese non è la gemenskap (collettivismo), ma un’alleanza tra Stato e individuo che in modo originale allenta la dipendenza dell’individuo dalla famiglia, ma anche dalla società civile, dagli altri individui in generale e dal suo datore di lavoro” (p. 68).

In virtù delle sue tendenze nazional-socialistiche, non dovrebbero sorprendere gli scivoloni a destra degli ultimi anni non solo sull’attacco al diritto di sciopero (naturalmente ”consequente” a un’ottica di collaborazione di classe e ”responsabilità nazionale”) ma persino in tema migranti. L’organo della socialdemocrazia Tankensmedjan Tiden, infatti, poco prima della pandemia aveva pubblicato un editoriale intitolato ”Prima gli svedesi” in cui si ammetteva che la forza-lavoro migrante dovrebbe essere dimezzata nel giro di due anni. Con questa analisi, che tra l’altro si riferisce perlopiù a forza-lavoro migrante proveniente da tre Paesi al di fuori dell’UE – quindi con un certo sottinteso razzista, Tankemedian Tiden si aggiungeva al coro socialdemocratico di quelli che vogliono chiudere le frontiere. Daniel Färm, un giornalista autore dell’editoriale, si era già fatto notare in precedenza per i suoi ambigui paragoni contenenti allusioni all’uso del bastone (respingimenti) e della carota (solidarietà). Egli scriveva dell’importanza di una politica sull’immigrazione guidata ”dal cuore e dalla testa” (Dagens Nyheter 23/6-2019) e scherza sul fatto che uno non dovrebbe cantare ”Fermi! Qui non passa nessuno” di Ebba Gröns, ma nemmeno esagerare con ”Vieni qui chiunque tu sia, dovunque tu venga” di Kents. (Tankesmedjan Tiden 6/5-2018). Niente di nuovo sotto il sole socialdemocratico: già il famoso giornalista Göran Greider, sebbene senza sbilanciarsi troppo, aveva sdoganato tra i socialdemocratici l’idea della chiusura delle frontiere.

 

Il significato politico del fallimento della socialdemocrazia per la sinistra mondiale

Da questa analisi dell’identità della società-stato-socialdemocrazia svedese emerge un fatto che chiunque aspiri alla costruzione di una società più giusta non può ignorare: l’individualismo di Stato svedese (questo il nome che gli autori danno a questa forma di governo) non implica la liberazione del lavoratore dal suo padrone, ma semplicemente il fatto che lo Stato si fa carico di garantirgli una vita più dignitosa. Questo aspetto è fondamentale per comprendere la differenza qualitativa, e non quantitativa, tra il sistema svedese e il sistema socialista basato sulla democrazia operaia. Nell’ideale di democrazia socialista a cui i marxisti rivoluzionari aspirano, infatti, la libertà non è realizzabile ”in solitudine”, la libertà è libertà dal lavoro salariato imposto dalla ex-classe dominante così come dalle catene della famiglia tradizionale, ma non dalla specie umana in generale. Questo è possibile perché il concetto di indipendenza di cui la cultura svedese è impregnata non è quello che sorge dalla moderna lotta di classe, essendosi la Svezia industrializzata relativamente tardi, ma è piuttosto, storicamente, la libertà dei contadini medievali in alleanza strategica con il re, dove il re e uno Stato da lungo tempo centralizzato e forte si fanno garanti della libertà dei sudditi contro la nobiltà, il clero e i soprusi dei privilegiati.
La Svezia è in altre parole un grande esperimento sociale che mostra al mondo e alla sinistra in particolare tutte le contraddizioni del riformismo e l’impossibilità di riformare il capitalismo; ci insegna, in altre parole, che, su larga scala, ci sono solo due grandi approcci politici alla nostra società: la lotta rivoluzionaria per il socialismo e la democrazia dei lavoratori o l’accettazione del tritacarne capitalistico e la cooptazione, in vari modi e in vari gradi, al suo interno.

 

Matteo Iammarrone

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.