Tra i soggetti più colpiti dalla quarantena ci sono sicuramente le donne. Ancor più difficili sono diventate, infatti, le loro condizioni di vita quotidiana, costrette a conciliare l’attività lavorativa e l’aumento del carico di lavoro di cura; con i figli a casa persino lo smart working per molte di loro si è rivelato non essere poi così “smart”.

La quarantena ha portato alla luce, inequivocabilmente, la valenza sociale ed essenziale di tutte quelle attività svolte dalla donna in ambito domestico e che, considerate private, vengono ritenute dall’ideologia dominante fortemente etero-patriarcale come suo compito naturale piuttosto che un lavoro essenziale necessario alla società. La società capitalista e patriarcale nella quale viviamo, dunque, riversa sulle spalle delle donne il lavoro di cura, facendo, in sostanza, ricadere sul “sistema famiglia” i costi sociali del lavoro riproduttivo piuttosto che collettivizzarlo.
Ma il problema non riguarda solo la conciliazione del lavoro domestico ed extradomestico.

In una società che le vorrebbe e le ha volute rinchiuse in casa già prima della quarantena, in tempi di “normalità”, le donne devono ancora oggi lottare per emanciparsi ed entrare nel mondo del lavoro dove però i muri della segregazione non crollano ma continuano a tenerle prigioniere.

 

Donne e lavoro oggi: la segregazione occupazionale

Oggi in Italia il lavoro femminile costituisce una fetta importante del mercato del lavoro, più di 9 milioni che rappresentano il 42,1 % degli occupati complessivi; lavora il 49% circa delle donne tra i 15 e i 64 anni contro il 67, 6 degli uomini.

Sin dai suoi albori nella società capitalista industriale il lavoro produttivo femminile ha costituito una risorsa da sfruttare molto invitante per i capitalisti e i loro profitti, una risorsa alla quale attingere a piacimento e secondo delle “necessità del mercato”, forza lavoro sulla quale ripiegare in assenza di quella maschile, come accaduto durante entrambe le guerre mondiali e da ostracizzare quando superflua.
Questo carattere di “secondarietà” del lavoro femminile si evidenzia ancora oggi in determinati elementi strutturali: difficoltà ad accedere al mercato del lavoro e avere una continuità occupazionale in esso ed anche, una volta che questa prima barriera sia stata scavalcata, il mondo del lavoro femminile è contraddistinto da quel fenomeno che prende il nome di segregazione.
La maggior parte delle donne si trovano costrette a lavori precari e di basso livello retributivo e molte volte non tutelati, la loro concentrazione è infatti maggiore nei livelli bassi e medi dei profili professionali dipendenti contro una prevalenza maschile nei livelli alti anche a fronte del fatto che le donne siano in media più istruite sia in termini quantitativi che qualitativi, raggiungendo livelli di formazione più elevati che non gli forniscono alcun vantaggio occupazionale. Ma vengono anche segregate in determinati settori produttivi e di servizi che risultano di conseguenza altamente femminilizzati (es. servizi di cura, servizi sociali, scuola, industria tessile, commercio, settori amministrativi) sulla base di stereotipi e pregiudizi di genere, che ritengono le donne più idonee degli uomini ad alcune mansioni.

Si fa riferimento dunque allo svantaggio delle donne occupate rispetto agli uomini occupati. Ma il problema va ben oltre le pari opportunità o l’abbattimento del “soffitto di cristallo”.  

L’aspetto sociale delle funzioni biologiche e fisiologiche delle donne viene ritorto contro di loro. È ciò accade non solo sul piano culturale (dove l’ideologia borghese è dominante e i retaggi della cultura religiosa cattolica fortemente presenti): madri e mogli, alle donne spetta il “prendersi cura” degli altri e anche lì dove la loro attività esce dall’ambito strettamente familiare devono attenersi a questo modello per trovare un posto nella “vita pubblica”.
La diffusione di questi stereotipi non costruisce semplicemente la nostra visione del mondo, questa funge da giustificazione a fenomeni strutturali che riguardano il funzionamento e l’organizzazione della società capitalistico-patriarcale, delle sue basi economiche e materiali.

Il capitalismo si serve della struttura “familistica” borghese, dei pregiudizi sul ruolo della donna, della divisione in sfera privata e sfera pubblica  per  salvaguardare ed aumentare il margine dei  profitti dei capitalisti stessi e lo fa  sia tentando di far ricadere nell’unico salario per famiglia anche il lavoro di riproduzione della forza lavoro stessa – ovvero il lavoro di cura della donna – ma anche estorcendo maggior plusvalore dal lavoro femminile pagando un salario più basso, costringendo al part-time, al precariato e in generale usando il lavoro femminile come opzionale e accessorio: una delle prime cose che accade durante le crisi è l’estromissione delle donne dal mondo del lavoro.

Ecco che è evidente come con la crisi del 2008 si siano aggravati tutti quei problemi strutturali relativi all’occupazione femminile che abbiamo esaminato, in particolare in tema di qualità del lavoro: nel biennio 2008-2010 l’occupazione femminile è diminuita di 103 mila unità (-1,1%) nello specifico è diminuita l’occupazione qualificata ( -270 mila ) ed è aumentata quella non qualificata (+218 mila ), nell’industria diminuiscono più le donne ( -12,7 %) che gli uomini ( -6,3% ) , sono aumentati i fenomeni di segregazione verticale e orizzontale, è cresciuto il part-time nella componente involontaria (soprattutto nel commercio e ristorazione e nei servizi alle famiglie).

Nel 2011 il modesto recupero ha significato un ulteriore peggioramento per le giovani ( -45 mila occupate nella media dei primi tre trimestri). È quasi un assunto che con la crisi diminuisca l’occupazione e la qualità del lavoro femminile e anche quando si registrano dati positivi [report Istat del 1019] come l’aumento di tre punti negli ultimi 5 anni del tasso di occupazione femminile, questo ha significato solo un aumento di lavoro precario e con part-time obbligato (solo nel 2018 il 19,5 per cento delle donne occupate è in part-time involontario): ci sono circa mezzo milione di donne che si trovano in uno stato di “doppia vulnerabilità”, con lavoro a termine e per giunta part-time; inoltre, “per le donne con figli tra 0 e 2 anni si stima un arretramento nel tasso di occupazione (-5,1 punti per le donne in un nucleo monogenitoriale e -1,3 per le madri in coppia)”.

Chi ha bimbi piccoli il lavoro lo perde.

Cosa ci aspetta allora con l’attuale crisi di gran lunga peggiore di quella del 2008?

 

Lavoro femminile e Covid-19

Nonostante le donne siano state in prima linea nel contrasto alla pandemia, rappresentando il 70% di tutto il personale sanitario e dei servizi sociali a livello globale, in Italia il 77% degli infermieri è donna, così come costituiscono la maggior parte del personale di servizio delle strutture sanitarie (addette alle pulizie, lavanderia, catering) e quindi maggiormente esposte al virus, saranno anche le più colpite dalla crisi sanitaria ed economica e dalla imminente recessione.

I settori occupazionali maggiormente femminilizzati, quelli in cui le donne sono segregate sono quelli già ora in maggiore difficoltà come il terziario o il lavoro informale dove per di più sono assenti le garanzie di piani di protezione sociale ed ogni assicurazione contro la disoccupazione.

L’ONU parla nel suo report di aprile, con una certa preoccupazione, di “impatto del Covid-19 sulle donne” indicando che le donne dai 25 ai 34 anni hanno il 25% di possibilità in più di vivere in estrema povertà. Questo perché come abbiamo visto, attraverso un meccanismo che si è già molte volte ripetuto nella storia, le donne sono le ultime ad entrare nel mondo del lavoro e le prime ad esserne cacciate, ovvero, le esigenze del mercato prima di tutto e il profitto prima della vita.

Il Covid-19 è solo la causa congiunturale di tutto questo, la causa reale e profonda delle difficilissime condizioni di vita delle donne, solo aggravate da questa pandemia, è come abbiamo visto l’organizzazione economica e sociale di questa società, in una parola: il capitalismo.
Si dovrebbe quindi correttamente parlare di “impatto del capitalismo sulle donne”.

La via istituzionale si è mostrata impotente perché asservita alle logiche imprenditoriali di Confindustria il cui “femminismo” è un femminismo per poche che promuovere un maggior inserimento femminile ai vertici delle aziende: alcune donne con incarichi di potere che non si preoccuperanno di sfruttare altre donne.

Quello che serve è creare una nuova organizzazione della società, una società socialista in cui il profitto non predeterminerà i ruoli sociali e non costringerà le donne ad essere doppiamente sfruttate e oppresse tra le mura di case così come sul posto di lavoro.

Per fare questo, oggi come in passato, è necessario lottare e bloccare tutti i licenziamenti pretendendo assunzioni a tempo indeterminato per tutte le donne che stanno subendo il ricatto di questa crisi: assumere a tempo indeterminato tutte le infermieri e gli infermieri necessari a garantire la salute pubblica anche passata l’emergenza, tutte le operatrici sociosanitarie, tutte le mansioni di supporto alla sanità vanno stabilizzate; inquadrare a tempo indeterminato tutte le lavoratrici del commercio, oggi iper-sfruttate e con un futuro incerto; lottare per un reddito per chi ha perso il lavoro di 1200 euro e forme adeguate e gratuite di collettivizzazione del lavoro di cura: asili, campi estivi per bambini e tutto quello che può essere utile alle donne e che decideranno loro stesse tramite la creazione di comitati nelle fabbriche e nei posto di lavoro!

Le donne sono una delle colonne portanti di questa società che in cambio si rivolta contro di loro, non possiamo più permetterlo.

 

Lisa Di Pietro

 

Nata a Napoli nel 1988, consegue la Laurea magistrale in Scienze Filosofiche presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e la Laurea di primo livello in Pianoforte al Conservatorio di San Pietro a Majella.