Il 25 gennaio 2021 si celebra il decimo anniversario dal primo giorno della discesa in piazza delle masse egiziane, che portò al successivo processo rivoluzionario nel paese, dentro il quadro dei movimenti di massa nel Medio Oriente e nell’Africa del Nord passati alla storia come “Primavera Araba”. Per analizzare e contestualizzare uno dei grandi processi politici che stanno definendo il nostro secolo, proponiamo un opuscolo composto da tre saggi, che presentiamo in diretta sulla nostra pagina facebook lunedì 25 gennaio dalle 20.45 (qui l’evento). Questo saggio in particolare riflette sui problemi di direzione sindacale e politica legati ai moti della Primavera Araba.


Le cause che hanno portato all’insuccesso dei processi rivoluzionari della Primavera Araba possono essere individuate attraverso tre aspetti principali: l’esperienza storica della sinistra araba e il suo rapporto con la sinistra internazionale e con le masse; l’assenza di autorganizzazione delle classi subalterne durante le rivoluzioni; l’incapacità di creare un’organizzazione rivoluzionaria in grado di guidare il movimento di massa durante la fase transitoria.

Questi tre aspetti, seppur apparentemente separati, sono di fatto consequenziali e legati gli uni agli altri.

Senza una guida rivoluzionaria, vince la reazione

Le sinistre piccolo-borghesi arabe, sorte in seno all’epoca coloniale, svilupparono un profondo sentimento nazionalista e pan-arabista1 in un’ottica di indipendenza dal colonialismo occidentale e, in parte, dall’influenza dell’Unione Sovietica e dalle posizioni della III internazionale espresse dai PC mediorientali: si sviluppò quello che molti hanno definito, con l’avvento di Nasser in Egitto nel 1952, il nazionalismo arabo socialista e progressista.

A loro volta – dopo essere stati scalzati dalle sinistre piccolo-borghesi nella direzione dei processi di liberazione nazionale – i comunisti finirono per identificare nei nuovi regimi repubblicani gli esponenti della “borghesia nazionale” che avrebbe portato a termine la rivoluzione democratico-borghese nei paesi del terzo mondo.

In Egitto, ad esempio, il partito comunista era fortemente convinto che appoggiando il progetto nazionalista si sarebbe fatto un passo in avanti verso uno stadio successivo della lotta di classe. D’altro canto a Mosca venne elaborata la teoria della “via non capitalista” allo sviluppo, secondo cui, alcuni regimi del Terzo Mondo che avevano intrapreso un’industrializzazione basata su un forte ruolo dello Stato, come l’Egitto, potevano essere semplicemente incoraggiati a prendere la via del socialismo.

I maggiori effetti dell’alleanza tra regime e il partito comunista egiziano furono soprattutto legati alla passivizzazione delle masse che, se da un lato furono protagoniste delle lotte anti-coloniali, dall’altro, con l’avvento del nuovo ordine, si legarono indissolubilmente alla burocrazia dei nuovi regimi al governo.

Lo Stato per la classe dominante diventava così, il vessillo che il ‘popolo’ doveva difendere da qualsiasi attacco imperialista o ai tradimenti dei dissidenti politici: non si trattava più di interrompere l’opposizione ai regimi, quanto di collaborarvi apertamente e attivamente per rafforzarne dominio ed egemonia.

Ogni mossa da parte della classe lavoratrice volta all’autorganizzazione o agli scioperi veniva di fatto criminalizzata dai cani da guardia del regime che, a loro volta, dimostravano tutta la loro ostilità alle azioni delle masse e alle masse stesse.

I lavoratori, nella nuova struttura di potere accettavano, almeno in prima istanza, lo sfruttamento nelle industrie nazionalizzate.

I lavoratori impiegati nelle industrie statali, se da un lato godettero di un miglioramento sostanziale delle condizioni materiali, lo Stato, soprattutto dopo i primi scricchiolii del ruolo dello stesso all’interno dell’economia e la sconfitta araba del ’67 con Israele, non era più in grado di garantire i servizi che fino ad allora lo avevano tenuto in piedi.

Dal momento in cui la classe dominante non era più in grado di mantenere lo status quo, gli stessi lavoratori, tuttavia, non erano in grado di avanzare richieste che andassero oltre al mero ritorno alla situazione subalterna precedente alla crisi.

La guerra del ’67 e la conseguente sconfitta del nasserismo, oltre a mettere in evidenza i limiti ideologici del nazionalismo arabo, di fatto aprì le porte ad un nuovo tipo di sinistra -da molti definita la nuova sinistra– critica nei confronti dell’allineamento ai regimi dei vecchi PC e della virata a destra dei partiti al potere. Per contrastare questi settori, lo Stato aprì spazi politici alle forze islamiste, che andavano consolidandosi anche grazie ai petro-dollari sauditi e trovavano proseliti tra settori di piccola borghesia commerciale e di sotto-proletariato, in crescita con la crisi del capitalismo di stato. Equiparando movimenti come i Fratelli Musulmani a una nuova forma di fascismo e incapaci di rompere con le premesse di fondo dello stalinismo, gran parte dei gruppi della “nuova sinistra” finiranno per dedurre da una situazione del genere conclusioni frontepopolariste, schierandosi di nuovo con i regimi in nome del contrasto alla minaccia islamista, a dispetto delle politiche neo-liberali e sempre più autoritarie che essi andavano adottando. Fu questa la ratio con cui il Tagammu egiziano – partito nato alla fine degli anni 70 dall’unione di gruppi comunisti di varia estrazione e da nasseristi di sinistra contro le politiche pro-mercato degli anni 70 – sostenne Mubarak fin dal 1980 dopo che Sadat era stato ammazzato in un attentato terroristico da parte di un gruppo salafita. La stessa logica portò in Tunisia le forze della sinistra radicale ad appoggiare il colpo di Stato di Ben Alì contro Bourguiba.

La salita al potere di Bourguiba in Tunisia segnò, nei primi anni di presidenza, una delle fasi più buie per il movimento comunista tunisino a causa dell’alto grado di repressione che dovette subire.

Tuttavia, la svolta ‘socialisteggiante’ dell’allora neo-presidente riportò sulla scena politica il partito comunista tunisino che di fatto sposò, soprattutto la sua parte stalinista e piccolo-borghese, la svolta di Bourguiba.

Dopo l’abbandono del ‘socialismo’ tunisino e la dura repressione degli scioperi del 1978, il movimento comunista decise di staccarsi definitivamente dal potere per poi appoggiare, in modo del tutto opportunista, il golpe di Ben Ali nel 1987.

Con Ben Ali si aprì una nuova fase della sinistra tunisina. Convinti di un’apertura politica da parte del nuovo regime, appoggiarono di fatto il nuovo potere soprattutto per limitare la crescita del movimento islamista tunisino.

Ciò diede adito al regime di sfruttare l’opposizione laica e progressista in funzione anti-islamista e per rafforzare, soprattutto durante le tornate elettorali, l’immagine democratica di Ben Ali. Tali partiti diventarono di fatto organici al potere.

Non è un caso, che nel post-rivoluzione del 2011, molti critici della sinistra tunisina affermavano, in riferimento allo schema di potere, che i soldi erano in mano al presidente, mentre i membri della sinistra in parlamento distruggevano gli islamisti.

Questo atteggiamento ha generato una graduale sfiducia nei partiti tradizionali che, dagli inizi del 2000, sono stati in parte sostituiti da organizzazioni della società civile, spesso legate alla diffusione capillare di ONG. Tali organizzazioni erano spesso associazioni a difesa dei diritti umani o per i prigionieri politici o inserite all’interno del mondo del lavoro in difesa dei soprusi dello Stato (si vedano ad esempio quelli a difesa dei contadini in Egitto).

Molti dei fondatori erano i militanti più sinceri di quella ‘nuova sinistra’ nata nel post-’67, i quali, tuttavia, avevano abbandonato il sostegno esplicito ai regimi per un approccio tipico delle ONG volto alla gerarchizzazione delle rivendicazioni – prima la lotta per la singola istanza, poi le rivendicazioni politiche più generali – favorendo l’atomizzazione delle lotte.

L’eredità politica delle burocrazie sindacali

Nonostante il ruolo determinante della classe lavoratrice all’interno delle rivoluzioni del 2011, l’eredità politica dei regimi e dei partiti della sinistra e dei sindacati unici, ha pesato nella loro azione e nell’intraprendere, ciò che Lenin definiva azioni indipendenti delle masse.

Se da un lato, gli scioperi del 2008 in Tunisia e quelli del 2006 in Egitto restano due date fondamentali per l’inizio dell’incubazione dell’azione di massa del gennaio 2011, dall’altro, all’indomani della caduta dei regimi, gli stessi movimenti dei lavoratori non sono stati in grado di creare quelle azioni, come l’occupazione delle fabbriche, la costituzione di consigli operai o la formazione di comitati di quartiere, che avrebbero costituito la spina dorsale della rivoluzione.

Anche in questo caso, le cause della mancata organizzazione di tali azioni sono frutto dell’eredità politica legata alla burocrazia sindacale e al ruolo dei gruppi della sinistra del passato.

L’ascesa di Anwar al-Sadat e il suo progetto di iniziale rottura con il nasserismo influirono non poco sul movimento dei lavoratori soprattutto tra il 1971 e il 1977. Con lo scopo di riformare e cambiare i vertici sindacali ostili al nuovo regime, nel 1971 vi fu un enorme movimento all’interno delle organizzazioni dei lavoratori.

I gruppi legati al Partito Comunista Egiziano ebbero una allettante occasione di conquistare il Comitato Esecutivo dell’ETUF (Federazione Egiziana del Sindacato dei Lavoratori), tuttavia sia le rivalità interne tra i gruppi in concorrenza e sia per non mettersi contro il regime di Sadat, ad un giorno dalle elezioni, quella parte di organizzazione legata al Partito Comunista tolse il sostegno ad uno dei loro candidati di punta per sostenere delle liste indipendenti a favore del candidato del regime.

Tali mosse hanno di fatto generato un graduale disprezzo verso i vertici sindacali cooptati dal regime, generando, soprattutto tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, una dinamica molto simile a quella a cui si è assistiti sul fronte dei partiti politici.

Nella Tunisia post-coloniale, il rapporto tra regime e movimento dei lavoratori fu, in qualche maniera, simile all’Egitto, ma con delle differenze notevoli soprattutto sotto il profilo del rapporto tra vertice sindacale e regime e tra la base del sindacato e il regime stesso.

L’allora neo-presidente Habib Bourguiba non era certo un socialista a là Nasser e infatti, nei primi anni di governo, portò avanti una politica di stampo liberista.

A farne le spese per primo fu proprio il movimento comunista. Infatti, una delle prime misure politiche messe in atto, fu l’allontanamento dai vertici dell’UGTT dei membri legati al partito comunista tunisino considerati dal regime un pericolo per la stabilità del paese.

Tuttavia, gli scarsi risultati delle politiche del nuovo regime portarono lo stesso a mettere in campo politiche stataliste volte all’economia pianificata e alla nascita di un embrionale capitalismo di Stato.

Il governo, in questa fase, sfoggiò un’abile capacità di cooptare gran parte delle forze comuniste, grazie alla nomina di Ahmed Ben Salah (già leader comunista all’interno dell’UGTT) a ministro della pianificazione economica.

Se da un lato le mosse del regime di includere i membri più radicali del sindacato rispecchiarono le dinamiche a cui si assistette in Egitto, dall’altro, il fallimento della svolta ‘socialista’ di Bourguiba di fatto fece assumere al sindacato un atteggiamento molto critico nei confronti del governo.

L’acuirsi della crisi economi a e il graduale aumento della repressione portò il sindacato, nel 1978, ad indire uno sciopero generale scatenando la brutale repressione verso il movimento dei lavoratori.

Dopo la defenestrazione di Bourguiba e l’ascesa al potere di Zine al-Abidin Ben Ali il sindacato si avvicinò sempre più al nuovo ordine.

Tuttavia, più la burocrazia sindacale si avvicinava al potere più si accelerava quel processo, già in atto, di biforcazione del sindacato che, con gli anni, diventava di fatto una struttura bicefala (leadership vicino al potere e base ostile).

Questo divenne sempre più evidente con il passare degli anni, soprattutto nei primi anni 2000, durante i quali le proteste che si susseguirono nella regione centro-occidentale, tra le più povere del paese, sancirono di fatto una frattura quasi insanabile.

La relazione tra sindacati e potere, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’70 in Egitto e Tunisia, seppur con traiettorie diverse hanno avuto una rilevante influenza sull’azione del movimento rivoluzionario stesso.

In Egitto, le Organizzazioni Non Governative, si inserirono anche all’interno del mondo del lavoro per sostenere i lavoratori nelle loro incombenze con i vari governi. Esse di fatto hanno avuto un ruolo centrale nel definire le future organizzazioni nel post-rivoluzione soprattutto sotto l’aspetto politico-ideologico.

Molte di esse, ad esempio, ricevevano finanziamenti da Stati Uniti ed Unione Europea e, di conseguenza, i loro programmi erano tutto fuorché un mezzo per far avanzare le rivendicazioni del movimento dei lavoratori o dei contadini.

Dal momento in cui la struttura di potere crollò sotto i colpi delle rivoluzioni e si formarono organizzazioni sindacali indipendenti, le loro azioni e programmi non andavano oltre le leggi dello Stato e della democrazia procedurale borghese, anzi ne supportarono lo sviluppo.

Tuttavia, non tutti i sindacati che si formarono a ridosso del 2010-11 erano passati attraverso l’esperienza delle ONG, ma portavano avanti rivendicazioni molto più politiche.

Uno di questi fu, in Egitto, quello presenziato da Kamal Abu Aita che, soprattutto nel momento post-rivoluzionario, iniziò un percorso politico che, con tutti i suoi limiti organizzativi ed ideologici, puntava ad un miglioramento della classe operaia egiziana. Non fu un caso se, nel 2012, l’EFITU (Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti e di cui Abu Aita ne era quadro) raggruppava circa 200 sigle e più di 2 milioni di lavoratori, soprattutto nel settore pubblico.

In Tunisia, le proteste che seguirono l’immolazione di Mohammed Bouazizi se da un lato sancirono l’inizio della rivoluzione del 2010, dall’altro definirono una rottura profonda con i vertici della burocrazia sindacale.

Restii nel partecipare formalmente alle proteste, la leadership dell’UGTT fu di fatto boicottata dai quadri regionali e provinciali, i quali presero iniziativa e parteciparono, nonostante il parere negativo dei loro burocrati, alle proteste.

Tuttavia le proteste si erano nel frattempo allargate in tutto il paese e, nonostante alcune sacche di resistenza all’interno dei vertici sindacali, l’UGTT decise di prendervi parte formalmente e, successivamente alla caduta del regime, diventare uno dei protagonisti assoluti della transizione.

La partecipazione formale del sindacato alle proteste generò di fatto un rafforzamento dell’UGTT dopo la caduta di Ben Ali, diventando un abile conciliatore tra le politiche lacrime e sangue dei vari governi post-rivoluzionari e la rabbia di centinaia di migliaia di lavoratori.

La necessità di una soggettività dirigente rivoluzionaria

All’interno di questo scenario, si inserisce il terzo e ultimo fattore che determina il fallimento delle rivolte del 2011, ovvero l’assenza di un’organizzazione politica rivoluzionaria in grado, innanzitutto, di dirigere le masse.

Ad oggi, come si percepisce anche nei racconti e nelle analisi delle rivoluzioni del 2010-11, soprattutto all’interno degli ambienti della sinistra movimentista, l’elemento dell’orizzontalità della piazza sembrerebbe risultare l’aspetto chiave di ‘successo’ di tali movimenti.

Questa idea predominante dell’orizzontalità dei movimenti e della loro efficacia nell’abbattere la testa dei regimi egiziano e tunisino si è rivelata, invece, uno degli aspetti critici dell’insuccesso rivoluzionario.

L’ostilità dei movimenti politici all’organizzazione partitica è figlia innanzitutto dell’onda lunga del ’68 e della nascita di quella politica prefigurativa allergica alle strutture partitiche e più incline ai movimenti acefali e orizzontali senza una leadership.

Inoltre, con il crollo dell’Unione Sovietica, viene messo in discussione sia il concetto di rivoluzione, come abbattimento radicale del potere, sia l’aspetto organizzativo partitico e sindacale. Un’operazione ideologica che approfittava della degenerazione burocratica dell’URSS per associare l’idea stessa di rivoluzione al cosiddetto socialismo reale come suo sbocco naturale.

Il termine rivoluzione diventava quasi una parola impronunciabile poiché legata strettamente alla repressione e all’arretratezza dei paesi dell’ex Unione Sovietica. In questo contesto internazionale prendono forma più tardi, come è stato per i movimenti no-global e quelli più recenti di Occupy negli USA o Podemos in Spagna, gli attori politici che hanno animato le rivoluzioni del 2011.

Attori politici che di fatto sono risultati, tranne alcune piccole realtà, privi di ogni forma di radicalità proprio perché costituitisi in un contesto nel quale la politica ‘tradizionale’ aveva perso ogni forma di legittimità.

Ciò ha lasciato lo spazio o ad esperimenti del tutto fallimentari tra partiti della sinistra, come il caso tunisino, o ad una proposta politica ancorata di fatto al passato burocratico nasserista e stalinista, come in Egitto.

Emblematici sono i casi del Fronte Popolare in Tunisia, un’alleanza di forze “comuniste”, nazionaliste, socialiste e riformiste, e il leader nasserista egiziano Hamdin Sabbahi, candidato alle elezioni presidenziali del 2012.

In Tunisia, il Fronte Popolare, dopo aver appoggiato le proteste per la caduta del regime, sposò in toto l’alleanza con le forze borghesi del governo di transizione soprattutto dopo l’entrata all’interno della coalizione del Fronte di Salute Nazionale (una coalizione di forze liberali, social-democratiche e personalità dell’ex partito di Ben Ali), che da parte dei gruppi più radicali fu considerata come una mossa di opportunismo ideologizzato.

La partecipazione del Fronte Popolare all’interno di tale coalizione (in funzione anti-islamista) di fatto sancì l’abbandono della frazione trotskiste (Ligue de Gauche Ouvrière) indebolendo di fatto il Fronte.

Inoltre, l’assassinio di due membri del Fronte, sempre nel 2013, di Chokry Belaid (del partito Watad) e di Mohammed Brahmi (Movimento Nazionalista Arabo) fecero capitolare, soprattutto negli anni successivi e nelle elezioni del 2019, il Fronte.

Non da meno fu il leader socialista egiziano Hamdin Sabbahi (Partito al-Karama, ”Dignità”), che dopo aver condotto una dura battaglia contro il regime e dopo aver raccolto un discreto consenso tra le fasce dei subalterni e tra i movimenti giovanili, anch’esso, forse per evitare la definitiva debacle dei movimenti laici, prima appoggiò implicitamente al ballottaggio Shafiq (ex-ministro dell’aviazione del governo Mubarak) e sostenendo, successivamente, il colpo di stato di Al-Sisi nel 2013 e la road map dei militari.

Proprio durante la sua campagna per le presidenziali il candidato fu supportato da uno dei sindacati indipendenti, l’EFITU, e dal suo leader, Kamal Abu Aita (membro anch’egli del partito di Sabbahi), il quale divenne successivamente Ministro del Lavoro e dell’immigrazione dopo il colpo di Stato di al-Sisi. Un duro colpo che di fatto sancì l’appoggio esplicito, oltre che di Abu Aita, anche dello stesso Sabbahi. Anche in questo caso, l’opportunismo politico l’ha fatta da padrone in piena continuità con l’eredità del nasserismo e della sinistra stalinista, infatti i lavoratori vennero ‘richiamati all’ordine’, e ricominciare a produrre per quella ‘patria perduta’ figlia del nasserismo degli anni ’50 e ‘60.

Così, dopo aver definito il nuovo raìs egiziano un eroe nazionale, Sabbahi finì per pentirsene amaramente e capitolare nel 2014 dopo essersi candidato nelle elezioni presidenziali proprio contro al-Sisi.

Oltre il fallimento, una nuova ondata rivoluzionaria

I moti di massa degli ultimi anni, soprattutto in Algeria e Sudan, confermano che la questione sociale resta al centro dello scontro tra la classe dominante e le classi subalterne.

L’alto indebitamento, l’apertura agli investitori stranieri e le politiche economiche di ristrutturazione imposte degli istituti economici internazionali (FMI e Banca Mondiale) hanno di fatto ridotto alla fame le classi popolari di questi paesi e arricchendo le borghesie nazionali al potere.

Nel 2019, dopo diversi giorni di proteste nelle piazze, il regime trentennale di Omar Bashir in Sudan; nello stesso periodo, le proteste nelle piazze algerine hanno costretto il presidente Algerino Boutefliqa a ritirare la propria candidatura alle elezioni presidenziali, aprendo una nuova fase di lotta e non ancora conclusa.

Mattia Giampaolo

Note

1. Semplificando al massimo, con pan-arabismo si intende quel desiderio di unione e di sentimenti comuni a tutti i paesi arabi. Fu definito da molti come nazionalismo arabo guidato dal sentimento comune di arabismo (in arabo al-‘urūba).

Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.