La polemica contro Beppe Grillo, schieratosi brutalmente a difesa del figlio accusato di stupro da una ragazza, ancora una volta è entrata ben poco nel merito della cultura dello stupro e del suo posto nell’oppressione patriarcale integrata nel sistema capitalista.


In questi giorni è diventato virale su tutte le piattaforme social lo slogan #controlaculturadellostupro in seguito al caso Grillo.
Il guru dei 5 Stelle Beppe Grillo, pochi giorni fa, ha diffuso un video, che ha avuto una diffusione di massa anche per il rilancio da parte dei grandi media, per diffamare e screditare la testimonianza di una ragazza che aveva denunciato di essere stata stuprata dal figlio, Ciro. Grillo afferma nel video che il figlio sia innocente e, a dimostrazione di questo, ci sarebbe il fatto che la ragazza ha denunciato la violenza dopo “ben” otto giorni.
A seguito di queste affermazioni, tante compagne e realtà femministe hanno puntato il dito contro questa retorica in cui si ribalta la vittima in carnefice e la si sottopone non solo ad interminabili processi, che già di per sé possono risultate devastanti psicologicamente per la vittima e spesso inconcludenti sul piano giudiziario, ma anche ad una gogna mediatica improvvisa e totalmente senza consenso.

La protesta rivendica dunque di essere contro “la cultura dello stupro” che viene portata avanti da Grillo, in questo caso, ma che da anni viene utilizzata per perpetuare e legittimare atteggiamenti e fenomeni di violenza contro le donne e il mondo LGBT+. La questione, è evidente, va molto oltre questo singolo caso ed è un problema di patriarcato che viene prima della (spesso difficile per ovvie ragioni) verifica fattuale di ciò che viene denunciato nel singolo caso.

Una lunga storia di cultura dello stupro
Storicamente già nel codice di Hammurabi (nel diciottesimo secolo a.C.) si legge di pene per i casi di violenza sessuale dove vengono punti con morte per annegamento sia lo stupratore che la vittima. Seguono tutti i celebri miti greci e romani in cui il rapimento e il seguente stupro delle donne da parte di una divinità o di un popolo superiore su uno inferiore addirittura sono celebrati come il momento in cui nascono nuove città o nazioni, come succede per il famosissimo ratto delle Sabine. Miti in cui la donna vine sempre rappresentata o come un soggetto passivo alla violenza o come colpevole della violenza subita tanto da dover essere punita o da doversi autopunire: costruendo così, sin dall’antichità, la cultura della colpevolizzazione della vittima. La prassi dell’invasione militare e la successiva sottomissione attraverso lo stupro, la compravendita, il matrimonio, delle donne, bambine è stata lungamente tramandata nel tempo, fino ad arrivare ai giorni nostri, senza che si intraveda ancora un netto arresto del fenomeno. È infatti curioso notare come per La Relazione dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale definisce lo stupro proprio come invasione (vedi nota).
A ciò si aggiungono i secoli di dominio
religioso – indistintamente dalle religioni dominanti nelle diverse parti del mondo – il quale fonda uno dei suoi pilastri sull’inferiorità della donna rispetto all’uomo e sul potere demoniaco femminile a causa della sua sensualità intrinseca. Una morale che ha pervaso la quotidianità di uomini e donne per secoli fino al Novecento e che è ancora forte nei ceti meno acculturati o nei paesi oppressi da dittature clericali; una morale che ha permesso la normalizzazione di pratiche di violenza che ribaltano la realtà, con l’assoluzione del violentatore e la condanna della vittima a causa della propria natura peccaminosa.
Negli ultimi due secoli e principalmente in Occidente, le lotte femministe hanno portato all’ottenimento di diritti fondamentali, come la libertà di matrimonio e divorzio, l’ottenimento della pratica dell’aborto, l’inquadramento dello stupro come reato, la penalizzazione del delitto d’onore; permettendo alle donne di fare grandi passi in avanti nel campo dei diritti civili individuali. Un segno concreto del fatto che ci sia, appunto, un’intera cultura patriarcale e violenta di cui lo stupro è la punta dell’iceberg, è proprio il fatto che, dopo secoli di lotte, queste conquiste democratiche siano ancora parziali, assenti in diversi paesi, e costantemente sotto attacco – come abbiamo visto recentemente nel caso della Polonia per il diritto all’aborto, ad esempio.

Le radici della cultura dello stupro
Il patrimonio culturale di oppressione di genere, che vede in una delle sue massime espressioni di violenza il fenomeno dello stupro, non è però legat
o semplicemente alla cultura maschilista di supremazia dell’uomo sulla donna, bensì alla cultura capitalista del possesso, e della legittimità “sacra” della proprietà privata, ereditata in pieno dal capitalismo. Non è un caso, ad esempio, che proprio nel codice di Hammurabi si vede la prima legislazione a difesa dei confini o dei possessi.
Difatti, la concezione che la donna sia una proprietà dell’uomo
è strettamente legata alle violenze che questo mette in atto per assoggettarla. Le donne vengono rapite in tempi di guerra perché sono considerate un bene al pari dei viveri, delle armi, e vengono stuprate, violentate e torturate come simbolo di sottomissione. Diverse ricerca antropologiche affermano che la capacità riproduttiva della donna è sempre stato ritenuto un potenziale pericolo dalle parti in guerra.
Ciò significa che, nel profondo, la cultura dello stupro è sempre strettamente legata alla concezione della donna come un oggetto da possedere, ma che con lo sviluppo del capitalismo questa si è ristretta all’esclusività del singolo. Come ormai ogni singolo uomo deve possedere una casa, una macchina, del denaro, deve possedere anche una
donna (o più di una). Possesso che viene normalizzato con l’istituzione della famiglia, dell’amore romantico, della gelosia, della visione della donna come oggetto sessuale. Normalizzato a tal punto che si instaura profondamente nel carattere e nella psicologia di chi consciamente o inconsciamente si rivendica maschio cisgender: agli uomini culturalmente si insegna a rispettare determinati standard comportamentali per raggiungere il “giusto” livello di mascolinità. Ciò viene fatto quotidianamente e in modo parallelo con gli stessi strumenti con cui viene normalizzato il possesso della donna: basti pensare che molti degli episodi di violenza accadono in famiglia, e sono i primi a cui assistiamo nell’infanzia.
Lo stupro così diventa l’arma per poter difendere, riscattare o riappropriarsi della proprietà sottratta o negata dalla donna stessa.

Lo stupro e le classi sociali
È molto comune l’immagine che lo stupro riguardi esclusivamente le fasce sociali più basse ed infatti è solito che gli scandali in cui vi sono protagonisti della borghesia, come nel caso Grillo, abbiamo un più forte impatto mediatico quando le vittime hanno il coraggio di denunciare. Coraggio che in questo caso deve essere doppiamente forte perché significa non accettare le diverse pressioni sociali che una denuncia conseguirà – è già palese che potersi permettere avvocati migliori, canali d’informazione, significa avere più possibilità di vincere. Spesso, invece ciò non è necessario: infatti quando avvengono casi analoghi a quello di Grillo, e la vittima appartiene alla popolazione povera, il primo tentativo è sempre quello di comprare il suo silenzio, anche attraverso le pressioni familiari soprattutto quando la vittima è giovane.
Nonostante ciò, questo luogo comune è stato spesso smentito da ricerche statistiche, almeno rispetto allo stupro.
In un’indagine condotta dall’ ISTAT del 2002 che si poneva l’obiettivo di studiare il livello di sicurezza dei cittadini, viene studiata in particolare il tipo di violenza, la fascia d’età e la zona (nord, centro o sud Italia) in cui queste violenze vengono commesse. Dai dati emerge che le violenze fisiche, tra cui lo stupro, fanno riferimento in particolare all’area centro-nord d’italia ed in particolare, in proporzioni statistiche, alle aree metropolitane. Da ciò si può dedurre che difficilmente chi commette violenze
rientra in settori di povertà così forti da non avere un’istruzione o opportunità di carriera lavorativa, ed infatti spesso le violenze sono commesse ad partner o ex partner della vittima, quindi “persone comuni”, non “mostri” o “derelitti”. Invece alle fasce più povere della popolazione, come quelle concentrate nel Sud Italia, fanno riferimento i casi di violenza domestica all’interno del nucleo familiare stesso, quindi di violenza da parte del marito su moglie e/o figli.
Questi dati, provando a fare una piccola analisi soci
ologica, per quanto sommaria, ci permettono di comprendere come la variabile culturale o di “emancipazione economica” influisce poco o nulla sulla possibilità di essere vittima o carnefice, ma che più o meno omogeneamente, con diverse forme, in diverse condizioni, la maggior parte delle donne sono state vittime di forme lievi o gravi di violenza. Quello che differisce nel livello di “emancipazione economica o culturale” è la risposta a queste forme di violenza.
Le donne vittime di violenza che provengono da
lle fasce più povere della popolazione hanno meno possibilità di liberarsi di chi commette violenza nei loro confronti perché hanno meno possibilità di denunciare, poter sostenere una causa legale, avere supporto piscologico ed economico, specie in caso di stupro. Finché il processo non emette una condanna – fatto per nulla scontato, anzi – sarà la donna a doversi allontanare dai luoghi che frequentava prima per evitare di rincontrare il proprio violentatore, che spesso è un compagno di scuola, un collega a lavoro, una persona del vicinato. Ciò significa dover cambiare casa, città, scuola, avendo bisogno di un supporto economico non indifferente, al punto che si stima che il 90% delle vittime di violenza sessuale non sporga denuncia.
Nonostante ciò, i fondi insufficienti che vengono erogati dallo
Stato per combattere la violenza di genere sono distribuiti in modo proporzionale a dove la casistica è più alta. Ciò significa che i pochi fondi vanno a chi ha già avuto la possibilità di denunciare, il che prevede che probabilmente ha già la possibilità di affrontarne le conseguenze, almeno economiche.
Con questo non si intende certo dire che le vittime non andrebbero aiutate solo perché possono già provvedere autonomamente
a se stesse, anzi: significa dire che troppo spesso la denuncia, il processo di fuoriuscita da una violenza spetta alle forze individuali, quando dovrebbe essere collettivo.

Perché accade? Perché questo sistema economico e politico non intende veramente portare avanti una campagna di rottura contro la violenza patriarcale nemmeno sul piano economico, figuriamoci su quello culturale.

La retorica neoliberale progressista sull’emancipazione di genere
L
a cultura patriarcale che opprime le donne ha modellato e modificato le sue forme adattandosi al progressismo delle diverse leggi e fenomeni di massa.
Vestirsi con abiti succint
i, andare all’università, scegliere di non essere madre o addirittura di abortire, per la maggior parte delle nostre madri o è stato un diritto negato o sarebbe stato uno scandalo; eppure oggi invece è qualcosa di culturalmente accettato, anche se con una costante reazione delle forze conservatrici della società, che provano a rimuovere o rendere inagibili i diritti conquistati dalle donne.
Nonostante ciò, nella realtà quotidiana di una donna, in tutti gli ambiti è costretta a subire un forte maschilismo e una forte sessualizzazione, che le fa vivere una costante ansia, frustrazione o preoccupazione.

Seppure siamo libere di indossare gli abiti che vogliamo, noi stesse ci preoccupiamo di uscire vestite in un certo modo.

Seppure siamo libere di andare all’università, sappiamo bene che dovremo patire il doppio per raggiungere il successo di uno stesso nostro compagno maschio perché vittime di molestie e violenze da parte dell’apparato universitario – compagni e docenti.

È pure vero che formalmente siamo libere di scegliere di abortire, ma questo non è garantito nella pratica, né ci solleva dal senso di colpa che la società ci infligge per questa scelta; siamo liber* di cambiare sesso o definirci in un genere diverso, ma questo non ci solleva dalle offese, umiliazioni, violenze familiari e non.
Anche nel campo dello stupro, la nostra società è piena di dogmi, si è creata un immaginario separato dalla realtà.

Per quanto riguarda gli stupratori, o sono giovani che “non sanno cosa fanno” quando violentano una ragazza, o sono neri, arabi, slavi, perché crediamo che la cultura europea-occidentale sia abbastanza sviluppata per garantire la crescita di uomini razionali che non possono perpetrare coscientemente lo stupro come azione di sottomissione delle donne… nonostante la storia ci dimostri il contrario!

Per quanto riguarda le vittime, si può dare per scontato (come ha fatto Grillo) che debbano denunciare istantaneamente, o che dovevano essere vestite in modo poco provocante per essere credibili. Dogmi così saldi che tutti gli stupri familiari in cui il marito stupra la moglie sono ancora difficilmente considerati tali: nonostante lo stupro coniugale non venga quasi mai riconosciuto in tribunale, raggiunge quasi il 38% della casistica. Facendoci comprendere quanto ancora la cultura dello stupro sia interiorizzata nella nostra società; come la dignità, l’indipendenza come persona, e dunque il consenso nei rapporti sessuali non siano dei concetti scontati, per la donna sposata, per la donna che “è donna di qualcuno”.
Tutte queste retoriche in cui la donna è libera, o meno oppressa, da una cultura patriarcale perché è libera legalmente di denunciare, di ottenere incarichi di lavoro, di studiare, di scegliere chi sposare, sono il frutto dell’inganno mediatico di cui siamo bombardati dalle politiche neoliberali “progressiste” che hanno in realtà il compito di inglobare, rimodellare ed accomodare possibili rotture con il sistema in politiche di conformazione al sistema, generando la grande illusione di un capitalismo libero dalle oppressioni di genere, razza, credo. Ed anche sullo stupro ci illudono di ottenere giustizia perché il carnefice viene punito con pene, più o meno dure a seconda del caso mediatico, ma che in realtà fanno leva solo su un sentimento punitivista caratteristico delle femministe neoliberali ma che non cambierà, né impedirà domani che uno stupro avvenga di nuovo. Ormai tutti gli studiosi sulle discriminazioni sociali hanno screditato la tesi che una “giusta punizione” possa essere un deterrente per azioni di violenza.
Per questo punire
o semplicemente penalizzare lo stupro non impedisce che le donne vengano ancora stuprate. E concentrarsi solo su questo piano ha dato nel tempo ampio spazio alle sparate da destra sulla castrazione chimica e altre soluzioni “drastiche” da cultura della vendetta e della violenza, dunque pienamente compatibili in realtà con la stessa cultura dello stupro.

Lottare per una cultura anticapitalista contro lo stupro
Ammettere che le leggi non possono essere la soluzione ai problemi della violenza di genere, che la violenza patriarcale non può essere risolta nei confini che ammette il capitalismo, significa ammettere che serve lottare per rompere lo stato di cose presenti, per sviluppare una società capace di educare uomini e donne nuove, liberi dalla divisione in classi che determina chi possiede e chi no, anche rispetto le donne. Persone libere dalla concezione del possesso e della sopraffazione per ottenere ciò che si desidera, libere dalla paura, dalla vergogna e dai ruoli sociali che ci vengono imposti solo perché nati con un sesso invece che un altro, liberi di essere individui che hanno un rapporto sano con la collettività, liberi di poter essere ciò che profondamente sentiamo di essere.
Per questo il problema non è solo quello di rompere una cultura maschilista, sessista, omotransfobica che, nonostante penalizzi legalmente lo stupro,
la violenza patriarcale e sessista, porta in realtà avanti retoriche e narrative che li giustificano.

Il problema è quello di lottare per rompere un sistema che insegna la violenza sul prossimo e che si fonda su di essa. Che integra al suo interno, rendendola un fondamento, la violenza dell’uomo sulla donna.

Rompiamo questo sistema a favore di uno che non veda oppressioni, crimini e violenze né nei confronti dell’uomo né della donna!

Nota

L’autore invade il corpo di una persona con condotta risultante nella penetrazione, anche di ridotta entità, di ogni parte del corpo della vittima o dell’autore con un organo sessuale, o dell’apertura anale o genitale della vittima con ogni oggetto o ogni altra parte del corpo. L’invasione è eseguita con la forza, o con la minaccia della forza o della coercizione, come quella causata dalla paura della violenza, della costrizione, della prigionia, dell’oppressione psicologica o dell’abuso di potere, contro le persone stesse o altre, o prendendo vantaggio di un ambiente coercitivo o contro persone incapaci di dare un genuino consenso. Il concetto di invasione così espresso è ampio, ed è neutro rispetto al sesso.

Scilla Di Pietro

Nata a Napoli il 1997, già militante del movimento studentesco napoletano con il CSNE-CSR. Vive lavora a Roma. È tra le fondatrici della corrente femminisa rivoluzionaria "Il Pane e Le Rose. Milita nella Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR) ed è redattrice della Voce delle Lotte.