Verso la manifestazione nazionale del 27 novembre a Roma contro la violenza di genere, sentiamo il bisogno di tornare a discutere le nostre pratiche di lotta femminista e transfemminista contro la violenza e lo sfruttamento sul lavoro.
Da sempre denunciamo che la violenza di genere e il lavoro sono legati da una relazione complessa, che intreccia precarietà, sfruttamento, lavoro domestico e di cura, violenza domestica e violenza sui posti di lavoro. Lanciamo una serie di cinque articoli, di cui il seguente è il secondo, che toccano sotto aspetti diversi il tema della violenza.
Mobilitati con noi il 27 novembre per denunciare l’alleanza criminale tra questi due sistemi e per rivendicare una vita che non sia solo fondato sullo sfruttamento e la sopravvivenza, ma che sia ricca di bellezza e di libertà d’essere, che dia diritto alla vita di tuttə di essere vissuta!
Perché vogliamo il pane ma anche le rose!
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La gestione confindustriale della pandemia e la condizione delle donne
Dopo due anni di pandemia e nel pieno della quarta ondata, non sta andando “tutto bene”. L’emergenza e la crisi che ne è seguita si sono scaricate su di noi, e ora siamo strette tra un piano di ripresa e resilienza che non ci contempla e una polarizzazione del dibattito pubblico che ci cancella.
L’emergenza del coronavirus ha amplificato oggettivamente quella che era una condizione di sfruttamento e di oppressione che la maggioranza delle donne proletarie già viveva nel nostro paese.
Le rinnovate politiche neoliberiste, spinte da Draghi e Confindustria in Italia, hanno la pretesa di assumere in toto tutto il tempo della nostra vita, di assimilare il tempo del riposo a quello del lavoro, di eliminare ogni barriera tra questi due momenti ed avanza la pretesa di normare il nostro privato, dai desideri alla sessualità, dagli svaghi alla salute. Mai come in questo momento, il ruolo delle donne negli scenari di lotta risulta decisivo per legare i terreni di conflitti e unirli in una lotta politica, contro gli stretti limiti della lotta meramente economico-sindacale, e contro la separazione della lotta sul lavoro da quella di altri movimenti. Mai come oggi le donne in Italia sono sotto pressione e possono portare un contributo decisivo alla lotta contro lo sfruttamento e il sistema di potere capitalista: abusi domestici, carichi di lavoro domestico non retribuiti, un difficile equilibrio tra lavoro e vita familiare, discriminazione e violenza sui posti di lavoro…
Gli ambiti più sotto pressione a causa della crisi da Covid 19, sono tutti quei settori dell’attività e delle mansioni che hanno a che fare con una riproduzione immediata delle condizioni di vita e di esistenza della popolazione. Coloro che hanno continuato a lavorare si sono ritrovate in una condizione non solo di maggiore sfruttamento, ma addirittura senza nessuna tutela e prevenzione per la loro salute e la vita stessa.
Non è un caso che sono state, anche nei mesi di emergenza, le lavoratrici, le precarie, le proletarie, la maggioranza delle donne che non ce la fa a vivere, ad aver ripreso la scena!
In prima linea si sono trovate indubbiamente le lavoratrici della sanità . Le dottoresse, le infermiere, le operatrici socio sanitarie, le donne delle ditte delle pulizie.
Si sono ritrovate nel vortice di questa emergenza a lavorare in una situazione di orari massacranti, mancanza di dispositivi di protezione e sicurezza adeguati; una situazione che ha fatto emergere in maniera palese il massacro fatto alla sanità da tutti i governi al potere e che oggi viene scaricato pesantemente sulla pelle, oltre che dei malati, dei lavoratori e lavoratrici.
Tante operaie di fabbrica hanno dovuto continuare a lavorare anche durante il lockdown, perché quello che conta per i padroni, è il plusvalore, il profitto e non la vita degli operai e delle operaie; per cui è successo che si è continuato a produrre anche in quelle fabbriche non essenziali, e senza le misure di sicurezza necessarie. Qui solo gli scioperi delle operaie e degli operai in diverse fabbriche hanno costretto il governo a fare una selezione tra le cosiddette “fabbriche non essenziali” e quelle “essenziali” – ma sotto la pressione di Confindustria, diverse fabbriche anche piccole e medie hanno continuato a produrre. Al di là dei protocolli che il governo ha firmato con i sindacati confederali, sono perdurate diverse situazioni in cui le operaie hanno continuato a lavorare senza alcuna sicurezza, a rischio di ammalarsi gravemente.
Le donne lavoratrici protagoniste della lotta alla Cura Confindustria
Nelle fabbriche sono state soprattutto le operaie la punta più avanzata della ribellione delle donn3: a giugno/luglio le operaie più combattive, quasi tutte immigrate, della Montello (BG); a maggio, le operaie dell’Electrolux di Susegana che hanno fatto lo sciopero delle mascherine contro i ritmi di lavoro; poi le lavoratrici delle mense della Fca a fine luglio, il collettivo femminista delle operaie della GKN, le lavoratrice della Texprint.
Per non parlare di tutto il bracciantato nell’agricoltura, in cui troviamo tante immigrate. Molte di loro hanno perso il lavoro e sono state lasciate ancor più allo sbando per mesi.
La sanatoria del governo si è rivelata una truffa: una “regolarizzazione” insufficiente, fatta con l’unico scopo di dare braccia alle aziende da sfruttare per il tempo necessario al lavoro (al massimo un anno). Queste lavoratrici hanno protestato per mesi contro questo provvedimento governativo annunciato dalle lacrime più che ipocrite della Bellanova. Molte immigrate sono impiegate alla Montello. Questa ditta che tratta lo smaltimento e il riciclo dei rifiuti non ha mai fermato la produzione durante la pandemia, non essendo mai mancata la materia prima.
Poco credibile, quindi, agli occhi delle operaie la notizia di una possibile crisi.
L’azienda ora vuole fare un piano di ristrutturazione attraverso lo strumento della cassa integrazione, gestita unilateralmente e in modo molto mirato e selettivo per recuperare produttività, per estromettere chi viene ritenuta meno produttiva per età o per eventuali limitazioni, e in maniera repressiva contro le avanguardie di lotta. Le lavoratrici sindacalizzate con lo Slai Cobas chiedono che l’eventuale ricorso alla cig deve essere a rotazione, sotto il controllo dei delegati approvati in assemblea, con anticipo e integrazione da parte dell’azienda, quindi senza perdita di salari.
Va ricordata anche la lunga lotta delle lavoratrici dell’hotel Gallia. Questa storia nasce tra i corridoi dello storico Excelsior Gallia di Milano, hotel extra lusso che si affaccia su piazza Duca d’Aosta, davanti alla Stazione Centrale. Il listino prezzi dell’albergo – base d’appoggio privilegiata da molte celebrità– parte dai 330 euro a camera fino ad arrivare a 1.000, per non parlare della Katara Royal Suite, 1.000 metri quadrati di sfarzo a 20.000 euro a notte. Ebbene: il Gallia appalta la pulizia delle 235 camere a un’impresa esterna, la Ho Group srl, pagando i lavoratori, di fatto, a cottimo.
A marzo, con la prima ondata di Covid-19 e il successivo lockdown, l’hotel chiude e gli 80 lavoratori rimangono a casa. L’appalto salta, i proprietari di Ho Group – al centro di un intricato giro di società srl, che vedremo – spariscono (forse…), lasciando gli 80 lavoratori nel nulla, e il 26 ottobre il Gallia riapre affidando l’appalto a un’altra impresa. Un appalto fittizio, in quanto la gestione del servizio è solo formalmente affidata in autonomia alla società. La convenienza del Gallia nell’appaltare la pulizia delle camere a una società esterna è evidente: meglio avere manodopera a cottimo piuttosto che lavoratori assunti direttamente con un normale contratto a paga oraria. Una pratica non certo nuova, in tanti settori e non solo in quello alberghiero – dalla logistica alla manifattura – e che ha visto proliferare il mondo delle cooperative e delle srl. Una pratica che permette al committente – l’hotel, in questo caso – anche di utilizzare personale qualificato senza farsi carico di nulla: non solo ferie, permessi, malattia, infortuni, maternità ecc. non lo riguardano, ma nemmeno i licenziamenti o l’accesso alla cassa integrazione. Nel momento in cui non ha più necessità dei lavoratori, infatti, al committente basta sospendere o chiudere l’appalto, oppure chiedere alla società esterna meno personale. Esattamente ciò che ha fatto il Gallia a marzo scorso: causa Covid l’hotel ha chiuso, e da quel momento le vicissitudini dei lavoratori non lo hanno riguardato. Questo è il Gallia, quindi: camere da 1.000 euro a notte da una parte, lavoratori a cottimo dall’altra. La lotta delle lavoratrici e dei lavoratori dell’ hotel Gallia organizzata in modo unitario dalla Flaica CUB e dal SI Cobas è andata avanti per più di un anno, con scioperi e presidi sotto tutti gli alberghi coinvolti, sotto le sedi delle istituzioni, senza fare un passo indietro.
Alla fine hanno vinto loro. Hanno tenuto duro e hanno riconquistato quello che gli spettava. Sono stati riassunti dall’azienda Papalini che sta gestendo i servizi di pulizia e facchinaggio nell’hotel e a cui è stato affidato l’appalto per i prossimi 3 anni; verranno riconosciute le condizioni economiche e contrattuali precedenti mantenendo il tempo indeterminato, i livelli e i parametri contrattuali, con armonizzazione migliorativa al CCNL dell’Industria Turistica – AICA.
Un’ ulteriore lotta delle donne che sulla Voce abbiamo seguito e sostenuto fin dalla sua nascita è stata quella dell’inventariste dell’RGIS, che sono impiegate in un settore dalle condizioni di lavoro ultraprecarie, perlopiù al di fuori di leggi e contratti nazionai di lavoro, con rischi molto seri di danni psicofisici.
Infine, fra le lavoratrici che in questi mesi hanno dimostrato la loro combattività vanno ricordate le dipendenti delle scuole costrette al lavoro in casa ma senza un futuro certo; le precarie delle mense, delle pulizie, degli asili, dei servizi di assistenza scolastici, che hanno lottato sempre da Palermo, a Taranto a Milano e stanno continuando anche in questi mesi in difesa del posto di lavoro e migliori condizioni di lavoro; le lavoratrici delle Poste che hanno fatto il primo sciopero nazionale dopo il lockdown.
“Restiamo a casa”: la precarietà e il peso del lavoro di cura dietro uno slogan “rassicurante”
Il governo durante l’emergenza è uscito con tutta una serie di decreti che, come abbiamo detto, ben poco garantivano per quanto riguarda la condizione di vita delle donne verso cui, invece, il rassicurante slogan “restiamo a casa” significava tutto fuorché serenità e sicurezza. Perché quando si dice “state a casa, state chiuse” e ci hanno fatto vedere pubblicità in tv ad hoc con scene di tranquillità e rilassatezza “che bello stare dentro le case”, in realtà questo non c’è stato, non è assolutamente vero e corrispondente alla realtà. Stare chiuse a casa 24 ore su 24 per la maggioranza delle donne, significa vedersi scaricare in maniera ancora più pesante tutto quello che è il lavoro di cura e della famiglia dei figli, del marito, dei parenti anziani, il lavoro domestico, ecc., significa subire uno stress psicologico che non può costituire la “cura sociale” al coronavirus. Invece, si dà proprio per scontato che il ruolo prevalente delle donne sia quello di “restare a casa”, nel senso di addossarsi tutto il lavoro di cura e di riproduzione del proprio nucleo familiare: tutta la retorica sulla libertà, l’emancipazione e il cosiddetto empowerment individuale nella società borghese si è infranta contro questo pilastro del sistema stesso, contro questo “ammortizzatore sociale” universale del patriarcato. Il ruolo di moglie, madre e supplente dello Stato rimane lo stesso nella vita di miliardi di donne.
A questi “angeli del focolare” è stata destinata la misura del bonus spesa, che si è tradotta in poche decine di euro a poche famiglie “indigenti”, quando tante famiglie sono senza salario, è ridicola e offensiva, una indegna elemosina, contro cui giustamente tante persone, soprattutto donne, si sono ribellate rifiutandosi di pagare la spesa, come nelle proteste a Palermo, a Napoli.
Anche per quelle donne che hanno lavorato a casa in smart working, vedi per esempio l’ampio settore della scuola e del pubblico impiego, questa soluzione si è trasformata nella maggiora parte dei casi in un’altra catena: le donne, contemporaneamente, mentre lavorano si devono occupare dei bambini, li devono seguire nella didattica a distanza, devono fare le pulizie, devono cucinare; cioè devono stare continuamente a lavorare senza limiti di orario, con un pesantissimo stress psicofisico.
Padroni e governo hanno realizzato la perfetta “conciliazione di lavoro e famiglia”, non separandoli, ma intrecciandoli minuto per minuto, rendendo così palese il doppio sfruttamento legato all’oppressione patriarcale.
Abbiamo assistito a un ritorno in massa al lavoro a domicilio in chiave moderna, con l’allungamento dei tempi dello sfruttamento, attuando una riduzione dei salari e imponendo un controllo del lavoro più pervasivo grazie a nuove tecnologie, mentre viene garantito il ruolo di riproduzione della forza-lavoro delle donne col lavoro domestico. E per questo moderno lavoro a domicilio, lo sfruttamento lo stanno già organizzando.
Il POLA (Piano Organizzativo del Lavoro Agile) dichiara che dal 1 gennaio 2021 la percentuale dei dipendenti in remoto dovrà salire almeno al 60% in quei settori che hanno sottovalutato questo modello organizzativo, relativamente Pubbliche Amministrazioni. Dietro alle belle parole si nascondono l’inevitabile erosione dei diritti, del salario, specie nelle sue parti “accessorie” (come il buono mensa).
Bisogna conoscere e sviscerare questi meccanismi: non possiamo lasciare il campo libero al patriarcato capitalista. Le loro battaglie, sui luoghi di lavoro, nelle piazze ci hanno dimostrato a lettere di fuoco la necessità di un avanzamento della lotta delle donne sui diversi piani, e dell’urgenza di un femminismo dalla parte della classe lavoratrice, anticapitalista, rivoluzionari
Noi donne dobbiamo rispondere alla violenza con la lotta femminista e di classe: per questo il 27 novembre invitiamo a scendere in piazza a Roma per riaffermare la lotta contro l’oppressione e il doppio sfruttamento che ci sono imposti da patriarcato e capitalismo.
Ylenia Gironella
Laureata in psicologia clinica e di comunità, con specializzazione nel metodo Montessori, educatrice, attivista di Non Una di Meno transterritoriale Marche. Vive a Recanati (MC).