Le politiche antipopolari ‘bipartisan’, il rilancio del militarismo e il carovita hanno fomentato un’ondata di lotta di classe nel cuore dell’Europa imperialista, che tarda ad arrivare in Italia nonostante l’ascesa al governo di una destra chiaramente schierata contro i movimenti sociali e la classe operaia.

In questo quarto numero di Egemonia ragioniamo su diverse questioni strategiche collegate alla questione della convergenza e dell’unità di lotte e movimenti in un tempo, il nostro, dove sta tornando di stretta attualità la definizione di epoca di crisi, guerre e rivoluzioni: come passare dal movimento, dalla rivolta alla rivoluzione sociale per cambiare la società da cima a fondo?


Geopolitica ed economia, economia e geopolitica: fin dai primi giorni della “operazione militare speciale” in Ucraina, il dibattito pubblico ci ha abituato al pensiero di essere spettatori passivi davanti allo sprigionamento di grandi forze sociali incontrollabili, fuori portata – almeno per noi “comuni mortali”. Secondo questa vulgata, il protagonismo politico doveva rimanere in mano ai singoli Stati, alle coalizioni internazionali come l’UE o la NATO o, nel caso migliore, all’ONU. E poco importa se “l’iniziativa della diplomazia” non sia mai riuscita a fermare mezzo conflitto quando i capitalisti interessati non erano d’accordo in tal senso: il mito della diplomazia che lavora per la pace è difficile da sconfiggere.

L’economia globale ha mostrato gravi segni di crisi di fronte alla parziale rottura o indebolimento dei grandi flussi commerciali internazionali e delle catene del valore transnazionali che costituiscono i vasi sanguigni del capitale come sistema mondiale guidato dalle multinazionali della triade (USA, UE e Giappone). Per perseguire i propri interessi economici e per avanzare nell’opera di erosione dello strapotere delle potenze imperialiste occidentali e dei loro alleati, gli attori “revisionisti”, con Cina e Russia in prima fila, sono costretti a usare la violenza interna ed esterna, la minaccia di conflitti armati e infine il loro scoppio reale. Tutto ciò, oggi ben di più che nello scorso secolo, turba profondamente l’infrastruttura complessiva del business. Solo dopo vengono quelle che sono le questioni fondamentali per l’umanità – gli enormi flussi di persone costrette a migrare a causa delle varie crisi e delle guerre, i morti, la devastazione di interi paesi, l’avanzamento del disastro ecologico planetario. In particolare, i fenomeni di grande portata dell’inflazione e del carovita sono stati trattati quasi come fatti naturali, contro i quali sarebbero possibili soltanto interventi dall’alto, dall’altissimo, presentati il più possibile come “tecnici” e quindi sottratti a qualsiasi critica e pressione dalla popolazione subordinata.

A livello di ceto politico borghese, il massimo a cui abbiamo assistito è un vago e confuso riconoscimento che, sì, in qualche modo il grande capitale finanziario e delle utilities (imprese petrolifere, distribuzione dell’elettricità ecc.) sono coinvolti nella spirale che si sta mangiando il potere d’acquisto di centinaia di milioni di lavoratori e popolazione povera (o impoverita) nel mondo, ma tutto si limita poi a qualche sparata sulle tasse agli extraprofitti di alcune grandi aziende energetiche. Ciò equivale a dire che il funzionamento complessivo di queste ultime non sia un problema in quanto tale, eludendo quindi il fatto che attori del genere sono mossi prima e soprattutto dalla ricerca del profitto privato e sono responsabili non solamente del saccheggio delle nostre tasche, ma anche dei paesi ex-coloniali dove la fanno da padrone.

Le uniche vere misure concrete che stanno prendendo i centri strategici del capitale internazionale sono gli aumenti dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali, le quali hanno messo così la parola fine alle enormi iniezioni di liquidità che avevano caratterizzato il decennio post-crisi 2008. La scusa è evitare la spirale inflazione-salari, ma l’attuale aumento dei prezzi non è un fenomeno monetario, bensì deriva dalla speculazione sulle materie prime associate allo scontro in Ucraina e ai colli di bottiglia nelle catene del valore. Questa politica esprime così la disponibilità della borghesia a favorire una recessione (tassi d’interesse più alti disincentivano gli investimenti) per aumentare la disoccupazione e ostacolare la ripresa delle lotte operaie.

I segnali di sviluppo di un nuovo ciclo di lotta di classe nel cuore dell’Europa imperialista hanno infatti prodotto uno strappo nel cielo di carta della corsa al riarmamento, della crociata ipocrita e assassina della NATO per “difendere l’indipendenza dell’Ucraina” – una montatura ideologica smentita dalla condotta reale della borghesia europea nei confronti del paese est-europeo, sottoposto a un vero e proprio saccheggio da parte del capitale imperialista occidentale e a un evidente processo di assoggettamento politico (si veda Egemonia n°3). Una dinamica che non può ridursi all’elemento dell’aggressività politico-militare unilaterale degli USA nel loro tentativo di mantenersi a galla come prima potenza mondiale e gendarme planetario; non fosse altro che per gli ampi margini di manovra che hanno i capitalisti europei e le loro istituzioni, a partire dal “colpo di scena” dello stanziamento di 100 miliardi di euro extra-budget da parte della Germania per preparare un deciso salto di qualità delle proprie forze armate nei prossimi anni.

Lo scoppio di ondate di mobilitazioni e scioperi di interi settori in Europa, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Germania, ha visto finalmente il ritorno della lotta di classe nell’equazione dell’equilibrio capitalista, strappando l’aureola alla “geopolitica” e all’economia, ri-politicizzandole, riportandole sul terreno di ciò che può essere criticato, combattuto, rivoltato. Questa dinamica di un nuovo e importante ciclo di conflitto sociale non è inoltre solamente circoscritta all’Europa, ma investe anche altre regioni, come mostra, ad esempio, la rivolta in Iran, che sta incontrando una feroce repressione. 

Nel contesto delle crescenti contraddizioni economiche e dell’avvicinarsi della fine della legislatura, il governo guidato da Mario Draghi è stato costretto a rassegnare le proprie dimissioni anticipate, aprendo le porte alla vittoria elettorale della coalizione guidata da Giorgia Meloni, in controtendenza con le battute d’arresto della destra “trumpiana” internazionale, che ha subito due arretramenti (non certo definitivi) in Brasile e negli USA, con la rielezione di Lula e il mancato trionfo previsto nel parlamento yankee dei candidati repubblicani.

In Italia, la classe lavoratrice non è però entrata nell’arena in modo organizzato “in grande stile” e con un suo profilo distinguibile: pesa il circolo vizioso di sconfitte e ristrutturazioni, cominciato negli anni ‘80 del secolo scorso e approfonditosi nel decennio post-crisi, segnato dalla vittoria di Marchionne alla Fiat contro la lotta di Pomigliano nel 2010 e da pesanti contro-riforme del mercato del lavoro come il Jobs Act. Tale processo non può però essere compreso senza analizzare l’impatto della strategia di collaborazione di classe dei sindacati di massa, tra i principali responsabili politici degli arretramenti avvenuti negli ultimi anni, come ci spiegano Lorenzo Lodi e Marco De Leone nel loro articolo, dopo aver inquadrato teoricamente il fenomeno della burocrazia sindacale. Anche in queste settimane, l’atteggiamento iper-concertativo della dirigenza CGIL fa della forza organizzativa del sindacato un fattore di passività della classe, piuttosto che uno strumento per portare il malcontento sul terreno del conflitto. “Il nostro ruolo non è di essere un sindacato di opposizione o di governo, ma un sindacato autonomo che difende gli interessi dei lavoratori, dei pensionati, dei giovani, delle donne” ha dichiarato recentemente Landini. Non soltanto c’è il tradizionale rifiuto di promuovere senza indugi la lotta e favorire il protagonismo della classe operaia, con tutto il suo peso strategico, ma viene a cadere persino il velo ideologico del “popolo della sinistra” contrapposto per principio alla destra. In realtà, si tratta dell’epilogo di una traiettoria, quella di Landini, sempre subalterna all’iniziativa e alle compatibilità della classe dominante sin dai tempi del suo segretariato in FIOM. La crescente compromissione dei vertici burocratici con i governi tecnici e di centro-sinistra, responsabili delle peggiori misure anti-operaie negli ultimi anni, non è peraltro sfuggita a importanti settori di lavoratori. Così, nel clima di passività favorito dalla stessa strategia a perdere di Landini (e prima di Camusso), non c’è da sorprendersi se idee conservatrici hanno cominciato a serpeggiare nella base del sindacato, facilitando i tentativi della destra reazionaria di darsi una coloritura popolare. Ora che questa destra ha vinto, ecco Landini favorire, o quantomeno non contrastare, le illusioni degli strati più arretrati dei lavoratori nei confronti del nuovo governo. È bene dire apertamente che ciò significa un progressivo arretramento politico da parte della CGIL e un cul de sac dal quale si può uscire soltanto con uno slancio dei lavoratori e delle lavoratrici, rompendo la cappa d’inerzia che i burocrati continuano a imporre. Si tratta di unire la capacità di organizzare la propria attività e lotta, in maniera opposta alla strategia di concertazione passiva, con una messa in discussione aperta, politica, della linea della burocrazia, dall’assemblea nell’ultimo dei posti di lavoro fino ai congressi delle organizzazioni sindacali, come quello in corso della CGIL dove l’opposizione alla linea “landiniana” è molto debole e senza una prospettiva chiara per il sindacato e per il movimento in generale. Gli operai della GKN hanno dato lezioni e stimoli in questa direzione con la conduzione coraggiosa della loro battaglia contro i licenziamenti, in cui si è tentato di allargare il fronte della mobilitazione con il movimento Insorgiamo. Tuttavia una questione centrale rimane in sospeso: come può formarsi un riferimento alternativo della classe lavoratrice e della gioventù, in cui queste possano organizzarsi e darsi una direzione indipendente dal centrosinistra, dai tentativi di assorbire lo spazio politico populista di sinistra operato dal M5S, e dai ceti dirigenti conciliatori di movimento che vedono con terrore la possibile radicalizzazione anticapitalista degli attivisti? Come può esserci un processo che permetta di raccogliere e investire le punte avanzate di lotta operaia recente come quelle all’Ansaldo e al porto di Genova, o nella logistica?

Innanzitutto, si tratta di inquadrare il nuovo contesto politico, dopo che l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni è entrato ufficialmente in carica lo scorso 22 ottobre. Si tratta di una coalizione che i media mainstream definiscono di centro-destra, mentre settori della sinistra riformista tendono a soffermarsi principalmente sulla presunta natura “fascista” di Fratelli d’Italia. Su questa caratterizzazione vanno chiarite senz’altro due cose, così da comprenderne meglio la natura e le possibili evoluzioni. Primo: questo esecutivo non è la stessa cosa del centrodestra che governò nel 2008-11, nonostante molti dirigenti politici di allora siano ancora ai loro posti. La componente centrista è numericamente minoritaria e, per quanto l’influenza “centrista” liberale esista, questa si esercita perlopiù come pressione esterna di altri “poteri forti” – come la Chiesa, la burocrazia UE, gli USA e la NATO. In secondo luogo, l’etichetta di fascista a Fratelli d’Italia è scorretta sia sul piano dell’analisi sia su quello della lotta politica. Nel primo caso perché tutta una serie di elementi caratterizzanti i partiti fascisti (corporativismo, rifiuto della democrazia borghese, milizie paramilitari) sono assenti in Fratelli d’Italia, così come è assente l’ambiente sociale che li giustificherebbe come carta politica urgente da giocare per il grande capitale: in Italia ci sono voluti gli strascichi della prima guerra mondiale e la sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria – ma non la fine della paura borghese della rivoluzione – per giustificare l’ascesa del fascismo. Inoltre, esagerare il pericolo eversivo rappresentato dal nuovo esecutivo spinge l’asse dell’opposizione al governo sul profilo social-liberista del centrosinistra, che può essere ripreso strumentalmente anche da altri attori politici e sociali per piazzare colpi “facili” contro Giorgia Meloni e i suoi: una politica inerziale che ha avuto il suo picco con le elezioni del 2006 e la loro polarizzazione politica del tutto virtuale, e che oggi può contare molto di meno su un’adesione di massa all’ideologia dell’antifascismo democratico, che si scontra da decenni con le politiche del centrosinistra dettate da banchieri e industriali.

Il fatto di trovarsi di fronte a un esecutivo che non è né di centrodestra né fascista, ma semplicemente di destra, non chiarisce però ancora molto, correndo anche il rischio di alimentare una lettura “indifferentista”, che rimane impotente di fronte alla politica nazionale e alle sue evoluzioni. Capire gli elementi di continuità e discontinuità dell’esecutivo Meloni rispetto al governo precedente è quindi fondamentale per pensare alla lotta politica contro di esso. Da un lato, essendo un partito emerso dalla riconfigurazione della destra, nato appena dieci anni fa e cresciuto esponenzialmente sul versante elettorale negli ultimi 2/3 anni, Fratelli d’Italia non è la pura espressione di nessuno dei settori rilevanti della classe capitalista italiana. Al contrario, il suo principale referente sociale è un pulviscolo di mezze classi composto da albergatori, ristoratori, balneari, tassisti, proprietari di piccole attività, commercianti e alcuni settori di classi medie professionali. La manovra economica in via d’approvazione si rivolge politicamente a questi settori, avvantaggiati dall’aumento dei pagamenti in contanti fino a 5 mila euro, una flat tax per le partite Iva fino a 85 mila euro annui, e da una serie di misure strutturalmente ininfluenti, ma dal chiaro valore simbolico come, ad esempio, la detassazione delle mance dei camerieri al 5 percento – come se queste fossero mai state dichiarate, e con il chiaro obiettivo di legalizzare i pagamenti fuori-busta, generalizzati nella ristorazione – oppure il rifiuto di multare i commercianti che non permettono di pagare con la carta fino ad un importo di 60 euro – come se questo fosse mai avvenuto. Il messaggio è però chiaro: fate “nero”, ma non troppo. A questo si deve aggiungere una crescente influenza di settori legati alla criminalità organizzata che hanno, come mostrato anche da alcune inchieste della magistratura, approcciato Fratelli d’Italia in quei contesti dove è emerso come partito di governo. Ciò non significa ovviamente che il partito di Giorgia Meloni sia stato interamente penetrato dalle mafie e la leadership dell’attuale prima ministra non potrebbe essere più distante su questo fronte da quella di Silvio Berlusconi. Per quanto Meloni rivendichi una continuità con Paolo Borsellino – anche lui giovane missino – il punto sostanziale che rimane è però l’esigenza delle mafie in quanto settore “criminale” della borghesia nazionale di trovare una sponda politica. Proprio la base sociale di Fratelli d’Italia, in gran parte costituita da settori – dagli alberghi ai ristoranti fino agli stabilimenti balneari – dove le mafie tradizionalmente riciclano i propri soldi, rende questo partito strutturalmente poroso e facilmente avvicinabile. 

Allargando il campo all’intera coalizione di governo notiamo poi come il lento esaurirsi di Berlusconi e del suo partito renda la Lega, storica rappresentante delle aziende di piccole e medie dimensioni dell’area del nord-est, la principale espressione degli interessi confindustriali nell’esecutivo, come ben documentato dal fatto che i ministeri-chiave di infrastrutture e trasporti, da un lato, ed economia, dall’altro, siano andati rispettivamente a Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti. Diversamente dalla squadra guidata da Draghi, l’attuale esecutivo non è insomma l’espressione organica del grande capitale italiano, storicamente incapace di costruire una base di consenso larga alle sue posizioni e costretto a tenere a bordo una schiera di ceto medio bottegaio sproporzionatamente grande in confronto ad altri paesi europei (in Italia la percentuale di salariati sul totale della forza-lavoro è del 75%, contro il 90% di Germania e Francia). 

Ciò non significa che quando emergono contraddizioni cruciali tra l’interesse della grande e della piccola borghesia, sia quello della seconda a prevalere: lo sta dimostrando l’attuale manovra, in cui – mentre la priorità è portare avanti i grandi piani infrastrutturali legati al PNNR ed elargire soldi a pioggia per contrastare l’aumento dei costi di produzione legato ai prezzi dell’energia – si prospetta il ridimensionamento di alcune misure care alla piccola imprenditoria. Si sta infatti lavorando per ridimensionare il bonus 110 sulle ristrutturazioni, approvato da Conte durante la Pandemia: una manna per le centinaia di migliaia di padroncini nella filiera dell’edilizia (che va dai costruttori, fino a idraulici, elettricisti, imbianchini ecc.). Nello stesso solco, verrà eliminato il super ammortamento per l’acquisto di beni strumentali generici, lasciando attivi solo gli incentivi per l’acquisto di tecnologia 4.0 (a cui evidentemente sono interessate più le grandi imprese che le piccole).

Detto questo, c’è da tenere conto che i venti miliardi di aiuti contro l’aumento dei costi energetici lasciano discreti margini per il compromesso tra il grande capitale e la base sociale piccolo-borghese imprenditoriale del governo, in un quadro in cui la sospensione del patto di stabilità e i fondi europei associati al PNRR permettono maggiori disavanzi di bilancio, rispetto a qualche anno fa. Analogamente, non possono passare inosservati la riduzione del cuneo fiscale in busta paga e quota 103 per le pensioni. Si tratta di misure che, per quanto modeste e decisamente al di sotto di quanto sbandierato in campagna elettorale, sono volte a dividere i lavoratori: la prima configura un aumento del reddito netto per chi beneficia di un contratto collettivo, a scapito degli investimenti pubblici in sanità, educazione ecc., e del reddito di cittadinanza (che vanno invece a vantaggio dell’intera classe, disoccupati compresi); la seconda, facilita la pensione per i soli lavoratori più anziani, in quanto misura una tantum. Nel complesso, la strategia del governo punta quindi ad allargare parzialmente la propria base sociale ai settori più privilegiati della classe operaia, sbandierando invece la fine del reddito di cittadinanza come una misura simbolica a favore di chi lavora e contro chi passerebbe le giornate sul divano. La stessa “flat tax” non si configura come una tassa piatta sul redditi, ma come uno sconto fiscale sulla differenza tra i guadagni da un anno all’altro.

La tendenza di fondo è tuttavia quella di un peggioramento della situazione economica, la quale andrà ad aggravare gli elementi di criticità dell’esecutivo che gode di un consenso poco strutturato ed è espressione di una minoranza nel paese, come l’alta astensione e la maggioranza relativa ottenuta dalla destra nelle urne ci ricorda. L’aumento dei tassi d’interesse targato BCE, infatti, non riesce a frenare il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro (a causa della stretta monetaria ancora maggiore impostata dalla Federal Reserve statunitense), fatto che incrementa il costo dei beni importati – in primis gli idrocarburi – e quindi l’inflazione. Inoltre, tale manovra mette sotto pressione paesi fortemente indebitati come l’Italia e favorisce una nuova recessione: l’Fmi ha infatti previsto una riduzione del Pil italiano nel 2023 (-0,2%). Questo in una fase in cui l’aumento dei prezzi ha raggiunto l’11,9% su base annua (dati di ottobre). Una congiuntura del genere va inoltre collegata alla guerra in Ucraina e alle crescenti tensioni tra Washington e Pechino, che l’ultimo incontro tra Biden e Xi alla COP 27 in Egitto non sembra aver stemperato, trattandosi di tensioni strutturali, legate alla difesa del monopolio tecnologico e dell’egemonia capitalistica mondiale di Washington. 

Non è di scarsa importanza, allora, per analizzare lo sviluppo dello scontro sociale nel nostro paese, enfatizzare come sul versante più strettamente politico-ideologico, il governo Meloni si sia dato un profilo marcatamente reazionario, con ampio spazio per personaggi delle frange estremiste cattoliche, con la “bava alla bocca” contro “la teoria gender” e il diritto all’aborto, nonostante le promesse di Meloni stessa durante la campagna elettorale per non spaventare il “centro”. È probabile che l’impossibilità di creare un blocco sociale che incorpori economicamente alcuni settori delle classi popolari, spingerà l’esecutivo ancor di più a torcere verso destra in termini di diritti politici e civili, senza fermarsi a una singola legge-trofeo come quella “contro i rave”. Questo non accadrà ovviamente in questi primi mesi, dato che il governo è impegnato a chiudere la manovra di bilancio. Potrebbe però prendere avvio come “campagna di primavera”. Per fronteggiare questa possibile crociata reazionaria è fondamentale che i movimenti transfemminista, studentesco, e ambientalista si saldino nelle mobilitazioni e nelle rivendicazioni col movimento operaio. Questo compito costituisce una sfida e un impegno strategico per gli anticapitalisti, per i rivoluzionari: non solo per orientare il movimento per farlo crescere ed evolvere, ma anche per polarizzare e organizzarne un’ala sinistra, a partire dalla quale contendere la direzione alle forze social-liberali, interessate a portare avanti un’opposizione a-sociale contro il governo Meloni.

Come in questo numero argomenta il pezzo di Giacomo Turci, non si tratta di dare una generica orientazione di sinistra: la crisi storica delle vecchie correnti riformiste europee ha agevolato l’emersione di un nuovo tipo di strategia politica a sinistra, il neoriformismo, che mantiene il suo baricentro politico nella lotta parlamentare-elettorale e non costituisce un’alternativa valida al rilancio della lotta di classe nella prospettiva della rivoluzione e del socialismo. Proprio della natura della lotta di classe – e quindi delle rivoluzioni – come motore della storia, e perché anche nel XXI secolo la classe lavoratrice può giocarvi un ruolo centrale ed egemonico, discutono Turci e Gianni Del Panta recensendo il libro “Rivoluzione” dello storico Enzo Traverso. I nuovi legami che si stanno creando tra lotta ecologista, lotta contro la guerra e lotta di classe, dunque proprio nell’ottica della convergenza e saldatura tra distinti movimenti sociali, sono al centro dell’articolo di Diego Lotito, che ragiona nell’ottica di una comune prospettiva rivoluzionaria dei movimenti che si oppongono alla catastrofe che la nuova epoca di crisi, guerre e rivoluzioni sta preparando e scatenando. Su un altro versante fondamentale per una lotta unitaria contro il sistema in quanto tale, dunque contro il capitale e il patriarcato, proponiamo una ricca intervista di Juan Dal Maso, già noto ai nostri lettori per il suo Il marxismo di Gramsci, a Andrea D’Atri, dirigente del PTS argentino e storica fondatrice della corrente femminista socialista internazionale Pan y Rosas, rappresentata nel nostro paese dal gruppo Il pane e le rose – Pan y Rosas Italia. 

Riprendendo proprio le parole di Andrea D’Atri, il momento storico estremamente dinamico, ma anche potenzialmente catastrofico nelle sue possibili evoluzioni, ci impone di pensare che la prospettiva della ‘resistenza infinita’ o della riforma pacifica e concordata del sistema non possa assolutamente essere il nostro obiettivo, ma che sia possibile e doveroso pensare a come prepararci a vincere le sfide della lotta di classe e della rivoluzione sociale che questo secolo continuerà ad offrirci.

Questo articolo fa parte del numero 4, dicembre 2022, della rivista Egemonia.

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