La spirale internazionale di inflazione e carovita stringe in una morsa la popolazione subordinata insieme al rilancio del militarismo, innanzitutto in Europa, moltiplicato dalla guerra in Ucraina. In questo terzo numero di Egemonia ragioniamo sul ruolo strategico della classe lavoratrice come forza nella società e come soggetto politico: una base di partenza per pensare a come rispondere a questi attacchi nella lotta di classe.
Chiudiamo questo numero mentre l’invasione russa in Ucraina è entrata nel suo quinto mese. L’esito finale del conflitto così come la data della sua conclusione rimangono altamente incerti. La brutalità dell’offensiva delle truppe di Vladimir Putin e i suoi devastanti effetti sulla popolazione ucraina sono invece fuori discussione. Per quanto il numero delle vittime tra i civili rimanga imprecisato, si stima che oltre 10 milioni di persone, pari a circa il 25% della popolazione, siano state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni. Alcuni milioni tra questi sono sfollati interni, la maggioranza ha invece attraversato i confini ed è arrivata in uno dei paesi dell’Unione Europea (UE), smascherando così l’ipocrisia delle potenze occidentali che, dopo aver eretto muri e fili spinati contro i profughi siriani, sembrano quasi fare a gara per ospitare il maggior numero possibile di ucraini. Sul fronte opposto, le perdite russe ammonterebbero ad oltre 30mila soldati. Un dato difficile da confermare, ma non inverosimile: sarebbe, nel caso, un numero maggiore di quanto registrato dall’Unione Sovietica in nove anni di guerra in Afghanistan. Per quanto sia quindi scorretto affermare, come fatto da molti commentatori, che la guerra sia improvvisamente tornata in Europa dopo 70 anni di pace, omettendo così, ad esempio, i conflitti in Jugoslavia, in Kosovo e la “guerra a bassa intensità” (capace comunque di causare circa 14mila vittime) combattuta proprio nel Donbass a partire dal 2014, è certamente vero che siamo di fronte ad un salto qualitativo rilevante e che sarebbe scorretto non comprendere.
Al momento, il conflitto è geograficamente circoscritto ed è probabile che rimanga tale. Fattori come la possibilità per le potenze occidentali e per gli Stati Uniti in primis di portare avanti una guerra per procura e lo straordinario strapotere militare che la NATO vanta rispetto alla Russia – la prima spende circa 20 volte di più rispetto alla seconda in armamenti e tecnologie militari – lasciano infatti supporre che questo sia l’esito più plausibile. Ciò non significa, ovviamente, negare in assoluto la possibilità che il conflitto possa allargarsi: la guerra in Ucraina ha già determinato una forte recrudescenza delle linee di conflitto esistenti tra le potenze imperialiste e non, così come ha causato l’improvvisa emersione di nuove faglie: una provocazione fuori misura, una reazione eccessiva, oppure una serie di conseguenze inattese messe in moto da decisioni all’apparenza poco significative posso certamente estendere il conflitto oltre i confini ucraini. Ciò detto, ci sembra scorretto soccombere, come molti anche a sinistra fanno, alla presunta ineluttabilità dell’allargamento della guerra e al conseguente rischio di un conflitto atomico. In maniera non sorprendente, visioni apocalittiche rispetto al pericolo concreto dell’utilizzo dell’arma atomica vengono costantemente rilanciate da giornali e media mainstream al fine di creare una situazione di permanente tensione e di annichilimento delle energie radicali che l’opposizione al conflitto può generare.
Il carattere geograficamente limitato della guerra in Ucraina ha comunque determinato – ed è questo a nostro giudizio l’elemento più importante da cogliere al momento – effetti sociali ed economici di portata globale. La debole ripresa economica post-pandemica sembra essersi già arenata. Tutte le stime al riguardo sono state tagliate al ribasso dalle principali istituzioni economiche e per molti paesi la ricchezza prodotta nel 2022 rimarrà inferiore a quella del 2019. Questo avviene, per di più, in un contesto di forte polarizzazione di classe, dove il “rimbalzo” del 2021 è stato in gran parte il prodotto di una forte accelerazione da parte del capitale sul tasso di sfruttamento della manodopera, sulla sua precarizzazione e sull’aumento dei ritmi di lavoro. Questo non significa ovviamente che gli effetti della guerra in Ucraina siano omogenei. Al contrario, il loro carattere rimane straordinariamente diseguale. Nei paesi della periferia capitalista, specialmente quelli fortemente dipendenti dalle importazioni di grano (Tunisia, Egitto e Libano) e fertilizzanti (Kenya, Ghana e Camerun) provenienti da i due paesi belligeranti, si registrano pesanti aggravi per le casse statali, penurie di generi alimentari e un incontrollato rialzo dei prezzi. Il combinarsi di questi fattori, proprio mentre le condizioni di vita di milioni di lavoratori vanno impoverendosi in maniera drastica, spinge gli stati al varo di nuove politiche di austerità e al taglio dei sussidi sui generi di prima necessità, creando un contesto potenzialmente proficuo allo scoppio di proteste. Sul fronte imperialista, l’invasione militare russa ha provocato due principali fenomeni a livello macro-strutturale: rallentamento della crescita e, anche in virtù dell’aumento del costo dell’energia, forte impennata dell’inflazione. Per arginare la seconda, la presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Christine Lagarde, ha deciso di alzare i tassi di interesse di 25 punti base per il mese di luglio, con un probabile ulteriore incremento a settembre. Questo non ha al momento minimamente scalfito la crescita dei prezzi che colpisce soprattutto il potere d’acquisto della classe lavoratrice che, gravata da una dinamica salariale che non riesce minimamente a tenere il passo dell’inflazione, subisce l’aumento dei carburanti, dei generi alimentari e delle bollette. Nel caso in cui questa spirale inflazionistica dovesse protrarsi, come appare probabile, per i prossimi mesi e arrivare fino all’autunno, si creerebbe con ogni probabilità la necessità anche per i sindacati confederali – con la Cgil in testa – di lanciare una qualche forma di mobilitazione collettiva. Come successo in occasione dello sciopero generale dello scorso 16 dicembre, le centrali sindacali lancerebbero una serie di date di protesta con la doppia finalità di riaffermare la propria utilità di fronte ai lavoratori e di controllare la direzione della mobilitazione stessa. Il compito delle forze di sinistra e di quelle rivoluzionarie in particolare sarà quello di sfruttare questa possibile finestra di opportunità per creare coordinamenti tra i lavoratori dal basso e mettere in moto un processo che possa tracimare gli angusti argini posti dalle burocrazie sindacali.
La guerra in Ucraina ha avuto però riflessi importanti anche sul dibatto politico a sinistra. Se da un lato la politica borghese legata all’imperialismo europeo porta avanti l’idea di una guerra giusta, a difesa dei presunti valori fondanti dell’UE e riempie di armi l’Ucraina, dall’altro la stragrande maggioranza della sinistra di classe ha assunto posizioni che, a nostro avviso, sono del tutto scorrette e mancano di cogliere il ruolo preponderante dell’imperialismo europeo nel conflitto. In questo numero, Lorenzo Lodi affronta nel dettaglio queste posizioni della sinistra di classe in Italia, criticando quanti, seppur in contrasto con l’azione bellica, riducono il conflitto in Ucraina ad un “mero” scontro tra USA e Russia (quasi a riprodurre vecchi schemi pre-1989 di stampo campista), nel quale l’UE sarebbe di fatto un attore secondario e subordinato alle volontà di Washington. Tali posizioni sostengono anche che l’Europa possa agire da mediatore del conflitto, magari con il coinvolgimento attivo delle Nazioni Unite. Così facendo, restano tuttavia ancorate alle logiche dello Stato borghese e dell’imperialismo europeo, escludendo ogni eventuale posizione indipendente e di classe. E allora come opporsi efficacemente alla guerra?
Una possibile, seppur indiretta, risposta ce la fornisce l’articolo di Giacomo Turci che si concentrata sull’importanza della posizione strategica della classe lavoratrice all’interno del sistema capitalista. Riconoscere come la classe operaia e, in modo più specifico, alcuni settori di questa ricoprano una posizione chiave nel processo di valorizzazione del capitale significa non solamente cogliere il potenziale reale dei lavoratori e delle lavoratrici, ma anche essere coscienti che vi sia la possibilità di ribaltare i rapporti di forza e creare una situazione, seppur non nell’immediato, che vada verso la rivoluzione socialista. Alcune recenti azioni di segmenti della classe lavoratrice evidenziano proprio la possibilità che un numero anche relativamente ridotto di lavoratori rispetto al totale della popolazione disponga di un potenziale strategico e d’impatto che possa contribuire a spostare gli equilibri di forza tra le classi. Un esempio al riguardo è certamente lo sciopero dei trasporti indetto dal sindacato RMT (Rail, Maritime Transport) che ha paralizzato la Gran Bretagna nella seconda metà di giugno. Secondo molti osservatori, questa è stata la più forte mobilitazione nel paese degli ultimi 30 anni e ha visto una partecipazione di circa 40.000 lavoratori e lavoratrici del settore ferroviario nazionale e urbano (metropolitana), oltre che dei principali porti del paese. Con un tasso di inflazione al 9% e l’abbassamento dei salari reali dopo lo scoppio della pandemia, la mobilitazione dei lavoratori britannici ha di fatto messo in ginocchio un intero paese e ha costituito un vero e proprio slancio per i lavoratori stessi che ora, come affermano alcuni di loro sulle pagine del Socialist Workers (Ord 2022), si augurano un’ulteriore ondata di mobilitazioni.
La centralità della classe lavoratrice emerge anche dall’intervista realizzata da Gianni Del Panta a Ida Nikou, dottoranda in sociologia all’università statale Stony Brook di New York e studiosa del movimento operaio iraniano, che ci racconta due recenti esperienze di consigli di fabbrica in Iran. Il tema delle esperienze consiliari lo abbiamo già affrontato a più riprese sia sulle pagine di questa rivista che sulla Voce delle Lotte stessa, e ricopre certamente una grande importanza soprattutto nelle situazioni rivoluzionarie, quando la creazione di una fase di potere duale è centrale per gettare le basi di un possibile successo rivoluzionario. In maniera interessante, quanto Nikou evidenzia è un’interpretazione non riduzionistica – cioè non meramente concentrata sulla classe lavoratrice – dei due consigli operai in Iran. Nella sua prospettiva infatti, la mobilitazione dei lavoratori deve fungere non solamente da rampa di lancio per l’emersione di una classe sempre più cosciente, ma deve anche essere capace di catalizzare le rivendicazioni sociali e politiche provenienti da altri settori ed essere così in grado di ampliare lo spazio della mobilitazione per far veramente convergere la massa di sfruttati e sfruttate sotto la direzione della classe lavoratrice. Le due esperienze iraniane, nonostante la restrizione dello spazio politico, sono riuscite in un qualche modo a produrre un effetto realmente dirompente solamente quando hanno abbandonato i muri delle fabbriche, diventando il centro gravitazione di un diffuso malessere sociale.
Tale nodo, ovvero quello della convergenza delle lotte a partire dalla mobilitazione dei lavoratori, è approfondito nella seconda intervista presente in questo numero. Emilio Albamonte e Matias Maiello, dirigenti del PTS argentino, a ridosso del XIX congresso del partito, tentano infatti di delineare le posizioni teoriche che esso sta assumendo in questo delicato periodo storico. Si tratta innanzitutto, anche sulla scorta della situazione internazionale, di penetrare con più forza all’interno della classe lavoratrice e ampliare il processo di formazione di avanguardie rivoluzionarie in grado di portare avanti l’idea di un cambiamento radicale dello stato di cose presenti. Albamonte e Maiello lo fanno attraverso la restituzione di alcuni concetti centrali di due importanti rivoluzionari, Antonio Gramsci e Lev Trotsky, con il preciso intento di far uscire la sinistra di classe dalla gabbia del riformismo e per evitare, come gli esempi del passato insegnano, che questa diventi organica allo Stato borghese.
Questo ragionamento ben si collega all’ultimo articolo di questo numero, la recensione che Marco Duò dedica all’autobiografia di Vladimir Lenin di Guido Carpi, docente di letteratura russa all’Università di Napoli ‘L’Orientale’. Il testo mostra l’importanza dell’organizzazione politica e partitica della classe lavoratrice, anche in quei contesti, come potrebbe essere oggi il già menzionato caso dell’Iran, dove la forza repressiva dello stato si scaglia contro ogni forma di organizzazione della classe lavoratrice. Più nello specifico, l’articolo punta al rapporto che vi è tra egemonia e avanguardia. Per i lettori che conoscono già la nostra rivista, questo legame non suonerà nuovo. Su quale possa essere il soggetto incaricato di saldare questi due poli, le nostre opinioni sono però diverse da quanto molti altri a sinistra sostengono. In un articolo comparso sulla rivista online Contropiano il 26 giugno 2022, ad esempio, ci si rammarica del fatto che la mobilitazione del collettivo di fabbrica della GKN (forse la più importante vertenza operaia dell’ultimo decennio) sia stata portata avanti da lavoratori legati alla CGIL, rispetto ai quali non si fa alcuna distinzione da una burocrazia a servizio della classe dominante e delle politiche liberiste del governo Draghi. La tesi fondamentale dell’articolo è che bisognerebbe “sostituire la CGIL con un sindacato di classe” e che non si può insorgere (motto usato dai lavoratori GKN) stando dentro la CGIL. Lasciando perdere la palese contraddizione di una posizione che bolla prima la CGIL come un sindacato completamente giallo e poi riconosce come alcuni lavoratori che ne fanno parte siano stati in grado di condurre una “vertenza straordinaria”, quello che salta agli occhi della tesi sostenuta dall’articolo è il fatto che metta al centro il sindacato – in questo caso, l’USB – come organo dirigente delle lotte dei lavoratori in un’ottica di lotta di classe. Tale posizione relega la classe operaia all’interno della logica economicista e atomizzata del sindacato il quale, per quanto possa essere radicale e indipendente, è oggettivamente ancorato ad una strategia di graduale miglioramento delle condizioni di vita e dei salari dei lavoratori come attori subalterni del capitalismo, non come agenti del suo abbattimento rivoluzionario. Balzano alla mente gli scritti di Rosa Luxemburg, soprattutto “Sciopero generale, partito e sindacato” del 1906, dove vien ben distinto il ruolo del sindacato (come risolutore delle lotte economiche) e quello del partito (come organo della lotta politica generale). Le due cose non sono differenti e parallele, ma ricoprono diversi momenti della lotta della classe lavoratrice. Così, il sindacato può ricoprire una parte di una più ampia strategia rivoluzionaria, a patto però che vi sia un’organizzazione politica, un partito della classe lavoratrice in grado di elaborare quella strategia e di metterla in pratica nella lotta politica, che non è soltanto economica, né tanto meno è circoscritta meramente allo scontro frontale tra classe operaia e borghesia. Se la burocrazia sindacale maggioritaria viene assorbita sistematicamente nello “stato integrale”, dunque, il problema politico non si risolve semplicemente cambiando casacca sindacale e riproducendo, in genere, la stessa dinamica di delega completa verso l’alto, ma un po’ più “a sinistra”. Ciò che serve è uno sviluppo della soggettività, dell’attivismo in prima persona di lavoratori e lavoratrici, non una semplice routine economico-sindacale al seguito di dirigenti più “radicali”.
Questo articolo fa parte del numero 3, estate 2022, della rivista Egemonia.
Riferimenti bibliografici
Contropiano (2022) L’alternativa è nel conflitto, “non si insorge stando nella Cgil”. Verso lo sciopero generale in Autunno. Disponibile a: https://contropiano.org/news/lavoro-conflitto-news/2022/06/27/lalternativa-e-nel-conflitto-non-si-insorge-stando-nella-cgil-verso-lo-sciopero-generale-in-autunno-0150599.
Ord S (28/06/2022) ‘I want more strikes now,’ says RMT Network Rail worker. Socialist Worker. Disponibile a: https://socialistworker.co.uk/news/i-want-more-strikes-now-says-rmt-network-rail-worker.
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