Questo 28 Settembre, giornata internazionale per il diritto all’aborto, sarà il primo giorno, auspichiamo di una lunga fila, di mobilitazioni non solo per rivendicare un diritto storico per le donne italiane che ancora deve essere garantito e legale in molte parti del mondo, ma che si pone l’obiettivo di contrastare le prospettive politiche del nuovo governo eletto con a capo la destra della Meloni.
Necessitiamo essere marea per affrontare le destre e non solo difendere i nostri diritti, ma mettere in discussione questo sistema che non ci rappresenta, tutela e che continua a sfruttarci ed opprimerci.
Per questo motivo come Pan y Rosas saremo in piazza nelle diverse città d’Italia con presidi, manifestazioni al fianco del movimento Non Una Di Meno, unisciti a noi!

 



Il diritto all’aborto è un diritto che ancora oggi in Italia viene troppo spesso dato per scontato, come si può leggere dalle affermazioni della Meloni in merito, ma che di scontato ha ben poco. Nonostante sia un diritto legislativamente conquistato, che questo sia libero, gratuito e di facile accesso per le donne italiane è ancora un miraggio. Per questo necessitiamo utilizzare la lotta per continuare ad avanzare su questo piano ed imporre i nostri bisogni nell’agenda politica di un governo che altrimenti alla meno peggio li accantona, alla peggio li attacca.


L’arma della lotta è mezzo fondamentale, in questa dinamica, perché solo con la lotta nella storia siamo riuscite a strappare i nostri diritti di fronte a governi, da destra a sinistra, che hanno sempre tentato di conservare l’apparato di stato patriarcale che è al servizio del capitalismo. Solo quando la storia ha messo in crisi questo sistema, come durante la Rivoluzione Russa, prima che fosse tradita dalla direzione stalinista, nel mondo abbiamo avuto la prima esperienza in cui questo diritto è stato veramente fruibile a tutte; partire da questa storia ci aiuta a non dimenticare cent’anni di storia, cent’anni di lotta.

La legalizzazione dell’aborto nella Russia sovietica
La pratica dell’aborto, naturalmente, è vecchia come il mondo, ma era fortemente condannata dalle autorità governative e religiose, costringendo molte donne alle pratiche clandestine rischiando la vita e con tassi di mortalità altissimi. Con la Rivoluzione Russa, la separazione tra stato e Chiesa prende realtà così che il problema dell’etica passava dall’essere religioso all’essere sociale.

Nella Russia sovietica all’interno delle fabbriche erano nati i dipartimenti e le commissioni delle lavoratrici, formate da rappresentanti elette, con il rapporto di una rappresentante ogni cinquanta lavoratrici, per tre mesi, il cui compito era quello di mantenere i rapporti e aggiornare vicendevolmente i vertici del partito e le lavoratrici. Furono proprio questi organi a discutere con il governo la questione dell’aborto.

L’argomentazione principale mossa dalle femministe fu quella della sicurezza delle donne. L’aborto era praticato ma fino ad allora si era ricorsi alle ostetriche, ai guaritori o addirittura alle “nonne” del villaggio. Il ricorso a questi rimedi casalinghi portava al sorgere di infezioni, che spesso portavano alla morte, perché i farmaci e gli antibiotici erano pressoché inesistenti.

Le commissioni e i dipartimenti quindi si battevano per la legalizzazione dell’aborto come diritto delle donne di ricevere cure adeguate in strutture statali da parte di professionisti.

In quel periodo cambiò anche il modo di vedere la maternità, considerata in epoca zarista l’unico scopo nella vita femminile, veniva ora considerata una scelta della donna; le donne vennero anche sensibilizzate sulla contraccezione, considerata decisamente meno pericolosa. Tra la primavera e il novembre 1920 il governo sovietico cominciò ad approvare e attuare tutte le misure burocratiche a favore delle donne, a cui abbiamo già accennato, come il congedo di maternità.

Il 18 novembre 1920, sul giornale del comitato esecutivo centrale dei Soviet, apparve il decreto di legalizzazione dell’aborto, approvato per “proteggere la salute delle donne”. Il decreto era soprattutto una condanna all’aborto clandestino e illegale, che metteva a rischio la vita delle donne, e consentiva “questo tipo di operazioni” da eseguire liberamente e gratuitamente negli ospedali sovietici.

I casi di aborti clandestini in Unione Sovietica diminuirono drasticamente, e, per la prima volta, in caso di aborti mal eseguiti o complicazioni successive venivano accusati soltanto i medici che avevano eseguito l’aborto e non le donne che vi si erano sottoposte.

Le stime ufficiali mostravano che la maggioranza delle richiedenti l’aborto aveva già almeno tre figli, segnalate in “Die neue Generation”, rivista che si concentrava sulla maternità e sulla cura dei figli, troviamo un articolo in cui si affermava che la legalizzazione dell’aborto era il primo passo della donna per liberarsi delle 3K: Küche, Kirche e Kinder (cucina, chiesa e bambini).

Helene Stöcker, l’editrice di “Die neue Generation”, pubblicò sempre nel 1925 la traduzione del decreto sovietico, che commentò in questo modo: “la pacifica e obiettiva realizzazione di una domanda per la quale gli uomini e le donne più lucidi d’Europa hanno lavorato invano fino a oggi.

Certamente, in Russia la realizzazione di queste riforme è dovuta anche al lavoro preparatorio di combattenti straordinarie per la protezione della madre come Aleksandra Kollontaj, già membro dell’esecutivo russo e ora ambasciatrice in Norvegia, e la signora Lebedeva, che dirigeva il dipartimento per la protezione delle madri e dei bambini”.

Nella seconda metà degli anni Venti, le stime sulla richiesta di aborto vennero diffuse in Europa dal Dott. A. B. Genss, portavoce ufficiale della Divisione per la protezione della maternità e dell’infanzia del Commissariato della Sanità pubblica, e grande sostenitore dell’aborto.

Nel 1926, pubblicò a Vienna un opuscolo dal titolo “Cosa insegna la depenalizzazione dell’aborto nella Russia sovietica”, in cui esponeva sinteticamente i dati di cui abbiamo discusso finora. Il commento di Genss riguardo l’eccellenza sanitaria sovietica paragonata a quella di stati più avanzati fu lapidario: “A differenza di tutti gli altri paesi, tutte le donne dello Stato proletario possono abortire, se lo desiderano. Se ne hanno bisogno, possono anche abortire a spese dello Stato. La conseguenza è che non ci sono decessi nelle interruzioni artificiali di gravidanza”, e rimarcò anche la nuova posizione della donna che ricorre all’aborto: “Poiché la donna che abortisce non deve subire alcuna punizione, ma solo i guaritori vengono puniti, anche in caso di aborto mal eseguito la donna andrà in ospedale in tempo”.

Nel 1937, nel pieno del terrore staliniano e dopo lunghe discussioni a riguardo, l’aborto tornò a essere nuovamente illegale, tranne in rarissimi casi per questioni di vita o di morte.

Ma i diritti raggiunti dalle donne con la rivoluzione tornarono a imporsi dopo il periodo staliniano, e con il tempo divenne normale vedere nelle città sovietiche le banche del latte materno per aiutare le madri che non potevano allattare, realtà che nel resto d’Europa è molto recente e ancora non molto diffusa.

Per riavere di nuovo il diritto, seppure molto limitato, all’aborto, le donne russe dovettero aspettare il nuovo millennio. Eppure, quei diciassette anni di legalizzazione dell’aborto in Unione Sovietica furono un faro di speranza e di modernità per una generazione di donne che per la prima volta usciva dalla società patriarcale verso l’emancipazione e l’uguaglianza sociale, in un periodo in cui il progresso tecnologico avanzava inesorabile, ma si era ancora preda di una mentalità reazionaria.

Un diritto che ancora oggi viene negato in molti paesi del mondo, così come il riconoscimento dei diritti LGBT. Anche gli omosessuali, così come le donne, vissero un primo periodo di libertà con il potere bolscevico. In questo caso, purtroppo, i diritti degli omosessuali vennero calpestati nel corso degli anni dai vari poteri che si sono succeduti.

Negli anni successivi, fra i primi paesi a riconoscere il diritto all’aborto spiccavano proprio i paesi socialisti. Nel 1956 tocca a Ungheria, Polonia, Bulgaria; nel 1957 l’aborto viene legalizzato anche dalla Cina maoista e dalla Cecoslovacchia. Per fare un paragone, basti pensare che il Regno Unito ha introdotto l’aborto nella sua legislazione solo nel 1968, gli USA nel 1973, l’Italia, come noto, solo nel 1978.

Ancora oggi, in decine di Stati nel mondo, come Giappone, India e la quasi totalità degli Stati africani (esclusi Sudafrica e Mozambico), mediorientali e sudamericani, l’aborto non è un diritto riconosciuto, o relegato a casi eccezionali come quello di pericolo per la vita della madre. Persino nella “progressista” Europa, esistono paesi come l’Irlanda e la Polonia (non a caso, due dei più cattolici) in cui l’aborto è ancora fortemente ostacolato.

Il diritto all’aborto, insomma, è storicamente legato all’avanzata del socialismo e del movimento operaio, affermandosi dapprima nei paesi socialisti, per poi approdare anche nelle società capitalistiche sull’onda delle lotte operaie e di quelle per l’emancipazione femminista. Ma anche l’effettivo riconoscimento e la piena garanzia di questo diritto oggi hanno un carattere di classe. La situazione italiana ne è una riprova.

In contesti dove sono obiettori più dell’80% dei medici, dove per poter abortire bisogna cambiare regione o rivolgersi a costose cliniche private, abortire in sicurezza diventa una prerogativa di chi può permetterselo, e le donne che non possono si vedono precluso questo diritto, o peggio tentano di abortire con metodi clandestini e casalinghi, con enormi rischi per la loro salute. Lottare per l’effettivo riconoscimento del diritto all’aborto, oggi, è una battaglia per il progresso, per l’uguaglianza, contro la discriminazione e l’oscurantismo.


Questa lotta, che riprende il filo rosso con le compagne femministe socialiste che hanno rivoluzionato la storia durante l’URSS, oggi è una tradizione che non va ripresa solo nella retorica, ma soprattutto nei metodi. Non esistono governi amici della donne, finché il sistema patriarcale e capitalista esisterà, l’oppressione e lo sfruttamento verrà perpetrato ai danni delle donne, delle lavoratrici, studentesse, madri e figlie che oggi hanno la forza di unirsi e mobilitarsi in marea per opporre alla destra una vera alternativa: una politica rivoluzionaria che come fu per i movimenti del ‘17 partì dalle donne ma pervase tutti i settori sfruttati e oppressi.

Scilla Di Pietro e Ylenia Gironella

Nata a Napoli il 1997, già militante del movimento studentesco napoletano con il CSNE-CSR. Vive lavora a Roma. È tra le fondatrici della corrente femminisa rivoluzionaria "Il Pane e Le Rose. Milita nella Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR) ed è redattrice della Voce delle Lotte.

Laureata in psicologia clinica e di comunità, con specializzazione nel metodo Montessori, educatrice, attivista di Non Una di Meno transterritoriale Marche. Vive a Recanati (MC).