Nuovi esuberi mascherati si profilano in Stellantis, in parallelo a profitti e dividendi record. Davvero però la multinazionale vuole andarsene dall’Italia e non è possibile una lotta dura che faccia male al portafoglio della proprietà?
Questa settimana FIM, UILM, FISMIC, UGL e Associazione Quadri hanno firmato con Stellantis un accordo per la fuoriuscita volontaria di 2000 lavoratori. Gli stabilimenti coinvolti sono Cassino, Mirafiori, Enti Centrali, Pratola Serra, Termoli e Cento. Si tratta, nei fatti, di nuovi esuberi (dopo 7000 posti di lavoro persi dalla pandemia ad oggi) e non certo legati a una situazione di crisi. Nel 2022 Stellantis ha ottenuto profitti record pari a 16 miliardi, 4 dei quali distribuiti in dividendi agli azionisti.
La FIOM giustamente non ha firmato i ‘licenziamenti mascherati’ e ne ha messo in luce il rapporto con i timori di disimpegno della multinazionale dall’Italia: “Stellantis deve dare risposte e garanzie, sul futuro dei propri stabilimenti, degli enti di staff e dell’indotto dove si stanno per aprire le prime gravi crisi industriali”, dice il sindacato in un comunicato ufficiale. Tuttavia l’opposizione si ferma qui. Più in generale, negli ultimi tempi non ci sono stati tentativi seri di coinvolgere i lavoratori in un processo di organizzazione e lotta contro la ristrutturazione.
Certamente la sconfitta del 2010 contro il piano Marchionne ha pesato e pesa ancora molto: essa si è infatti riverberata in reparti confino e licenziamenti ai danni di molti delegati combattivi. Tuttavia, oltre ad aver avuto forti responsabilità nella debacle di quel movimento, negli anni successivi i vertici FIOM si sono impegnati più a tornare ai tavoli con l’azienda, che a ricostruire rapporti di forza favorevoli sul terreno della mobilitazione. Se stavolta i funzionari del sindacato denunciano l’operazione della multinazionale, non sono mancate le occasioni in cui essi hanno accettato di firmare migliaia di ore di cassa integrazione, assecondando la strategia del padrone volta ad abituare ampi settori operai all’idea dell’espulsione imminente dai cicli produttivi.
Davvero l’Italia non è più centrale per Stellantis?
In un quadro in cui l’unica strategia portata avanti dalla FIOM è quella di chiedere tavoli al Ministero dello Sviluppo Economico, denunciare che Stellantis ‘se ne vuole andare dall’Italia’ (com’è ormai entrato nel senso comune) rischia di suggerire che non ci siano più i rapporti di forza strutturali per impostare una lotta che possa vincere colpendo il portafoglio del padrone con l’arma dello sciopero. Si tratta però di una percezione corretta?
Se è vero che l’occupazione negli stabilimenti ex-FIAT si è ridotta costantemente (passando dai circa 70.000 lavoratori pre-2010 ai 48.000 attuali), ciò non è andato di pari passo a una perdita decisiva dell’importanza dell’Italia nelle strategie del gruppo. Piuttosto, si è trattato di delocalizzare segmenti a basso valore aggiunto e a più alta intensità di manodopera in Polonia e nei Balcani, mantenendo qui veicoli commerciali, a medio-alto valore aggiunto e auto di lusso, quelli insomma su cui il padrone fa più guadagni. Per capirci: la riduzione del numero di panda, fa il paio con l’aumento di Jeep, Maserati e furgoni. Se quindi il numero totale dei salariati diminuisce, aumenta la loro produttività, come attesta il fatto che il valore monetario prodotto in un anno dal singolo operaio automotive italiano passa da 60.000 euro del 2014 a circa 80.000 euro nel 2018 [1]. Nel frattempo, la riduzione della forza-lavoro (come abbiamo già documentato in passato sulla Voce delle Lotte), si è accompagnata a un’intensificazione sempre maggiore dei ritmi per gli operai rimasti, e all’utilizzo crescente di lavoratori precari per coprire i picchi di produzione.
Alla luce dell’ultimo piano strategico di Stellantis, è inoltre probabile che la Francia sarà beneficiata da un maggior numero di progetti legati all’elettrico – il principale stabilimento per la produzione di motori elettrici è infatti oltralpe, a Tramery. Questo tuttavia non significa che l’Italia sarà esclusa dai processi di elettrificazione: a Torino, ad esempio, rimarrà il polo ingegneristico sull’auto elettrica, mentre a Termoli è in costruzione una Gigafactory di batterie. Peraltro, come ci spiega il compagno Vincent Duse, militante di Revolution Permanente e delegato CGT presso lo stabilimento Stellantis di Mulhouse: “anche dalla Francia si continuano a delocalizzare le produzioni meno costose e a maggiore intensità di manodopera in Europa dell’est, per focalizzarsi su automobili più care. È in questo modo che l’azienda riesce a fare profitti giganteschi”. Da un lato i lavoratori dei due versanti delle Alpi hanno quindi gli stessi interessi nella battaglia contro Stellantis, dall’altro essi possono ancora far molto male al padrone con l’arma dello sciopero.
No alla passività dei vertici sindacali. La classe operaia deve unirsi, anche oltre i confini!
Di fronte alla ristrutturazione in atto in Stellantis è necessario rispondere con la richiesta di una riduzione dell’orario di lavoro e dei ritmi a parità di salario, per mantenere l’occupazione. Tutto ciò collegandosi ai lavoratori della componentistica, i quali saranno i più colpiti dalla transizione all’auto elettrica (che richiede molti meno pezzi rispetto a quella con il motore termico). Per dare forza a una battaglia del genere sarà anche importante creare e saldare legami con il movimento ecologista e rivendicare una reale transizione ecologica, con la conversione dell’automotive al servizio della mobilità pubblica, un risultato che a sua volta può essere ottenuto solo con la nazionalizzazione del settore sotto il controllo dei lavoratori e degli utenti.
Una lotta in Stellantis – il principale gruppo operante nella penisola – sarebbe d’altro canto fondamentale per far ripartire un processo di mobilitazione più generale in Italia, quindi per ottenere aumenti salariali e una scala mobile sulle retribuzioni in grado di contrastare il carovita galoppante. Vanno inoltre creati e rafforzati i legami internazionali tra gli operai italiani e quelli francesi, consapevoli degli interessi in comune e del fatto che le minacce del padrone di spostare la fabbriche trovano un limite nella strategia di tenere in Europa occidentale le produzioni ad alto valore aggiunto. Certo, per sbarazzarsi della spada di damocle delle delocalizzazione è parimenti necessario coordinarsi con i lavoratori dell’Europa dell’est, rivendicando aumenti salariali uguali per tutti e redistribuzione delle produzioni più innovative a livello continentale. Non è certo nell’interesse dei lavoratori Polacchi, Serbi ecc. continuare a vivere con paghe da fame e, in futuro, a dover importare la maggior parte delle vetture elettriche, rimanendo relegati a produzioni antiquate e inquinanti.
Django Renato
Note
1. Calcolo dell’autore su dati Eurostat – Structural Business Statistica.
Ricercatore indipendente, con un passato da attivista sindacale. Collabora con la Voce delle Lotte e milita nella FIR a Firenze.