La vittoria di Javier Milei al ballottaggio lo scorso 20 novemebre ha animato varie analisi e discussioni, che vanno dal tentativo di spiegare la sua vittoria elettorale a quello di discernere quali cambiamenti sociali, ideologici e culturali potrebbero essere alla base del suo emergere. Traduciamo questo interessante spunto di Juan Dal Maso, militante e intellettuale marxista del Partito Socialista de los Trabajadores (PTS), già noto ai nostri lettori come autore di Il marxismo di Gramsci, uscito in italiano a cura nostra, per Red Star Press, nel 2021.

Secondo Dal Maso, Milei appare più come un’espressione della crisi organica del capitalismo argentino che come una soluzione ai suoi problemi.


Egemonia, eterogeneità, ideologia

Discutendo con chi diceva che con Milei è arrivato il fascismo e ora dice che bisogna aspettare e vedere cosa farà, Ariel Petruccelli ha fatto notare che le diverse varianti della politica borghese possono essere intese come espressioni di un “centro estremo” che le comprende tutte. Né i sedicenti anti-neoliberisti vengono meno ad alcuni capisaldi del neoliberismo (come la precarizzazione del lavoro e la degradazione delle funzioni “universali” dello Stato), né i “fascisti” staccano i piedi dal piatto liberaldemocratico, anche se tendono a essere seguaci di forme politiche bonapartiste. Alcuni non sono nemmeno keynesiani, mentre altri non immaginano nemmeno di creare Stati corporativi. Sebbene da questo punto di vista il panorama sembri ineccepibile, è più discutibile dal punto di vista del rapporto di forze: l’estrema destra irrompe sulla scena politica cercando di far pendere l’ago della bilancia molto più decisamente a favore del capitale di quanto non siano in grado di fare le varianti di “estremo centro”; ed è sostanzialmente in questo che consistono gli annunci di Milei.

Si è discusso molto sul fantasma rappresentato elettori del candidato libertariano [ndt in America – tanto negli USA, quanto nel ‘cono sud’ – con il termine “libertarian” (in inglese) e “libertariano” (in spagnolo) si intende la destra ultra-liberista]. Il problema del “neoliberismo popolare” appare chiaramente: l’appello di Milei ai giovani lavoratori informali, le cui condizioni di vita e la cui esperienza con il “mimetismo dello Stato” (per dirla con Pablo Semán) coincidono di default con la prospettiva ultra-liberale e il discorso individualista. Ma c’è anche il tradizionale settore antiperonista delle classi medie e una buona parte della borghesia: i voti prestati dal PRO [ndt Propuesta Repubblicana, raggruppamento del centro-destra neoliberista tradizionale legato all’ex premier Macri, e alle elezioni di questo ottobre capeggiato da Patricia Bullrich] senza i quali non avrebbe potuto vincere. Insomma, un blocco sociale molto ampio ha votato per il candidato di La Libertad Avanza. Ma la forza dei numeri non deve far pensare a un’omogeneità delle componenti. Se dovessi scegliere – per caratterizzare questo blocco – tra il termine egemonia e il termine coalizione eterogenea, sarei più propenso a scegliere il secondo che il primo, per diverse ragioni.

In primo luogo, il rifiuto della modalità di gestione dell’economia da parte del governo del Frente de Todos/Unione per la Patria [ndt coalizione guidata del centro-sinistra peronista guidata da Massa] è stato un fattore determinante per il voto, al di là delle questioni ideologiche o valoriali (anche se un terzo degli elettori di Milei sono neoliberali convinti). In secondo luogo, se è vero che il “neoliberismo popolare” può essere visto come un modo per la borghesia e l’alta borghesia di imporre la propria ideologia ai lavoratori, ai poveri e ai marginalizzati urbani e, quindi, c’è una forma elementare o un tentativo di creare un’egemonia, non è meno vero che questa confluenza non si basa su una solida articolazione di interessi comuni, né ha una solida costruzione politica, né può essere sostenuta in momenti decisivi – se non grazie a un preventivo disciplinamento del clima sociale indotto dall’iperinflazione, il che non sembra essere il caso. I settori popolari di questo blocco subiranno – come minimo – gli aumenti delle tariffe e la svalutazione, mentre lo stesso non accadrà alla borghesia e ai settori medi e ricchi ad essa legati. Per questo motivo ritengo che sia più appropriato pensare in termini di un’accozzaglia o addirittura – per usare una parola più semplice – una ammucchiamento di settori diversi, che solo in condizioni eccezionali potranno rimanere uniti nel medio termine. In questo senso, Pedro Karczmarczyk sostiene che l’aspettativa popolare che il governo di Milei possa migliorare la situazione è molto simile a un sogno.

In questo caso potrebbe essere in gioco anche una caratteristica più generale del capitalismo contemporaneo: i modelli classici di egemonia, cioè il liberal-parlamentare e lo Stato integrale (sorto come risposta alla crisi del primo), sono in grave difficoltà perché presuppongono articolazioni sociali e politiche il cui circolo virtuoso ha smesso di funzionare da tempo. Le tendenze alla frammentazione sociale e la crisi della politica rendono difficile pensare che il modello teorico dell’egemonia possa spiegare ciò che accade nella realtà. Diverso è il caso della categoria di “crisi dell’egemonia”, molto più vicina alle instabili costruzioni politiche del presente (e alla loro presa su una certa ideologia di massa caratterizzata dall’antipolitica) o alla definizione dell’ideologia come forza materiale. Althusser una volta criticò Gramsci perché la sua teoria degli apparati egemonici definiva gli apparati egemonici in termini di risultato e non di motore, mentre lui era propenso a parlare di apparati ideologici. Non è questa la sede per affrontare nel dettaglio i contorni teorici di questo approccio althusseriano, ma vorrei sottolineare che, da un punto di vista piuttosto pragmatico, la discussione potrebbe aiutarci a riflettere sul presente. Il capitalismo del nostro tempo si basa molto più sull’ideologia che sull’egemonia, per la semplice ragione che può produrre discorsi, immagini e desideri di consumo, molto più di quanto possa produrre condizioni di vita che facciano sentire le masse popolari integrate in esso attraverso il benessere materiale. Da qui anche la crisi dei meccanismi istituzionali che mediano questa integrazione. Se questa lettura fosse più vicina a quanto sta accadendo nella realtà, implicherebbe non sottovalutare minimamente i possibili cambiamenti ideologici che sembrano essere alla base del voto per Milei, ma anche non sopravvalutare il livello di articolazione politica che essi implicano.

Ritorno al passato

Gran parte del peronismo si sta già facendo i “conti in tasca” in vista di un ritorno nel 2027.

Queste letture sono in linea con alcune analisi delle “oscillazioni del pendolo” nella politica latinoamericana, secondo le quali, in linea con i cicli economici, i governi passano da coalizioni di destra a coalizioni “progressiste”, e viceversa. Il punto è che questi pendoli non oscillano avanti e indietro nello stesso punto. I governi “progressisti”, poco inclini a intaccare interessi fondamentali, come quelli delle banche, del complesso agro-esportatore, delle multinazionali o del FMI, non invertono le controriforme della destra, ma si limitano, nel migliore dei casi, a offrire auspicabilmente qualche palliativo di fronte alla crisi o, peggio ancora, ad amministrare direttamente l’aggiustamento, come fece il governo Alberto-Cristina-Massa.

Si tratta di un approccio politico che, in larga misura, è quello che ci ha portato a questo punto. Un approccio che consiste fondamentalmente nell’annullamento della possibilità di affrontare seriamente la lotta e la resistenza e puntare tutto sulle coalizioni elettorali, come ha fatto il peronismo con il suo tristemente memorabile “Hay 2019”, o anche come ha fatto il PT in Brasile che, insieme alla CUT, ha lasciato passare tutti gli attacchi di Temer, poi ha sopportato stoicamente l’incarcerazione di Lula, con poche lotte contro il governo di Bolsonaro e poi è tornato al governo in un fronte con Alckmin, cioè un referente chiave del neoliberismo brasiliano.

La sinistra nel periodo post-restaurazione

Citato in un articolo di Mariano Schuster e Pablo Stefanoni, Horacio Tarcus ha sottolineato: “Queste elezioni non rappresentano solo una sconfitta del kirchnerismo, di Unión por la Patria o del peronismo in generale. Sono soprattutto una sconfitta della sinistra. Una sconfitta politica, sociale e culturale della sinistra, dei suoi valori, delle sue tradizioni, dei diritti conquistati, della sua credibilità”. Diciamo che Tarcus non ha bisogno dei trionfi di Milei per sentenziare la sconfitta della sinistra (lo fa da diversi decenni). Ma ha così tanta fretta di emettere una sentenza del genere che – sicuramente senza questa intenzione – finisce per sminuire le responsabilità che il pessimo governo del peronismo ha in questo risultato elettorale. E, in secondo luogo, confonde questo risultato con un processo a lungo termine, come una sorta di “riforma intellettuale e morale” libertaria ultra-reazionaria.

Sarebbe sciocco non riconoscere che Milei (e non solo lui) persegue l’obiettivo di plasmare un senso comune ultraliberista e reazionario nella maggioranza della popolazione, o almeno un’ideologia pratica neoliberista di massa che risiede nell’accettazione del fatto che l’unica via d’uscita dalla crisi è un brutale aggiustamento (fiscale, delle tariffe e del cambio peso/dollaro). Né si può negare che questo senso comune favorevole all’aggiustamento abbia fatto presa su una buona parte dei suoi elettori. Ma vale la pena ricordare che lo stesso Macri ha ottenuto il 40% dei voti alle elezioni del 2019, dopo aver portato avanti un governo disastroso. Da questo punto di vista, l’avanzata delle posizioni neoliberiste è più di grado che di qualità. Ciò che sembrerebbe più qualitativo (e che si era già delineato nel periodo 2015-2019, ma senza l'”audacia” di oggi) è la crescita dei discorsi pro-dittatura e contro i diritti delle donne e i diritti sociali in generale che fanno parte dello spazio di Milei, e che lui stesso ha rivendicato, ad esempio, nel primo dibattito presidenziale.

Ma questo dovrebbe ancora passare attraverso un lungo tratto di lotta politica, ideologica e culturale per imporsi come senso comune predominante nella società. Di passaggio, un dato curioso: un sondaggio condotto dal ricercatore Javier Balsa (UNQ/CONICET) e dalla sua équipe tra le elezioni del 22 ottobre e il ballottaggio ha mostrato che il 17,9% degli elettori di Milei al primo turno riteneva che il capitalismo può portare benessere solo se uno Stato forte ridistribuisce i profitti, e il 9,7% era vicino all’idea che bisognerebbe sperimentare il comunismo o il socialismo per evitare gli errori del passato, perché il capitalismo non funziona. Chiaramente, questo non ha impedito loro di votare per Milei, né cambia il carattere del progetto del presidente eletto, ma dimostra – a parte un certo grado di confusione o dissociazione tra la risposta e la scelta del candidato – che la questione ideologica e valoriale non è così netta come suggeriscono letture affrettate.

In ogni caso, non è necessario aderire al disfattismo cronico di Tarcus per constatare che le idee della sinistra di classe sono oggi una minoranza nella società argentina. In questo senso, Petruccelli conclude l’articolo che abbiamo citato all’inizio sottolineando anche che dobbiamo prepararci a un nuovo scenario anche se “le forze che anelano a un cambiamento veramente rivoluzionario partono da una situazione di estrema debolezza politica e di notevole incertezza intellettuale”.

Questo ci riporta a una domanda che circola – per buone e cattive ragioni – in vari ambienti: come spiegare che in mezzo a una crisi di grandi proporzioni non ci sia stata una crescita significativa della sinistra?

La risposta più semplice è che la maggior parte delle persone non è d’accordo con il nostro programma (o non lo conosce abbastanza bene per giudicarlo). Mi sembra però che si debbano cercare altre ragioni, le quali hanno a che fare con questioni di più lungo periodo. Siamo nella fase di restaurazione post-borghese (meglio conosciuta come “offensiva neoliberista”), in un momento di transizione del sistema internazionale degli Stati e in una crisi economica che continua, a rilento, senza lasciare intravedere alcuna via d’uscita dal 2008. Le condizioni soggettive sono cambiate da quel momento del famoso “Non c’è alternativa”, ma rimangono alcune delle coordinate fondamentali individuate da Mario Tronti nel suo libro “Il crepuscolo della politica (1998)”: il declino del movimento operaio come soggetto politico centrale sulla scena mondiale (al di là della sua continuità e persino della sua ricomposizione come soggetto sociale) e il primato dell’antipolitica come senso comune delle masse (correlato ideologico della politica neoliberista di eliminare tutti gli ostacoli possibili di fronte all’automatismo del mercato). Anche se nel caso di Mario Tronti l’approccio comportava una chiara nostalgia per la formula classe operaia = partito comunista e la sua prospettiva sulla ricostruzione della politica è lontana dalla nostra, i suoi punti sulla generalizzazione delle concezioni del mercato, sulla sostituzione dei partiti socialmente radicati con coalizioni ‘sovrastrutturali’, della classe per il popolo e altre questioni, sono utili per riflettere su alcune caratteristiche di quel momento che sono ancora presenti oggi.

In questa fase post-restaurazione, è al contempo da notare una crescita della lotta di classe, che non rimane nei limiti di conflitti singoli, ma prende la forma di varie ribellioni popolari con le caratteristiche della rivolta. Tuttavia, per le caratteristiche stesse delle rivolte, che mettono in discussione lo status quo, ma non hanno sbocchi politici chiaramente strutturati dal basso, sono state seguite da ricomposizioni conservatrici (“progressiste” o di destra).

Per quanto riguarda la confusione intellettuale, potremmo avanzare che essa risieda essenzialmente nella mancanza di modalità efficaci per collegare la produzione teorica alla costruzione politica. Come abbiamo già ripetuto ad nauseam, il marxismo ha recuperato un certo prestigio intellettuale nel campo della spiegazione della crisi – a cui si possono aggiungere vari contributi alla comprensione della crisi ecologica, del rapporto tra classe operaia e movimenti identitari, e molto altro ancora – ma la sua influenza politica è chiaramente in ritardo.

Queste coordinate ci permettono di situare, pur non esimendoci dall’analisi più concreta di situazioni specifiche, le situazioni paradossali che si presentano sull’attuale scena politica internazionale: crisi del capitalismo, discredito del “neoliberismo progressista”, ascesa di movimenti di estrema destra e modeste traiettorie a sinistra. In sostanza, in queste condizioni, il ragionamento “crisi → crescita della sinistra” deve superare alcuni problemi soggettivi per essere verificato. Lo si vede anche nella crisi del movimento trotskista, all’interno del quale, nonostante le molteplici difficoltà, l’unica organizzazione che avanza, seppur lentamente, è la Frazione Trotskista. In questo quadro si inserisce anche l’autodistruzione del mandellismo sotto lo slogan del “fronte anti-neoliberale”, che alcuni suoi simpatizzanti locali verbalizzano in modo caricaturale e con l’unico risultato di donare militanti al peronismo.

Il caro vecchio Lenin e la gramsciana “cultura di sinistra”

Vecchio e caro Lenin, non per i rituali di sette sedicenti leniniste che si credono depositarie della strategia ma hanno gravi limiti pratici, né per le rivendicazioni “politiciste” (come quelle di Daniel Bensaïd) di un Lenin che sapeva cogliere le opportunità, come se non avesse svolto un paziente e austero lavoro di preparazione politica quando queste scarseggiavano. Lenin è il nome che riassume colui che oppone forza materiale a forza materiale, colui che è pronto a fare nuove esperienze e a esercitare le più svariate forme di lotta, a partire dalle tre fondamentali indicate da Engels: lotta economica, lotta politica e lotta teorica.

Paragonando il pensiero di Lenin e di Martov, Trotsky disse che quello di Lenin era come i meccanismi della centrale elettrica del Dnieper e quello di Martov come un fine meccanismo a orologeria. Mentre quest’ultimo nuotava come un pesce nell’acqua nelle questioni di politica parlamentare e sovrastrutturale, Lenin cercava di pensare ai processi su larga scala.

Questo modo di pensare fece sì che Lenin intendesse lo sviluppo di un partito rivoluzionario non come un apparato burocratico, ma come un’organizzazione con vasi comunicanti, ingranaggi, per convergere con il movimento di massa. Nelle condizioni attuali della situazione argentina, potremmo tradurre queste idee come: lotta per l’unità della classe operaia al di là di tutte le sue divisioni, fronte unito delle organizzazioni di massa (con le relative richieste alle direzioni sindacali ufficiali), coordinamento e raggruppamento dei settori militanti, costruzione di frazioni di classe nei sindacati, frazioni socialiste nei movimenti femminili e studenteschi, e lotta per una cultura di sinistra che affronti i nuovi problemi dell’epoca come precondizione e/o correlazione per una forte sinistra politica.

Alcune considerazioni finali sul tema della cultura di sinistra. Horacio González una decina di anni fa, dopo un’elezione legislativa in cui la FIT ottenne un buon risultato (entro i parametri di una forza minoritaria), ci fece notare che il radicamento della sinistra nella nostra società nazionale era ancora debole. Sebbene lo sviluppo del lavoro teorico, ideologico e politico-culturale del PTS (e, in misura minore, quello di altre forze dello spettro della sinistra) cerchi di contribuire a questa questione, è chiaro che esiste una sproporzione tra la portata della nostra voce e quella dell’ideologia filocapitalista nelle sue numerose varianti. L’influenza ideologica e culturale – come la intendeva Gramsci – fa parte dei rapporti di forza politici. Oltre alle battaglie che si porranno nell’immediato, dobbiamo pensare a questo problema a medio termine, cercando di rafforzare la lotta delle idee e lo sviluppo di spazi di organizzazione politico-culturale per contrapporre alle idee dell’individualismo neoliberista ultra-reazionario quelle della fraternità, del cameratismo e della solidarietà umana, che sono alla base del comunismo come progetto di società.

Juan Dal Maso

Traduzione da Ideas de Izquierda

Nato a Buenos Aires nel 1977, vive a Neuquén. Membro del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) dal 1997, è autore di "Il marxismo di Gramsci. Note sui quaderni del Carcere" (pubblicato in spagnolo, portoghese e italiano) e "Hegemonía y lucha de clases. Tres ensayos sobre Trotsky, Gramsci y marxismo" (Ediciones IPS, 2018), oltre a vari articoli su temi della teoria marxista.