La vittoria del candidato di estrema destra Javier Milei al secondo turno delle elezioni presidenziali argentine di domenica 19 novembre ha suscitato numerose analisi e dibattiti a sinistra. Milei avrà la capacità di colpire duramente il mondo del lavoro e i movimenti sociali, come ha promesso, e di porre le basi per un regime ultra-autoritario? Quali sono le riserve del movimento operaio in un Paese come l’Argentina, tradizionalmente caratterizzato da una forte capacità di resistenza sociale?

Di questo parliamo con Fernando Rosso, membro della direzione nazionale del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS), redattore de La Izquierda Diario e collaboratore dell’edizione argentina di Le Monde Diplomatique, e Jean Baptiste Thomas, docente, studioso dell’America Latina contemporanea e membro del comitato editoriale di RP-Dimanche, la nostra rivista di lingua francese che ha curato l’intervista.


RP Dimanche (RPD): Prima ancora di iniziare, come spieghi il risultato di domenica scorsa [ndt 20 novembre], con 14,5 milioni di voti e il 55,7% per l’estrema destra, e quello di Massa, con tre milioni di voti in meno e il 46,3%?

Jean Baptiste Thomas (JBT): Dato il carattere del personaggio Milei, le sue esternazioni ultra-provocatorie e divisive, i suoi commenti schietti e totalmente reazionari, il suo lato esuberante e follemente di destra – anche se ha cercato di smussare la sua immagine adottando occhiali e un tono un po’ professorale nelle sue dichiarazioni conclusive durante i dibattiti televisivi – il punteggio può effettivamente sembrare incomprensibile, soprattutto in un Paese come l’Argentina dove l’estrema destra è sempre andata al potere solo attraverso colpi di forza e putsch militari.

Ma se guardiamo a chi si è opposto a Milei al secondo turno, allora la cosa ha un senso. Sergio Massa è il ministro dell’Economia uscente. È associato a un’inflazione che si avvicina al 150%, con il 40% della popolazione sotto la soglia di povertà relativa, il 10% della quale vive in condizioni di estrema povertà. Mentre la maggior parte degli acquisti di beni di consumo durevoli viene effettuata in dollari, il tasso di conversione dollaro-peso sul mercato ufficiale era di 1 dollaro per 36 pesos nel gennaio 2019, quando il governo uscente è salito al potere, rispetto a 1 per 375 oggi, e questo tasso sale a 1 per 995 sul mercato informale. E cosa proponeva Massa contro Milei in questa situazione? Da un lato, un governo di “unione”, cioè con il partito di destra che è stato al potere dal 2015 al 2019 e che, secondo lo stesso Massa, è stato responsabile dell’onere del debito che egli ha ereditato – ma che ha contribuito ad aumentare e che, soprattutto, ha ripagato per intero. Dall’altro lato, ha invitato a rimboccarsi le maniche affinché nel lungo periodo, senza mai fissare una tempistica precisa, i frutti della crescita siano meglio distribuiti. Una sorta di “teoria del gocciolamento” associata alla logica della collaborazione di classe del peronismo, ma dimenticando l’aspetto redistributivo, reale o fittizio, che è sempre stato il tratto distintivo di questa tradizione politica. Dal punto di vista macroeconomico, Massa ha invitato il Paese ad attendere il prossimo raccolto di soia – l’Argentina è il primo esportatore mondiale e il raccolto del 2023 è stato particolarmente disastroso – e l’avvio del mega-campo di Vaca Muerta, che renderebbe il Paese il secondo per riserve di gas di scisto e il quarto per riserve di petrolio di scisto al mondo. In altre parole, si continua a optare per l’estrattivismo e per un approccio di esportazione primaria, che è stata la ricetta dei governi Kirchner quando i prezzi delle materie prime sul mercato internazionale erano alti fino al 2013. Questo senza che per anni le popolazioni più povere e vulnerabili dell’Argentina abbiano potuto vedere i benefici tangibili di un progetto economico che, invece, ha fatto la fortuna di alcuni padroni locali e transnazionali, ed è stato all’origine di numerosi scandali che hanno infangato i governi Kirchner.

In questo contesto, Milei è l’espressione, a destra, di un ‘grande calcio nel formicaio’, una sorta di versione reazionaria del “Que se vayan todos!” (“Che se ne vadano tutti!”) che fu al centro delle Giornate rivoluzionarie del dicembre 2001, le quali portarono al rovesciamento del governo guidato dal radicale di centro-destra Fernando De La Rúa. La conseguente crisi di regime spazzò via uno dei due pilastri della politica argentina da un secolo, il partito radicale (UCR), e scosse le fondamenta del partito giustizialista (peronista), che tuttavia fu mantenuto in sella dal kirchnerismo dopo il 2003. In questo senso, la vittoria di Milei ha “finalizzato” questa logica, non nelle strade, ma nelle urne, non a sinistra, ma a destra, infliggendo al Partito Giustizialista la peggiore sconfitta dal 1983, quando il suo candidato, Ítalo Luder, proveniente dalla destra del partito come Massa, perse al primo turno.

Di fronte a Massa e a un orizzonte bloccato, Milei ha proposto risposte individualiste, semplici, persino semplicistiche, tipiche di un programma di estrema destra. Ma a differenza di Trump, che ha lanciato un’OPA sul Partito Repubblicano, e a differenza di Bolsonaro, che ha contato su solide connessioni all’interno delle forze armate, in particolare tra gli ufficiali in pensione, la polizia, l’agroalimentare e le chiese evangeliche, Milei manca di un apparato, anche se l’ex presidente Macri [ndt centrodestra neoliberista tradizionale] è venuto in suo soccorso e ha messo i suoi quadri e le sue strutture al suo servizio. Si tratta ora di capire come l’ex candidato “anarcocapitalista” e “liberal-libertario” trasformerà il suo già traballante progetto in un governo coerente della borghesia, al servizio del capitale e dell’imperialismo, come ha apertamente richiesto.

RPD. Nel suo ultimo saggio, Fernando, L’egemonia impossibile (La hegemonía imposible: Veinte años de disputas políticas en el país del empate. Del 2001 a Alberto Fernández), spieghi che una delle caratteristiche principali del regime argentino è l’incapacità di ciascuna delle forze sociali che aspirano a guidare il Paese di imporre il proprio progetto politico in modo egemonico, con il risultato di una sorta di costante “pareggio” tra le forze in gioco. Come vede le potenziali contraddizioni del futuro governo Milei?

Fernando Rosso (FR): Mi sembra che Javier Milei sia proprio un outsider che irrompe in questa situazione di equilibrio o, se vogliamo, di “pareggio” che esiste in Argentina e che si sta manifestando non solo sotto forma di crisi politica, ma anche sociale ed economica, in altre parole come crisi organica. In questo senso, Milei incarna un tentativo di risposta bonapartista di destra. Esprime una svolta a destra nella popolazione come reazione di pancia alla crisi, al malessere sociale, ai salari, ai redditi e alle pensioni che non tengono il passo. Ma è anche l’espressione di una reazione alla “narrazione” progressista che è stata una vera e propria “narrazione ufficiale” promossa dai più alti livelli dello Stato negli ultimi due decenni, con l’eccezione della presidenza Macri tra il 2015 e il 2019. Questa narrazione affonda le sue radici in quello che Nancy Fraser ha definito “neoliberismo progressista”: in altre parole, un discorso progressista formulato da organi statali o governativi, che include alcune misure concrete per i diritti democratici e le libertà del movimento femminile o LGBTQI+, ad esempio, ma che non si è mai discostato da un’agenda economica neoliberista del tutto ortodossa o austera. Questa politica neoliberista è stata la regola, sia durante il secondo mandato di Cristina Kirchner, in particolare nel periodo 2013-2015, sia sotto il Macrismo, naturalmente, e ancora, naturalmente, durante la presidenza di Alberto Fernández, di cui Cristina Kirchner è stata vicepresidente e Sergio Massa ministro dell’Economia, nell’ultimo anno.

Questa agenda neoliberista avrebbe dovuto essere negoziata tra i governi e i vari attori. Resta il fatto che si è trattato di politiche di austerità che hanno portato a un calo significativo della quota dei salari sul PIL e che sono alla base della crisi che ha profondamente scosso le due coalizioni che si sono succedute al potere negli ultimi dieci anni, “Juntos por el Cambio”, “Insieme per il cambiamento”, guidata da Macri, per la destra, e il “Frente de Todos” e poi il suo successore, “Unione per la Patria”, per il centro-sinistra.

JBT: C’è una specificità discorsiva nella “campagna Milei” – che preannuncia un certo numero di contraddizioni in quello che potrebbe essere il “governo Milei” – ma che testimonia anche questa crisi, di cui parla Fernando, e che rivela le condizioni in cui il candidato di estrema destra si appropria di riferimenti che non sono generalmente quelli della destra. Due sono gli elementi che punteggiano sistematicamente i suoi discorsi e interventi: il “Qué se vayan todos!” e la “colonna sonora” dei suoi incontri, in questo caso la canzone “Se viene el estallido”, un classico del rock alternativo argentino del gruppo La Bersuit Vergarabat. La canzone “Che se ne vadano tutti”, un riferimento all’odio verso i potenti e i politici che ha caratterizzato la crisi sociale e politica del 2001, è stata ripresa da Milei con un nuovo tocco. Quanto a “¡Se viene el estallido!”, un classico del rock alternativo argentino dei La Bersuit Vergarabat, gruppo molto noto nel mondo di lingua spagnola, è stato composto nel 1998 con un chiaro contenuto anti-neoliberale e ha accompagnato tutte le mobilitazioni sindacali e sociali della fine degli anni Novanta. Ogni volta, Milei svuota questi slogan di ogni contenuto sovversivo e sociale, per riappropriarsene e renderli adatti alla sua agenda di destra. Questo è anche l’espressione di una crisi di rappresentanza e rappresentatività su cui il suo movimento, “La Libertad Avanza”, è riuscito a navigare con un elettorato giovane.

FR: La questione del livello di conflitto sociale è davvero fondamentale. In questo senso, l’altro elemento che mostra uno spostamento del cursore politico verso destra è legato all’assenza della lotta di classe. Come ha sottolineato Jean Baptiste all’inizio della nostra intervista, la situazione sociale del Paese è abbastanza simile a quella vissuta durante l’ultima grande crisi, tra il 2001 e il 2002. La grande differenza, tuttavia, è il livello di lotta di classe, oggi quasi inesistente. Tralasciando, a livello locale, la situazione della provincia di Jujuy dello scorso giugno, che ha visto la mobilitazione congiunta delle popolazioni indigene e dei lavoratori del settore pubblico, sia contro il saccheggio delle ricchezze che contro il giro di vite autoritario che il governatore Gerardo Morales voleva imporre, l’ultimo grande episodio nazionale di lotta di classe risale al dicembre 2017. All’epoca si trattò di una vasta mobilitazione contro la proposta di riforma del sistema pensionistico. Macri intendeva presentare un programma economico del tutto simile a quello di cui parla oggi Milei. Questa reazione ideologica, in parte legata all’assenza di lotta di classe e alla crisi della rappresentanza, è un fattore da tenere in considerazione e si esprime in questo risultato, la vittoria elettorale dell’estrema destra, del tutto inaspettata in un Paese come l’Argentina.

RPD: La crisi del 2001 ha contribuito a rimodellare profondamente il regime argentino. La vittoria dell’estrema destra è la fine di un ciclo? Che ruolo avranno il peronismo e la destra macrista in un governo che si preannuncia il più debole degli ultimi quarant’anni, viste le caratteristiche del campo di Milei?

FR: C’è una combinazione di diverse crisi. Alcuni parlano della crisi specifica del regime post-2001 che, per ricomporre lo spettro politico, ha portato all’emergere del kirchnerismo sul versante del peronismo di centro-sinistra e del macrismo su quello di destra. Successivamente, sia il kirchnerismo che il macrismo hanno dovuto costituire delle coalizioni e la “forma coalizione” in quanto tale era già l’espressione di una crisi di rappresentanza, poiché nessun partito era abbastanza forte per governare da solo. Così come esiste oggi, il sistema è in crisi. “Juntos por el cambio”, la coalizione messa in piedi da Macri tra la destra tradizionale e ciò che restava dell’UCR, in particolare, è in mille pezzi. Una parte di questa coalizione, che comprende Macri e Patricia Bullrich, la candidata arrivata terza al primo turno, sta giocando la carta dell’integrazione nel progetto di governo che Milei sta mettendo insieme. Il peronismo, da parte sua, sta affrontando una sconfitta importante, se non la più grande della sua storia. Ha mantenuto la sua roccaforte nella provincia di Buenos Aires, la più importante del Paese dal punto di vista elettorale, e più precisamente nella cintura operaia della capitale, nonché nella provincia di Córdoba, ma si tratta di un peronismo più di destra. Le due personalità che si contenderanno la guida del Partito Giustizialista sono Axel Kicillof, il governatore rieletto al primo turno per la provincia di Buenos Aires, che rappresenta un peronismo di centro-sinistra con forti legami con Cristina Kirchner, e Juan Schiaretti – arrivato quarto alle elezioni presidenziali – o il suo successore alla guida della provincia di Córdoba.

Ma mi sembra che l’attuale crisi che il peronismo sta attraversando sia molto più profonda di quella del 2001, perché è una crisi nei confronti della sua base popolare. Storicamente, il peronismo ha incarnato la rappresentazione del mondo del lavoro in Argentina. Anche quando la classe operaia ha subito un profondo processo di destrutturazione negli anni ’80 e ’90, sotto l’impatto dell’agenda neoliberista, il peronismo ha continuato a rappresentare i settori popolari in un modo o nell’altro. Successivamente, la destra di Macri e ora l’estrema destra hanno rubato voti, invaso il suo territorio elettorale e, a livello locale, talvolta eroso seriamente la sua base popolare.

Resta da vedere, tuttavia, se questa avanzata elettorale della destra tra le classi lavoratrici sia l’espressione di un’identificazione ideologica e programmatica con la formazione ultra-liberista di Milei o se questo risultato sia semplicemente il riflesso di un sentimento di stanchezza che, da un punto di vista congiunturale, si è tradotto in un voto per l’estrema destra a causa di tutto ciò che abbiamo detto. Quel che è certo, però, è che non c’è più un’identificazione automatica tra le classi lavoratrici e il peronismo, che finora poteva sentirsi garantito dai voti delle classi lavoratrici. Questo è ormai un ricordo del passato. E ciò che rimane è una crisi di rappresentanza di questi settori, contro cui anche la sinistra rivoluzionaria deve lottare e combattere.

RPD: Le elezioni di domenica scorsa hanno anche segnato un nuovo passo avanti nella crisi economica che ha colpito il Paese. Il piano di riforme presentato da Javier Milei implica sia la necessità di infliggere una sconfitta alla classe operaia sia quella di mettere alle strette le burocrazie sindacali, non riuscendo a farle collaborare. Come vede il ruolo della dirigenza sindacale nel prossimo mandato?

FR: Non c’è nulla di scritto nella pietra per quanto riguarda il ruolo della leadership sindacale. Visti gli attacchi annunciati da Milei, devono aver detto che non si lasceranno attaccare, almeno questo è quanto emerge dalle loro dichiarazioni. In ogni caso, hanno mostrato più fermezza di quanta ne abbiano avuta di fronte al governo Macri, con il quale avevano subito optato per la collaborazione. La CGT, la cui leadership è legata ai peronisti, generalmente molto “partecipativa” e poco incline a rompere con il quadro della collaborazione di classe, ha mostrato un discorso più critico di quanto ci si potesse aspettare. Questo non significa che passerà dalle parole ai fatti, ma è comunque sintomatico della situazione in cui si trova il Paese. Negli ultimi giorni, alcuni sindacati e correnti sindacali hanno dovuto indire assemblee generali nei luoghi di lavoro.

È più probabile che i vertici sindacali scelgano di isolare le lotte tra loro, nel caso si sviluppino, e che si rifiutino di ipotizzare un movimento complessivo. Ciò significherebbe mettere in difficoltà il governo Milei fin dall’inizio, soprattutto se si considera che la sua base parlamentare è molto debole, poiché non ha una maggioranza al Congresso, sta cercando di costruirla e la sua coalizione, in ultima analisi, non è altro che la somma di cricche politiche.

In poche parole: Milei è politicamente debole, la situazione economica è molto complessa e, in questo contesto, un’offensiva centralizzata e globale del movimento operaio lo metterebbe molto probabilmente in grande difficoltà. In questo senso, i leader sindacali sono molto attenti a ciò che dicono e a ciò che propongono. Rappresentano un fattore di contenimento e, se necessario, sono a favore dell’ordine. Ma vedremo come si evolverà la situazione nelle prossime settimane. L’aspetto più interessante è vedere cosa succede nel ‘sottosuolo’, dal basso, in alcuni settori. Ad esempio, tra alcune categorie di dipendenti pubblici, tra gli insegnanti della provincia di Buenos Aires, all’interno del sindacato SUTEBA, nel settore dei media pubblici, tra i lavoratori del Ministero del Lavoro, ma anche nel settore stradale, ci sono state assemblee, mozioni e dibattiti sulla risposta da mettere in atto, così come tra i ricercatori universitari e all’interno del movimento dei lavoratori disoccupati. E il movimento delle donne sarà ovviamente in prima linea nella mobilitazione del 25 novembre, poiché uno degli obiettivi principali di Milei è attaccare i diritti delle donne e del movimento LGBTQI+ e persino, per alcuni dei suoi sostenitori più radicali, mettere in discussione il diritto all’aborto, conquistato nel 2020.

JBT: Il fatto che il futuro governo sia pieno di debolezze strutturali non lo rende meno pericoloso. Ma il fatto che sia pericoloso non deve farci dimenticare che non esiste una traduzione automatica dalla retorica ultra-reazionaria all’efficacia politica. Per Milei e i suoi sostenitori non c’è nulla di definitivo. Tutt’altro.

Al di là della specificità delle misure “a motosega” che vuole inserire nella sua agenda economica, alcuni economisti molto moderati, per nulla di sinistra, hanno messo in guardia contro la sua strategia di implementazione delle controriforme, paragonandole a quelle che il governo Menem riuscì a mettere in atto alla fine degli anni ’80, e ancora alla fine degli anni ’90, la politica perseguita dal superministro dell’economia Domingo Cavallo – il “padre” della convertibilità dollaro-peso, esplosa in volo nel 2001 – o quella propugnata da José Martínez de Hoz, ministro dell’economia sotto la dittatura tra il 1976 e il 1981. In ogni caso, a parte il trasferimento del reddito dal lavoro al capitale e il ripristino di un certo tasso di redditività per i settori più concentrati o legati alle multinazionali, i programmi economici citati si sono rivelati incapaci di mettere in atto un modello economico sostenibile a lungo termine. Al contrario, tutti hanno sistematicamente portato a grandi crisi che sono state trasferite nell’arena politica, nel 1982-1983, con la caduta della dittatura dopo la guerra delle Falkland e in un contesto di intensa mobilitazione, o nel 2001, nell’ambito delle “Giornate rivoluzionarie” che hanno rovesciato il governo De La Rúa e poi Rodríguez Saá, nel giro di poche settimane.

D’altra parte, per concentrarsi solo sul periodo del menemismo (1989-1999), non bisogna dimenticare che l’introduzione di programmi neoliberisti che prevedono privatizzazioni e l’introduzione della parità dollaro-peso – del tutto simile alla dollarizzazione auspicata da Milei – non ha significato una pausa nella lotta di classe, tutt’altro. Alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, l’agenda neoliberista si è insediata nel contesto di un’intensificazione degli scioperi e delle lotte nel settore pubblico, tra gli insegnanti e nelle imprese statali. Alla fine, questi sono stati sconfitti, in gran parte perché messi al muro dalla burocrazia sindacale peronista, ma il processo è durato almeno due anni del primo mandato di Menem. Successivamente, il conflitto si spostò a livello territoriale, con focolai di lotta per i generi alimentari di base, come a Santiago del Estero nel 1993, e a livello sociale, con l’ascesa di vari movimenti di lavoratori disoccupati – alcuni dei quali erano appena stati licenziati da imprese pubbliche – con la nascita e il consolidamento del movimento piquetero, prima a Neuquén, poi a Salta e a Jujuy nel nord del Paese. Questo fenomeno, inizialmente limitato ad alcune province dell’interno del Paese, si è poi diffuso e radicato nelle periferie della capitale e il movimento piquetero è stato uno dei protagonisti del ciclo di lotte culminato nelle Giornate Rivoluzionarie del dicembre 2001, fino ai giorni nostri.

La questione della posizione delle dirigenze sindacali peroniste, a loro volta complici del menemismo e poi fattore di passività, rifiutando qualsiasi congiunzione tra il mondo del lavoro integrato nella produzione e nei servizi e i movimenti dei lavoratori disoccupati, è stata centrale per la borghesia durante gli anni Novanta. Tuttavia, la borghesia non è sfuggita a una grande esplosione nel 2001 e gli anni precedenti non sono stati facili per le classi dirigenti. In questo senso, è importante non dimenticare che tra il discorso di Milei e la sua applicazione ci sarà una lotta di classe, come ci ricorda la storia recente del Paese. Per questo, dalle posizioni dell’estrema sinistra, dobbiamo pensare strategicamente a una politica ambiziosa e radicale di fronte unito.

RPD: Nelle ultime settimane la situazione politica è stata molto di destra e l’arrivo al potere di Javier Milei conferma questa tendenza. Da parte sua, l’estrema sinistra ha acquisito una notevole influenza a livello nazionale, attraverso la candidatura di Myriam Bregman, così come attraverso il suo intervento nelle lotte sociali, a prescindere dal livello di conflittualità piuttosto basso che lei ha sottolineato. Quali saranno i compiti della sinistra rivoluzionaria nei prossimi mesi?

FR: A prescindere dalla polarizzazione dello spettro politico nelle ultime elezioni, l’estrema sinistra ha ottenuto solo il 2,7% alle elezioni presidenziali. Si tratta comunque di più di 700.000 voti per il tandem Bregman-Del Caño, che era in corsa per conto del FIT – Frente de Izquierda de los Trabajadores (Fronte di Sinistra e dei Lavoratori) Durante le elezioni legislative abbiamo anche consolidato il nostro gruppo in parlamento, che ora conta cinque deputati, un numero tutt’altro che trascurabile vista l’estrema frammentazione del Parlamento. Quello che dobbiamo fare, da un lato, è costruire dal basso e, dall’altro, chiedere dall’alto che la resistenza che verrà sia il più possibile coordinata e unitaria, che si traduca in una risposta nazionale. L’obiettivo di Milei è spazzare via tutto con una motosega, non semplicemente attaccare un settore o un altro. Da qui la necessità di una risposta globale.

D’altra parte, credo che si debba anche tenere conto di ciò che ha significato tutto il discorso progressista degli ultimi anni, la narrazione messa in atto dai vari settori del peronismo. Quando il centro-sinistra era in crisi, ha scelto di presentare un candidato dell’ ‘estremo centro’, nella persona di Sergio Massa, e questa scommessa è fallita miseramente. Dopo la vittoria dell’estrema destra, che intende imporre i suoi valori e opporsi alle libertà democratiche attraverso un individualismo portato all’estremo, dobbiamo riaffermare i veri valori difesi dalla sinistra rivoluzionaria. Rifiutando le brutte copie promosse dalle forze di centro-sinistra, sempre incoerenti nella pratica, e che hanno difeso l’idea, ad esempio, che la lotta collettiva possa essere portata avanti solo attraverso il ricorso allo Stato capitalista così com’è, o che si riducesse a forme più o meno limitate di corporativismo. Combinando un orientamento coerente e combattivo, la partecipazione alle resistenze che emergeranno, cercando di mettere in atto con tutti i mezzi possibili un fronte unito che porti a un blocco in grado di frenare l’agenda dell’austerità di Milei, ma anche difendendo un discorso strategico che sostiene un’idea di futuro radicalmente opposta ai valori dell’ultra-liberismo, allora credo che la sinistra rivoluzionaria sarà in grado di far sentire ancora di più la sua voce, di avere un peso e, a medio o lungo termine, di trasformarsi in una vera alternativa politica.

Intervista a cura di Julien Anchaing e Corinne Rozenn

Traduzione da Revolution Permanente