QUI la prima parte dell’intervista.

A proposito di Sartre, che hai citato più volte.
Da qualche giorno è in libreria il tuo ultimo libro (“Uccidete Sartre!”, Ombre Corte) in cui analizzi l’approccio del pensatore rispetto al colonialismo e al razzismo, un aspetto della sua produzione letteraria spesso poco noto e – come spieghi nel libro – rimosso dalla critica, anche in seguito alle posizione filo-sioniste che egli manifesta all’inizio degli anni 80. Oggi in cui a sinistra l’anti-imperialismo tende ad essere sostituito con la “geopolitica”, mentre invece di rivendicare l’unità tra gli sfruttati alcuni settori cedono alla retorica del controllo delle immigrazioni (magari vaneggiando che la crisi della sinistra sia legata al “troppo lassismo” sugli immigrati, e non alla partecipazione delle burocrazie CGIL ed ex-PCI-PRC etc. alle politiche di massacro sociale), in che modo può esserci utile la riflessione sartriana e quali sono i suoi limiti?

Non è mai facile sintetizzare il pensiero di Sartre, poiché è sempre stato in costante evoluzione. Tuttavia, è innegabile la sua importanza nelle lotte anti-coloniali e anti-razziste, in Europa come altrove. L’impegno politico di Sartre in queste lotte è esemplare. Non mi vengono in mente, infatti, nomi di altri intellettuali europei (e bianchi) che, come Sartre, abbiano messo a repentaglio la loro vita per aver difeso la causa dei colonizzati e degli immigrati: tre furono le bombe utilizzate dai funzionari e servi del colonialismo per eliminarlo fisicamente. Ciononostante, Losurdo, nel suo ultimo libro – senza sorpresa da parte mia – non solo ha definito il suo anticolonialismo “idealista e populista”, ma è giunto perfino a opporgli, come esempio luminoso di anticolonialismo e internazionalismo, niente meno che Togliatti, cioè colui che, dopo la liberazione dal nazi-fascismo, sostenne tutte le iniziative del governo italiano per conservare il potere di amministrare, quanto meno, la Somalia. Sul punto, per farsi un’idea, basterebbe leggere i testi di Del Boca.

Bisogna dire che Sartre, su questo terreno, non è mai stato amato dagli stalinisti e dai riformisti. La lucidità e la radicalità della sua analisi, insieme al peso della sua parola, lo rendevano inviso a molti. Il merito maggiore di Sartre è stato quello di individuare in Europa, nei governi e nel capitalismo occidentale, la causa principale delle sofferenze delle popolazioni del Sud del mondo. Inoltre, egli è stato capace di chiarire i nessi storici e strutturali tra le lotte anticoloniali nel Sud del mondo e quelle degli immigrati nel territorio europeo. Questa sua posizione lo ha reso detestabile anche agli occhi dei partiti stalinisti e delle forze riformiste, oltre che di diversi sindacati, i quali, nel mentre difendevano (con proclami astratti e vuoti) i movimenti indipendentisti in Africa e altrove, in patria assumevano un atteggiamento nazionalista, quindi razzista, nei confronti degli immigrati, quelli che Sartre definisce “colonizzati interni”. Il capitale ha ringraziato, naturalmente.

Il pensiero di Sartre, tuttavia, come giustamente osservi, non è privo di ambiguità e ombre nere, e non solo con riferimento alla sua posizione pro-sionista, a partire dalla Guerra dei sei giorni in poi. Ciò che Sartre non coglie pienamente è la dimensione dell’imperialismo come totalità concreta, per uscire dal quale non è sufficiente la ‘semplice’ lotta anticoloniale, quale che essa sia (ovvero anche quella guidata dalle borghesie nazionali e con obiettivi nazionalistici), come poi la storia ha dimostrato. È proprio dentro questa mancanza che si inscrive anche la sua concezione dello stato, non poche volte inteso come luogo di sintesi dei valori e degli universi simbolici di tutte le classi sociali. Sartre, infatti, nel mentre sputa fuoco contro il razzismo dello stato francese nelle colonie, conserva una certa fede nella sua espansione democratica in territorio nazionale.

In ogni caso, e tenendo a mente i suoi importanti limiti, Sartre resta, a mio avviso, un riferimento importante per le lotte antirazziste oggi.

Sartre, inoltre, può essere considerato anche uno specchio in grado di rivelare il degrado e il pauroso arretramento delle forze politiche di sinistra oggi, soprattutto sul terreno dell’imperialismo e del razzismo. Avendo completamente espunto l’economia politica dall’orizzonte analitico, sono finite per ragionare in termini esclusivamente campistici o, ancora peggio, complottistici. Non a caso, infatti, il soggetto di riferimento, anche per quelle forze che si dichiarano anticapitaliste, non è più il proletariato (che non ha nazione) ma il popolo (in qualche modo l’essenza della nazione). L’internazionalismo è pensato come internazionalismo dei popoli; basta leggere i comunicati o i documenti politici degli ultimi 5 anni per rendersi conto. È desolante. Il nazionalismo è, però, una malattia che pervade la sinistra italiana da sempre. Sarebbe troppo lungo ripercorrere ora tutte le tappe del suo sviluppo, ciononostante mi pare una questione da affrontare con urgenza da parte di ogni collettivo comunista e internazionalista.

Per quanto riguarda i sindacati confederali, il loro nazionalismo è, a mio avviso, lampante: in decenni di politiche razziste ne confronti dei lavoratori immigrati non hanno mai indetto uno sciopero o realizzato iniziative autonome (al di là cioè delle adesioni, più o meno formali, a manifestazioni antirazziste organizzate da altri) come risposta al razzismo di stato. Del resto, basterebbe guardare la sproporzione esistente tra lavoratori immigrati iscritti e delegati stranieri per cogliere l’aria che si respira dentro i confederali. Non cambia di molto la musica negli altri sindacati, pur non trascurando le differenze che comunque esistono. L’unica realtà che fa eccezione in questo senso mi sembra quella dei Si-Cobas, al momento l’unico sindacato davvero conflittuale in Italia, il quale, in maniera esplicita, ha fatto della lotta contro il razzismo un suo obiettivo prioritario. Del resto, la maggioranza dei suoi iscritti è composta da lavoratori stranieri, i quali sentono ogni giorno abbattersi contro di loro la violenza razzista. La bella e compatta manifestazione del 27 ottobre scorso, organizzata a Roma dal Si-Cobas, è stata una dimostrazione.

Rispetto all’appunto sui confederali credo non sia corretto associare una bassa presenza degli immigrati in CGIL a una politica apertamente nazionalista, o razzista. Mi sembra invece che la questione sia legata alla concentrazione della forza lavoro immigrata in settori sviluppatisi di recente, come ad esempio la logistica, e dove – anche grazie alla complicità dei confederali nell’approvazione dei pacchetti Treu, Biagi, Job Act etc. – vigono forme di super-sfruttamento incompatibili con una pratica sindacale concertativa. E’ chiaro, insomma, che se in generale – e a maggior ragione in una situazione di crisi economica – è estremamente difficile riuscire a difendere le condizioni dei lavoratori limitandosi a fare appello allo Stato e alla contrattazione, in settori quali la logistica è praticamente impossibile ribaltare i rapporti di forza senza una prospettiva di intransigenza conflittuale, quella che ha permesso al Sicobas di organizzare settori di classe a forte composizione immigrata, nei quali invece la CGIL (e in particolare la FILT) è entrata in crisi, cercando riparo nel crumiraggio e nelle peggiori pratiche sindacali. Tuttavia, non tutti i settori sono la logistica e la CGIL, per quanto sempre più passiva di fronte ai diktat padronali, nonché in calo di iscritti, organizza ancora la maggior-parte dei lavoratori – tra cui sei volte gli immigrati organizzati complessivamente dal Sicobas. Con questi lavoratori le minoranze combattive devono assolutamente trovare un ponte se vogliono resistere, ad esempio, a misure repressive come il decreto Salvini (questo chiaramente sfidando i burocrati proponendo coordinamenti intersindacali, o piattaforme di lotta che senza cedere di un millimetro da posizioni di indipendenza di classe, pongano il tema dell’unità politica dei lavoratori a prescindere dalla sigla sindacale). In tal senso mi sembra contro-producente suggerire che la maggior parte dei lavoratori della CGIL sia razzista, oltre a non essere vero. l’ideologia ufficiale della confederazione, del resto, è anti-razzista, anche se si tratta di un anti-razzismo “umanitario” e astratto, strutturalmente incapace di impedire che, dopo anni in cui i burocrati hanno fatto di tutto per convincere i lavoratori dell’inutilità della lotta, settori della classe cerchino una “soluzione” nel politico razzista di turno; è perciò sulla critica all’anti-razzismo astratto, quindi sulla sottolineatura del fatto che è nell‘interesse materiale di tutti i lavoratori lottare per i diritti degli immigrati, che bisogna mettere a mio avviso l’enfasi maggiore…

In realtà, non ho detto che vi sia una bassa presenza di lavoratori immigrati iscritti alla CGIL, al contrario: di iscritti ce ne sono tanti (stando ai dati più recenti il 18,6% degli iscritti sarebbe composto da lavoratori stranieri), infatti, ma al loro numero non corrisponde una proporzionata rappresentanza, sia in termini di delegati che di quadri. Il che mi sembra un elemento che mette in evidenza quanto siano davvero considerati i lavoratori stranieri da parte della struttura burocratica della CGIL.

Sul punto, inoltre, vorrei sottolineare un fatto secondo me emblematico, rivelatore: la CGIL non solo non si opposta alla diffusione del lavoro gratuito (spacciato come volontariato!) dei richiedenti asilo e rifugiati – del resto, come avrebbe potuto farlo dopo aver promosso il lavoro gratuito all’Expo di Milano? – ma è giunta al paradosso di volerlo frenare, soltanto in alcuni settori dell’economia, per motivi espressamente razziali. Mi riferisco al progetto di alcuni comuni e scuole del nordest, il quale, nel 2016, prevedeva l’utilizzo (gratuito) dei richiedenti asilo come bidelli nelle scuole. I vertici della CGIL, in tale occasione, si sono opposti con argomentazioni violentemente razziste: “La scuola è un ambiente delicato, con dei minorenni. Saranno inserite persone che si conoscono poco e questo potrebbe far nascere dei problemi”. In pratica, stavano dicendo, proprio come ha fatto esplicitamente Snals [il principale sindacato giallo della scuola ndr] (“Quanto è opportuno fare questa operazione dopo i fatti di Colonia e di Mestre? Quali garanzie ci sono sulle persone che si vanno ad inserire nella scuola?”), che i richiedenti asilo sono persone sospette, potenziali pedofili e terroristi, non adatti a stare vicino a dei bambini italiani. Le ordinanze di numerosi sindaci e prefetti, che cercano di impedire la sosta o la passeggiata dei richiedenti asilo nei parchi o nelle piazze (se non accompagnati da italiani), non mi sembra si collochino lontano dal ragionamento fatto dalla CGIL in questo caso, o sbaglio? E non mi sembra che dopo queste vergognose affermazioni qualcuno dei vertici nazionali della struttura abbia preso le distanze o le abbia addirittura denunciate come razziste.

Non ho neanche detto – ma è evidente, a questo punto, che sono stata poco chiara – che la colpa del razzismo espresso dai vertici e dalla struttura burocratica della CGIL sia colpa della base dei suoi iscritti. Resta però il fatto che, come organizzazione, la CGIL nulla fa per combattere il razzismo, anche tra lavoratori, al di là dell’ideologia ufficiale. Anche il PD ufficialmente si dichiara antirazzista, – e non dubito, vorrei precisare, che tra i suoi iscritti ce ne siano di antirazzisti –, ma questo non ha impedito loro di votare e accettare come provvedimenti giusti e buoni tutti i provvedimenti razzisti targati PD, dal 1990 a oggi.

Non credo che il ponte tra lavoratori, che giustamente auspichi, si costruisca non denunciando o, al limite, edulcorando il razzismo delle organizzazioni di cui fanno parte, in nome di chissà quale (utile) tattica politica; l’unica possibilità concreta, su questo terreno, a me sembra quella di dire la verità, di indicare nel modo più chiaro possibile le vere fonti del razzismo contemporaneo e di costruire, di conseguenza, un unico fronte antirazzista e anticapitalista (condicio sine qua non per essere antirazzisti), che includa tendenzialmente tutti i lavoratori, immigrati e autoctoni.

Questa denuncia, purtroppo, non potrà che arrivare dai lavoratori stessi, dalle loro lotte e dalla solidarietà che saranno capaci di costruire, perché nella sinistra accademica o intellettuale il panorama è, se possibile, ancor più deludente di quella della burocrazia dei confederali: i post-negristi o post-colonialisti imperversano in ogni dove con le loro parole d’ordine suggestive e, naturalmente, vuote: “diritto di fuga”, “liberare le migrazioni”, e l’infinita serie di espressioni senza alcun senso logico, come “lavoro migrante”, “luoghi migranti” (questa è la più divertente), “affetto migrante”, “corpo migrante”. Confesso che mi viene un giramento di testa ogni volta che sento tali espressioni, motivo per cui vorrei qui dire due parole su questa oscena parola: “migrante”. Secondo me, è una parola che veicola concetti e pratiche politiche pericolose.

In questi giorni ho letto un testo in cui l’autore di un libro da poco pubblicato, spiegava come Abdelmalek Sayad (uno dei più validi e interessanti studiosi delle migrazioni) [1], avrebbe coniato il termine “migrante”. Chi ha letto Sayad, e lo ha compreso, non può che gridare alla mistificazione. Mi piacerebbe sfidare, questo autore, così come tutti gli altri che la pensano come lui (e, purtroppo, non sono pochi), a trovare una pagina, una qualsiasi, in cui Sayad avrebbe usato la parola “migrante”.

Alla base di questa mistificazione c’è, a mio avviso, tanta superficialità, laddove si scambia l’attenzione di Sayad per la bidimensionalità dell’esistenza del soggetto che è costretto a lasciare la propria casa (il quale è colto e compreso nella sua doppia condizione: cioè di emigrato e di immigrato) con la totale assenza di questi da ogni luogo, da un qualsiasi luogo; così, secondo questo curioso ragionamento, da emigrato e immigrato si diventa migrante. Cancellando la prima vocale della parola il soggetto diventa di colpo un soggetto senza luogo e, ovviamente, senza storia: non ha un luogo di partenza da cui emigrare (e, di conseguenza, neanche una storia e delle ragioni di partenza) e neanche un luogo di arrivo in cui immigrare (e storia e legami da costruire). Dal punto di vista del diritto, il quale ha sempre bisogno dello spazio per essere esercitato e riconosciuto, al migrante non può essere riconosciuta una soggettività giuridica (e qui trova legittimazione, in qualche modo, anche il fatto che a determinare la condizione degli emigrati/immigrati siano le circolari e non le leggi); dal punto di vista politico invece, il messaggio, per essere brevi, è più o meno questo: non sono nostri compagni, né di lavoro e né di lotta, sono qui di passaggio, diamo loro quanto serve cristianamente, ma, per carità, non possiamo fare cose insieme.

Gli emigrati/immigrati non sono oiseaux de passage, in costante e permanente peregrinaggio; sono stati costretti, invece, a lasciare il loro paese, a causa delle violenze economiche, politiche e fisiche determinate, prevalentemente, dall’imperialismo; sono costretti a spostarsi per cercare un posto in cui ricominciare l’esistenza, non vogliono girare in tondo come delle trottole, non si sono messi in cammino per darsi un tono romantico, per recitare Baudelaire o per diventare protagonisti di libri suggestivi (ma vuoti di senso). Del resto, se si spulciassero meglio i documenti della Banca Mondiale, prima, e del Fondo Monetario Internazionale, poi, si scoprirebbe che a usare per primi questo termine, all’inizio degli anni ‘90, furono proprio queste due istituzioni. È da quel preciso momento che la parola “migrante”, prima di allora del tutto sconosciuta nei testi e nei vocabolari di studiosi, giornalisti, politici e movimenti, inizia a diffondersi. Del resto, il capitale li vuole esattamente così, migranti, cioè soggetti in costante mobilità, che mai si fermano in un posto, che mai fraternizzano con gli altri lavoratori. E questa è la paura più grande del capitale: l’unione di tutti i lavoratori e lavoratrici, a prescindere dal colore della pelle, dalla nazionalità, dal genere, dall’età.

La tua riflessione sulla retorica dei mi sembra interessante anche perché mostra che non esiste solo una critica da destra alla retorica dei “migranti”. Penso ad esempio a Fusaro – il quale proprio per i motivi che elenchi tu ovvero il fatto che i “migranti” – si teorizza – non abbiano radici e altre amenità, sarebbero essenzialmente qui per rubare il lavoro agli Italiani, esercito industriale di riserva… Quest’ultimo un fenomeno che in realtà è legato a processi ben più profondi e immanenti alla società capitalistica rispetto alle emigrazioni, come ad esempio la centralizzazione del capitale, la crisi e lo sviluppo tecnologico. Sappiamo a tal proposito che ultimamente ti stai occupando del rapporto tra razzismo e tecnologia, puoi dirci qualcosa in proposito?

Gli studi economici sull’impatto della tecnologia digitale, della robotica, nel mercato del lavoro internazionale sono ormai numerosi, per quanto molte delle loro terrificanti previsioni (per alcuni settori del mercato e per alcuni luoghi geografici, infatti, certi studi prevedono un aumento vertiginoso del numero dei disoccupati, fino al 90%) andrebbero discusse maggiormente e testate scientificamente. Cresce il sospetto, infatti, che alcuni di questi studi – diffondendo previsioni di un certo tipo e presentandole come ineludibili, in quanto risultato del progresso tecnologico (spesso inteso come fenomeno quasi sovrannaturale) – abbiano tra i loro obiettivi anche quello di rendere, in qualche modo, accettabile l’attuale elevato livello di disoccupazione, l’abbassamento dei salari e la progressiva cancellazione dei diritti. Resta indiscutibile però il fatto che buona parte della disoccupazione strutturale degli ultimi 30 anni, sia a livello locale che internazionale, sia ormai da attribuire all’impatto della tecnologia digitale e della robotica. Su questo punto vi è una certa convergenza dei dati e nel dibattito scientifico.

Gli studi sociologici, però, su questo impatto, sembrano alquanto scarsi. Le ragioni di tale minore interesse possono essere varie, tra le quali possiamo senz’altro menzionare anche una certa distanza degli studiosi delle scienze sociali, in generale, dai luoghi di lavoro (dalle fabbriche e dagli uffici). Ormai, le uniche inchieste attendibili in tal senso sono quelle giornalistiche (con tutti i loro limiti nell’analisi e nell’esposizione dei dati), condotte da giornalisti che si fanno assumere in anonimato e per un breve periodo dalle aziende, e che poi raccontano l’esperienza vissuta.

Il mio interesse sulla tecnologia e sulla robotica, in particolare, riguarda dunque l’impatto che essa ha sul mercato del lavoro, in senso generale, e come tale impatto si traduce poi, dai singoli governi e stati, in politiche nazionaliste, razziste e sessiste. Il Giappone rappresenta in questo senso un caso di studio (ma non è l’unico). L’ingente investimento fatto dal governo di Shinzo Abe nel settore dei cosiddetti “robot sociali”, ovvero dei robot destinati a creare un esercito di infermieri, colf e badanti per prendersi cura degli anziani giapponesi, che ormai rappresentano quasi il 40% dell’intera popolazione, esprime bene la politica nazionalista e razzistica dello stato giapponese. Investire massicciamente in “robot-badanti” ha come obiettivo specifico (e dichiarato) quello di impedire l’ingresso (legale) dei lavoratori stranieri in Giappone. Inoltre, sotto un profilo giuridico, politico, simbolico e culturale, appare di particolare interesse il fatto che ad alcuni di questi robot sia stata concessa la cittadinanza formale, status praticamente irraggiungibile per i lavoratori stranieri. I piani di analisi coinvolti in questi fatti sociali sono molteplici, a partire dall’analisi delle sembianze fisiche dei robot, passando dall’esame delle funzioni sociali a loro assegnate, per arrivare a comprendere il modello di cittadino rappresentato dai robot-con-cittadinanza (bisognerebbe, infatti, iniziare a immaginare anche dei robot clandestini, cioè non desiderati e pensati come cittadini-modello, visto che soltanto ad alcuni è stata concessa la cittadinanza).

Naturalmente, accanto ai robot e agli umanoidi vi sono anche l’intelligenza artificiale e gli algoritmi. È di qualche giorno fa l’annuncio del governo tedesco di un aumento sostanziale dei fondi (di circa 3 miliardi di euro) nel settore della ricerca e del lavoro nel settore dell’intelligenza artificiale con l’obiettivo specifico e dichiarato di “raggiungere i livelli di Cina e Usa”, in quanto considerato settore strategico dell’economia. Sul razzismo e il sessismo degli algoritmi e dell’IA gli scandali che coinvolgono le più importanti multinazionali si sprecano: dall’algoritmo di Amazon che scarta i curricula delle donne dal reclutamento al profilo Twitter dell’IA costruita da Google che dopo essere stato attivato, nel giro di pochissime ore, ha iniziato ad inneggiare a Hitler e a inveire contro neri e donne.

Insomma, la domanda principale che mi pongo è: che cos’è un robot, un umanoide, un algoritmo, ecc. da un punto di vista sociale e politico? Questa domanda si fonda sulla premessa che il carattere specifico della tecnologia è quello di essere una forza strutturata e strutturante nei confronti dei rapporti di produzione.

intervista a cura di Lorenzo Lodi

 

NOTE:

[1] Si veda: A. Sayad, La Doppia Assenza, Raffaello Cortina, Milano, 2002

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.