Riceviamo e pubblichiamo in tre parti un saggio sulla questione dello Stato, che riprende il discorso di diversi fondamentali pensatori marxisti per riproporre, nel contesto sociale e nel dibattito politico odierno, una riflessione profonda sul legame tra classi sociali e Stato, e sul superamento di quest’ultimo tramite l’autogestione della società civile. 

Questo contributo anticipa un nostro dossier di prossima pubblicazione sul “Kautsky debate” che è sorto negli ultimi anni negli USA attorno alla questione di quale strategia, riformista o rivoluzionaria, dovrebbero adottare il movimento operaio e il socialismo di oggi.


Lo Stato tra rivoluzione e controrivoluzione

Introduzione

Scrivere dello statuto dello Stato oggi sembra essere una pratica vintage, di nostalgia verso un passato in cui la politica era fatta con le dottrine, i manifesti di partito e i comitati centrali. La fine della modernità e l’inizio di un’epoca minore chiamata post-modernismo si prende gioco di tutte le verità del passato, soprattutto di quelle assolute, rendendole ridicole agli occhi delle ultime generazioni. Classi sociali, ideologie, masse sembrano forme concettuali destinate ormai al museo dell’antichità mentre un imprecisato nuovo si scorge solo all’orizzonte ma senza forma. Quindi tutto va bene finché non si è troppo unilaterali nelle analisi: bisogna sempre ammettere che questo è il proprio pensiero ma che ce ne sono altri che magari possono valere alla stessa maniera, avere la stessa legittimità storica, altrimenti si viene tacciati se non di fanatismo almeno di essere antichi. Bisogna sempre ammettere l’uguaglianza formale delle idee prima di poterne esprimere una.

All’età “post-moderna” allora ci sono due modi di rispondere: o la si nega liquidando le problematiche che pone e ritornando ai vecchi schemi; o la si supera accettando le sue contraddizioni. Questo saggio breve sulla questione dello Stato prende la seconda strada, riprendendo il filo del discorso dei teorici rivoluzionari e controrivoluzionari.

Oggi dire che si appartiene ad una classe sociale è apparire bizzarro e fuori contesto. Si appartiene al genere umano ma non si concepisce un contenuto sociale della propria condizione, perché le possibilità del proprio sviluppo sono molteplici e indeterminate: si può diventare ciò che si vuole, in teoria. Questo lo si dice, però, mentre in Italia l’ascensore sociale è rotto e non ci sono i tecnici per aggiustarlo – quella sinistra politica dispersa e deviata. O meglio, la vecchia talpa e si è vista solo sporadicamente sulla superfice europea. Intanto, si manifesta una tensione tra il vecchio apparato ideologico moderno e quello della “post-modernità”, tra una determinazione positivista (anche nelle sue accezioni reazionarie di “darwinismo sociale” e tradizionalismo razzista) e un’obiezione relativista; socialmente parlando, la metropoli è un esempio notevole di questa tensione tra l’ideale di una città che l’individuo astratto può vivere in tutte le sue innumerevoli possibilità, ma che un processo di gentrificazione su larga scala plasma, divide, spezza, spingendo determinati gruppi sociali nelle periferie, in aree degradate dove, e qui sopravvive il vecchio pensiero che non è ancora morto, è bene che stiano i fantasmi. Allora si può rilevare una sorta di opposizione tra modernismo e post-modernismo, tra una determinazione positivista e un’obiezione relativista.

Siamo nel momento di una contraddizione ancora senza soluzioni: «Ci stiamo ora risvegliando dall’incubo della modernità, con la sua ragione manipolatrice e il feticcio della totalità, per passare al pluralismo ripiegato su sé stesso del post-moderno, quella schiera eterogenea di stili di vita e di giochi linguistici che ha rinunciato all’imperativo nostalgico di totalizzare e legittimarsi» (Eagleton 1987).

Ripensando la questione del superamento rivoluzionario del capitalismo e dello Stato, però, non vogliamo andare contro la storia, perché «chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» (Marx, Engels 1932). Negare la situazione post-modernista significherebbe renderci ciechi alle sue conseguenze e quindi portarci a fallimento preannunciato. Lo Stato tra rivoluzione e controrivoluzione deve essere letto con la funzione diversa delle prerogative del nostro tempo, come una prova delle concezioni alle condizioni attuali. Può darsi che le sue tesi siano ormai antiquate e inutilizzabili, o può darsi che qualcosa abbia resistito al tempo e alle critiche della nostra epoca, può darsi anche che la forma su cui è costruito non sia abbastanza efficace. Ma si dovrà trovare il modo per uscire dalla situazione in cui “tutto è uguale a tutto” cercando di far risaltare se possibile la necessità che a fondamento ci sia qualcosa che vale per tutti. Che dopo il l’enorme giro delle casistiche poi se ne applichi una. Vorre

Vorremmo insomma contribuire a portare su un nuovo piano il determinismo del moderno e della sua critica critica relativista del post-moderno, provare ad uscire da un circolo vizioso che giustifica l’esistente trovando, invece, degli strumenti per emanciparci da esso.


 

Il giusto non è altro che l’interesse del più forte. […] Questo, carissimo, è ciò che io chiamo il giusto, lo stesso per tutte le città: l’interesse del potere costituito.

Frase detta da Trasimaco nella Repubblica di Platone

Nella prefazione de “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” John Reed afferma di aver voluto raccontare come «i bolscevichi, alla testa degli operai e dei soldati di Russia, si impadronirono del potere dello Stato, e lo dettero ai Soviet». In questa frase è compresa la formulazione di ciò che il 1917 fu nella Russia e di ciò che professionisti della rivoluzione come Lenin, Trotsky e Luxemburg pensavano riguardo lo sviluppo storico dei fenomeni che si presentavano alla loro esperienza. Ciò che la classe oppressa doveva fare nella rivoluzione era rendersi capace storicamente di conquistare quel potere che le avrebbe permesso di costituirsi nelle forme da essa stessa stabilite. Una questione centrale nella concezione leninista è quella riguardo lo Stato, un’entità che pur apparendo come conciliatoria delle contraddizioni diventava invece, nella fase rivoluzionaria che è anche la sua fase di crisi, uno strumento per il mantenimento dell’oppressione di classe. Nei momenti di crisi e trasformazione lo Stato si mostra per quello che è: il guardiano dell’ordine costituito, ma non quello formale della Costituzione ma quello materiale, sociale. La sua esistenza manifesta le contraddizioni della società in classi. Esso da un lato vuole essere l’organo super partes della conciliazione delle diseguaglianze nella società e dall’altra invece con la sua esistenza dichiara la società divisa in classi sociali. Proprio quando si pose la questione della risoluzione delle contraddizioni insite nella società, dice Lenin, l’elemento dello Stato «si pose come un problema di azione immediata, e, per di più, di azione di massa, tutti i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi caddero subito e pienamente nella teoria piccola-borghese della “conciliazione” delle classi “per opera dello Stato”». Sta di fatto quindi che pur essendoci dei rappresentanti che si riferiscono allo sviluppo socialista dell’organizzazione umana – medi e piccoli borghesi – quando questi vengono posti davanti al problema su cosa fare dello Stato, questi lo definiscono come l’organo preposto alla conciliazione degli opposti interessi, la risoluzione delle contraddizioni sociali nell’aria istituzionale. Ma non è ciò che è accaduto storicamente, ed è ancora Reed ad aiutarci nella lettura facendo descrivere da un professore di sociologia, circa un mese prima della rivoluzione, le circostanze allora presenti: «le classi possidenti diventavano più conservatrici, le masse popolari più radicali». Cioè due classi differenti che hanno una prospettiva differente sulla situazione di crisi e non tergiversano nelle aule preposte dallo Stato. Opposto nella forma e nella sostanza è ciò che afferma Carl Schmitt che parte da un punto differente e tutto teorico: attraverso le categorie del politico. Lo svolgimento davanti a sé della Rivoluzione d’Ottobre lo spinge ad analizzare quali siano le conseguenze dei “radicali ostili allo Stato”, attraverso una concezione della politica che esca dalle maglie della rappresentanza istituzionale e fondi un’espressione non giurisprudenziale della politica in cui la dicotomia amico-nemico rappresenta alla meglio la prospettiva dinamica.

Queste sono le tesi che si oppongono sullo Stato: esso è necessario o contingente alla storia della comunità umana nel suo sviluppo futuro?

La rivoluzione e la controrivoluzione russa: le prospettive sullo Stato

In Russia, la piccola borghesia – di cui troviamo la miglior rappresentazione nei dirigenti dei socialrivoluzionari – ebbe il ruolo di appoggiare sostanzialmente la tesi secondo cui il suo mantenimento era necessario a fronte della risoluzione nell’aria politica delle contraddizioni sociali; le classi medio-alte borghesi con i loro rappresentanti – dai monarchici ai cadetti (democratici costituzionali) – supportarono in ogni maniera il mantenimento del potere statale liberale come percorso unilaterale della storia, con i più conservatori che, pur cercando di salvare la monarchia, si videro bene dall’esprimerlo alle masse rivoluzionarie. La rivoluzione bolscevica, che mirava a mettere fine alla società dei privilegi, aveva come sua controparte la classe privilegiata che negava la validità di quella trasformazione e legittimava l’entità statale quale modalità di risoluzione delle controversie sociali. Ma è ciò che avvenne che ci manifesta che la storia non si compie nelle aule del parlamento, la lotta tra queste compagini avverse non avveniva entro le funzioni dello Stato ma aveva come suo campo di guerra lo spazio sociale: nei luoghi di lavoro, per la città, per le campagne, nelle bettole, nelle mense, sul fronte di guerra si instaurava la lotta. Questo significa che la contraddizione non esplode nei dispositivi dello Stato, ma al di fuori esso e per decidere di esso. L’apparente necessità dello Stato come sintesi della storia viene dissolta dalla realtà del contrasto sociale: è nella società civile che va riscontrata la funzione di laboratorio della storia, non di certo nelle sedute parlamentari. Il politico, come campo di differenziazione dell’esistente, è l’assunzione di ciò che avviene fra gli uomini reali, nella società civile, fra gli individui pratici quali sono quelli che producono la propria vita e progettano il suo sviluppo. Per questo i conservatori necessariamente stanno dalla parte di Hegel, Schmitt e Kerenskij invece che da quella di Marx e Lenin; invece le classi oppresse non sempre dalla parte di questi ultimi.

La rivoluzione ci mostra anche quale epistemologia adottare per essere capaci nella lettura e quindi nell’attività storica.

Il caso dello Stato per Lenin era non solo una questione della dottrina rivoluzionaria ma soprattutto una questione dirimente del momento. Kautsky, «capo più noto della seconda internazionale1», secondo Lenin aveva deformato la linea su cui Marx ed Engels hanno interpretato il significato dello Stato. Volendo con questo dire che Stato e rivoluzione, più che una messa in ordine delle concezioni sul tema, era una risposta alle tesi che prima della Rivoluzione d’Ottobre circolavano tra i rivoluzionari. Una questione viva, insomma, che influenzava gli andamenti pratici delle organizzazioni e che rendeva necessaria una chiarezza d’intenti soprattutto contro il “cretinismo parlamentare” di alcuni. Anche se il suo libro non fu mai completato perché scritto a ridosso della rivoluzione, le conclusioni che pure paiono emergere hanno messo con le spalle al muro Carl Schmitt che trovò a fare i conti con gli avvenimenti e dichiarando che tra chi partecipava del “radicalismo ostile allo Stato” vigeva una specie non definita di fede nella bontà naturale dell’essere umano. Palesando in questa maniera la sua totale distanza dagli eventi e dalle condizioni storiche di cui invece il materialismo si ciba. Se il “radicalismo” pensava nella storia e nella rivoluzione, il misticismo ragionava entro sé stesso e per linee generiche e generali del pensiero stesso.

Lo Stato nel ruolo di confessore di ogni conflitto

L’esistenza dello Stato nella società ha la sua caratteristica nella specialità della sua competenza sulla società e come corpo politico nell’autorità consensuale sulla società. Ciò che è di interesse è la trasformazione che esso ha avuto dalla fase storica a noi precedente a quella attuale: dallo Stato come instrumentum regni del monarca allo Stato e dei signori feudali allo Stato come instrumentum regni della borghesia. In un caso come nell’altro l’entità statale è la ragione del predominio di una classe sulle altre, esso è la forza di supporto alla logica sociale dominante, la giustificazione di quest’ultima come ultimo e più alto sviluppo della storia. L’entità statale ha il marchio della divisione della società in classi ed è la forma della conciliazione di queste classi sia col gioco democratico che con quello repressivo. Le contraddizioni che vivono nella società si manifestano soltanto come apparenza in veste di rappresentanza parlamentare quindi come ragione istituzionale della società sopra la stessa società. In Hegel il momento dello Stato è il momento in cui la società civile e la famiglia si realizzano come concetto universale e necessario: esso è il momento assolutorio della società delle contraddizioni, il momento in cui confessa i suoi peccati e viene giudicata nel cielo della politica, confermandosi come barriera all’abolizione della borghesia. Questa classe non recherà in sé il bisogno della rivoluzione e quindi del contrasto con lo Stato; per opposizione, si può affermare invece che sia il proletariato ad avere questa necessità poiché esso è la classe sociale dei dolori universali. E il proletariato russo questo concetto lo fece proprio nel suo “sviluppo combinato”, mettendo insieme a critica l’assolutismo zarista feudale e il liberalismo borghese capitalista. Come afferma Trotsky, il ceto oppresso comprese di essere passato da un padrone ad un altro, così fece il passo ulteriore nella storia. Lo Stato in tutte le crisi sociali diventa un ostacolo all’emancipazione dell’uomo e gli esempi disponibili alla nostra età storica sono innumerevoli: dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione d’Ottobre, dagli avvenimenti durante la repubblica di Weimar, alle primavere arabe, ai complicati anni Settanta italiani. Esiste un filo che ricongiunge questi e molti altri eventi al rapporto tra crisi sociale e risposta dello Stato. Le situazioni di instabilità sociale, create dalle frequenti crisi economiche del capitalismo, vengono avvolte dal vento della repressione statale al fine di insabbiarle, questo perché come entità sopra le nostre teste non ammette condizioni al di fuori di sé, hegelianamente ci confessa che gli uomini non hanno la capacità di divenire «universale attività formatrice, concetto assoluto; essa non è che un’abilità che può imporsi solamente su qualcosa di singolo, ma non sulla potenza universale e sull’essenza oggettiva nella sua totalità2».

«L’esercito permanente e la polizia sono i principali strumenti di forza del potere statale3», queste sono le braccia al lavoro che salvaguardano e impongono la sua esistenza. Ma Engels è troppo ottimista quando parla della lotta di classe quale elemento insito nel bisogno dello Stato di rafforzarsi, la predispone nella storia, fa della questione sociale immediatamente una questione del campo politico. Un “ottimismo rivoluzionario” di questo genere compie il passo più lungo della gamba in quanto, pur constatando il fatto che un gruppo sociale vive sotto oppressione e mortificazione, ciò non deve essere immediatamente identificato con la volontà di emanciparsene che invece nasce dal conflitto che si sviluppa nel tempo, non deve essere identificata la situazione sociale sic et simpliciter con la concezione politica di quella. Il concetto di egemonia di Gramsci sarà un efficace strumento che produrrà maggior chiarezza al partito riguardo la sua posizione tra la popolazione, quale vita hanno gli argomenti di un’organizzazione nella società.

Piuttosto la crisi sociale è l’elemento base su cui lo Stato mette in risalto la propria forza materiale e fa in modo che essa si sviluppi tanto quanto lo richiede la crisi stessa. Ma ciò che ci interessa in questo caso è formalizzare il ruolo dell’esercito dell’ordine che Lenin con Engels chiama “organizzazione armata autonoma”. Il senso di questa caratterizzazione sta nel fatto che lo stesso Stato è un’esistenza autonoma cioè differenziata dalla società ma anche se si intreccia ad essa. Gli individui arruolati nelle file della burocrazia vanno a riempire di contenuto le forme di cui lo Stato si predispone e con questi esercita la sua influenza; questi individui, pur provenendo dalla società civile e rimanendone membri, sono, cioè praticano, le forme dell’”organizzazione armata autonoma”. Il caso della rivoluzione russa è da manuale, poiché ci espone l’incapacità dell’entità statale di far valere le sue proprie regole in mancanza di consenso e quindi obbedienza tra le sue truppe, rivelando poi ai liberali stessi che il potere della decisione sulla società gli era stato concesso dalle masse rivoluzionarie e queste ne avevano ancora la prerogativa. L’“organizzazione armata autonoma” su cui prima si poggiava, nel momento in cui viene a mancare, fa crollare anche i dispositivi dello Stato. Ma anche l’esempio dell’assenza di repressione da parte della polizia italiana sulle azioni fasciste negli anni immediatamente precedenti all’istituzione del regime di Mussolini può farci comprendere che l’apparato statale, e in generale ogni apparato di potere, ha capacità di ordinare la società su cui aleggia fino a quando i componenti della società civile, che ha reclutato o che lo sostengono, glielo rendono possibile tramite la cessione delle proprie capacità sociali e dei momenti decisionali.

In tutto questo ricorso non manca mai il carattere di classe dello Stato poiché sia quello antico che quello feudale «erano organi dello sfruttamento degli schiavi e dei servi, ma anche lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale4». L’entità giuridica quale giustificazione dello stato di cose, questo è lo Stato. Lenin inserisce nel suo testo esempi quanto mai chiari su quanto il passaggio da una forma all’altra dello Stato non cambi l’esistenza sociale degli individui che si vedono comunque espropriati della propria capacità di decisione nella loro vita lavorativa e sociale, finendo in un modo o nell’altro di essere assorbiti da una logica delle relazioni sociali di cui essi non sono che gli esecutori. La borghesia trova la sua legittimazione formale nella volontà universale della repubblica moderna, poiché essa viene identificata dai borghesi come volontà generale, convincendo le masse del carattere universalmente democratico e legittimo delle funzioni dell’apparato e della situazione socioeconomica di cui è il guardiano e il rappresentante ufficiale. Ma dobbiamo rispondere cosa sia lo Stato in una società socialista, esso ha ora due funzioni: mantenere il controllo del territorio da parte del proletariato contro le offensive interne ed esterne della controrivoluzione e insieme essere, ancora, momento della decisione che però rappresenta ora soltanto gli interessi di una classe sociale. Si conserva così la caratteristica che la grande maggioranza sia espropriata del potere politico diretto ed esista ancora il “monopolio della decisione” in seno allo Stato, ha ancora il marchio di classe proprio per il fatto che non essendo avvenuta la rivoluzione mondiale, tale organizzazione, è necessaria alla vita. Ancora, la democrazia quale uguaglianza tra gli uomini è un’uguaglianza soltanto formale, legittimata nei cieli dello Stato e da cui lo Stato si legittima. Per evitare che questo dominio sugli uomini prenda di nuovo il sopravvento si dovrà progettare uno Stato che venga meno a sé stesso, uno Stato in via di “estinzione” che disponga per sé – e non in sé – la capacità di scomparire. E l’esperienza storica adatta a dimostrare questa tesi è la Comune di Parigi che «cessava di essere uno Stato nella misura in cui essa non doveva più opprimere la maggioranza della popolazione, ma la minoranza (gli sfruttatori)5». Perciò essa si predisponeva alla propria estinzione ed aveva la sua ragione dell’organizzazione ancora semi-statale nella contrapposizione di classe ancora in vita. Non confondendo però il momento della distruzione con quello dell’auto-annullamento. Nel primo è contenuto il movimento del proletariato a conquistare la capacità di produrre una società senza classi sociali in cui si ha la caduta dello Stato borghese e la costituzione di uno socialista come dominio del proletariato; nel secondo invece si predispone la capacità di una data comunità alla scelta dell’abbandono del castello statale. Va considerato però che questi due momenti si intersecano e come nello Stato socialista si ha «il proletariato organizzato come classe dominante6», dovranno però essere contenuti in questo il germe della nuova società. La via per l’estinzione di ogni organismo sopra le teste degli esseri umani è la via d’arrivo alla società di «libera ed eguale associazione di produttori7», al comunismo.

Lenin, anche se in forte dose scolastica, produce il suo scritto sulla scorta delle opere di Marx ed Engels, ma non si può dire sia fuori dal tempo e dallo spazio. Ricorda, assomiglia a quel soldato che, nello scritto di Reed, continua a ripetere che “vi sono due classi, il proletariato e la borghesia” ad uno studente che lo taccia come ignorante e automa indottrinato. Proprio in quella fase storica il bolscevico vide realizzate le sue ragioni mentre lo studente liberale con la sua “libera rivoluzione” finì come Kerenskij. Questo per dire che Lenin, riappropriandosi del sapere marxista, seppe ricondurlo al proprio tempo, nelle discussioni e nelle contraddizioni che lo animavano, rispondendo chiaramente alla questione che è contenuta in una lettera di Engels a Bebel: «fino a quando il proletariato ha bisogno dello Stato, non ne ha bisogno nell’interesse della libertà, ma per schiacciare i suoi avversari8»? Proprio in quest’opera sono accusati quei capi della Seconda Internazionale che voteranno i crediti di guerra nelle proprie nazioni, dimenticando nella maniera più chiara che lo Stato socialista non può essere un pranzo di gala con la borghesia. Tra questi capi quello preso di mira più frequentemente è Kautsky. Accusato ironicamente di “dimenticare” il ruolo che il partito doveva avere nella conquista della società senza classi e nella sostituzione dello Stato come dominio della borghesia con quello proletario. L’opportunismo kautskiano Lenin lo definisce piccolo-borghese perché abbandona il terreno pratico di analisi e lotta per aderire a valori universali politici, cioè quelli che lo Stato come entità elargisce in forma di funzioni politiche. Narra anche quali siano state le visioni politiche degli opportunisti riformisti che davanti alla possibilità di un posto di potere siano scesi a patti con la parte più conservatrice dimenticando ogni riforma sociale, proprio perché per loro le contraddizioni vengono risolte soltanto tramite e dentro l’aria istituzionale. Una posizione quindi non valida ai fini della trasformazione. La stessa critica venne indirizzata da Marx a Feuerbach e successivamente a Proudhon. In un caso attaccando l’epistemologia storica nell’altro la critica economica, ma in entrambi riscontrando la base teorica delle correnti piccoloborghesi, delle sue fantasmagorie ideologiche in cui la vista immediata “di affamati scrofolosi, sfiniti e tisici9” provocava il fervore romantico della rivoluzione con conseguenti percorsi storici fantasiosi. Un’ideologia più che una critica materiale della logica sociale. Lenin sentì lo stesso bisogno di Marx, cioè la messa in chiaro di quale dovessero essere le prospettive per il cambiamento radicale e la differenziazione motivata e palese da quelle rappresentanze che dichiaravano determinate future forme politiche. La necessità di distinguersi da un mondo in una determinata fase storica e politica. «L’opportunismo [del piccolo-borghese] non porta il riconoscimento della lotta di classe sino al punto precisamente essenziale, sino al periodo del passaggio dal capitalismo al comunismo10», questa è la sintesi dell’accusa di Lenin, il non essere coerenti alla propria destinazione fino in fondo. «In Marx non v’è un briciolo di utopismo; egli non inventa, non immagina una società “nuova”. No, egli studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che sorge dall’antica, le forme di transizione tra l’una e l’altra11».

 

Note

1 Lenin, Stato e rivoluzione (a cura di V. Gerratana), Editori Riuniti, Roma 1966, p. 56.

2 G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, trad. it di G. Garelli, Torino 2008, p. 136.

3 Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 64.

4 Ibidem, p. 68.

5 Ibidem, p. 135.

6 Ibidem, p. 83.

7 Ibidem, p. 71.

8 R. Luxemburg, Scritti Politici, in La rivoluzione russa, a cura di Lelio Basso, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 560.

9 K. Marx e F. Engels, Opere Complete – V, in L’ideologia tedesca, trad. it. di Fausto Codino, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 27.

10 Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 95.

11 Ibidem, p. 112.

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