Anche la Svezia, come ci scrive il nostro corrispondente, si accoda alla decisione del Regno Unito, lasciando milioni di persone in balia dell’infezione COVID-19, non eseguendo tamponi e lasciando alla sorte la decisione di vita e morte sulla popolazione. Tutto ciò in barba al diritto alla salute dei lavoratori e delle lavoratrici svedesi, nel mirino del virus e del capitalismo sfrenato, di chi spera in centinaia di migliaia di vittime sacrificabili in nome del profitto e del superamento della pandemia con una qualche sorta di immunità di gregge!


Lo sappiamo. Siamo conosciuti per la nostra teatralità, per il sentimentalismo e l’esagerazione.
Ci conoscono e ci conosciamo. Ma è pur vero che ne abbiamo vissute di tragedie.

Al contrario, il Paese dalla quale scrivo (la Svezia) ha combattuto la sua ultima guerra duecento anni fa. Non ha mai avuto una rivoluzione, non conosce terremoti, ed è sempre rimasto periferico persino durante la seconda guerra mondiale. Sarà per questo che, all’opposto, gli svedesi temono i conflitti, tendono a parlare a voce bassa e a minimizzare ogni accadimento. Ed è proprio quest’ultimo punto che è importante per capire come l’emergenza coronavirus, che anche questa volta ha apparentemente solo ”sfiorato” la Svezia, venga gestita.

Scrivo ”apparentemente” perché se é vero che il numero ufficiale dei contagiati é fermo a 500 (e quello dei morti a 1), la ”strategia” che sta adottando la Svezia (così come l’Inghilterra) é davvero unica: alcune settimane fa, quando il virus scoppiava in Italia, si negava qualsiasi rischio di contagio per la Svezia. Una settimana dopo é stato raccomandato di chiamare il 1177 (il 118 svedese) nel caso si avvertissero sintomi per chiedere di essere esaminati.
Dato l’improvviso sovraccarico di chiamate il numero ha smesso, secondo molti, di funzionare come dovrebbe e si è cominciato a negare i test alla maggior parte di coloro che lo chiedessero.
Oggi, probabilmente per evitare un ulteriore ”inutile” sovraccarico, il governo ha deciso di interrompere la conta dei malati: un messaggio chiaro a tutta la popolazione: smettete di telefonare e curatevi da soli nel caso in cui abbiate sintomi (poco importa se si tratta di banale influenza, raffreddore o della peste del momento!).
La giustificazione ufficiale è che non c’è bisogno di ottenere una diagnosi precisa, nella misura in cui coloro che presentano sintomi quali tosse o febbre si attengono, responsabilmente, all’indicazione di rimanere a casa (che sia coronavirus oppure no sembra essere irrilevante).
Con questa misura il governo sta equiparando il coronavirus a una normale influenza. Ma ciò che è più grave è che la giustificazione nasconde un’amara verità: il sistema sanitario svedese ha capacità e risorse che non sono in grado di far fronte all’emergenza (solo un centinaio di posti in terapia intensiva, ad esempio). E a dispetto di ciò, l’epidemiologo Anders (incaricato dal governo di gestire l’emergenza), si concede il lusso di dichiarare che il ”il sistema sanitario svedese avrebbe prerogative decisamente migliori rispetto a quelle dell’Italia nel gestire la diffusione del contagio del coronavirus”.

Un altro aspetto riguarda quello della chiusura di scuole e università. Mentre ieri e l’altro ieri Danimarca e Norvegia (che hanno avuto un numero minore di casi rispetto alla Svezia) hanno deciso per la chiusura preventiva, il governo svedese continua a minimizzare. L’unica vera misura per la prevenzione della diffusione è stato il divieto di eventi che comportino più di 500 persone. A parte quest’eccezione, la vita sociale procede inalterata. In questo modo, come già scritto, si sta considerando la minaccia coronavirus alla stregua di una normale influenza stagionale. Per quale ragione la Svezia si sta comportando in questo modo?
Di sicuro il fattore ”culturale” sopra-citato di minimizzare pur di non creare panico così come di temere i cambiamenti repentini e di non rinunciare a certe comodità gioca un ruolo, ma non può considerarsi una ragione sufficiente. Leggiamo allora alla giustificazione ufficiale sulla mancata chiusura delle scuole. Le giustificazioni fornite dal governo sono in realtà due.

La prima é di carattere pratico-economico: ”[Chiudere le scuole] sarebbe una misura inefficace e implicherebbe uno stress eccessivo per settori importanti della macchina sociale, i genitori che lavorano nella sanità ad esempio dovrebbero rimanere a casa con i loro figli. E il sistema sanitar

io non può permettersi che una parte dei lavoratori siano a casa per accudire i loro figli.”

La seconda è di carattere psicologico (ma concedetemi di aggiungere ”biopolitico”): ”La scuola è per molti bambini, specialmente in momenti come questo, molto importante. Rappresenta un punto fermo e sicuro della quotidianità.”.

La prima giustificazione appare incomprensibile se si accetta la premessa, condivisa dal governo stesso, che non ci sarà un aumento esponenziale dei casi (e quindi nessuna particolare pressione sul sistema sanitario). Se, al contrario, il governo si preoccupa di carenza di personale nell’eventualità in cui questo dovesse accudire i propri figli, vuol dire che sa che ci sarà una crescita esponenziale dei contagiati e una imminente pressione sul sistema sanitario (in questo caso la strategia della minimizzazione è attuata coscientemente). Al tempo stesso, sta ammettendo che non ci sono risorse economiche per garantire la salute dei bambini (attraverso una sensata misura di prevenzione come la chiusura delle scuole) e, al contempo, il funzionamento degli ospedali. Bisogna scegliere l’uno o l’altro perché le risorse mancano. A questo punto bisognerebbe chiedersi perché mancano. E questa è la domanda più importante in un tempo in cui un sistema, quello capitalistico, che già normalmente dà prova della sua inadeguatezza nel garantire una vita decente a tutti, è messo alle strette ed è costretto così a palesare in maniera ancora più evidente le sue contraddizioni intrinseche.

Se questo primo aspetto, più strettamente economico, rimane quello più ovvio attorno alla quale sviluppare una critica politica, anche la giustificazione dal sapore bio-politico del ruolo della scuola dovrebbe essere considerata oggetto d’analisi in vista di una qualsiasi critica politica. Il mio obiettivo qui non è, comunque, rammentare del ruolo della scuola nel sistema capitalistico. Tuttavia, mi limiterò a dire che la seconda giustificazione deve essere letta in relazione alla prima: in Svezia, dove (a differenza dell’Italia) praticamente tutti i genitori lavorano e la disoccupazione è bassa, l’affermazione secondo cui la scuola risulta ”schiacciata” sui bisogni della vita economica risulta ancora più vera. Se è senz’altro vero che, in diversi gradi, in tutti i Paesi capitalistici la scuola è un’agenzia di addisciplinamento in preparazione della futura vita alla mercé del mercato, questo risulta particolarmente vero in Paesi, come la Svezia, in cui l’ideologia borghese del pragmatismo impregna profondamente ogni angolo della società e non ha ”contraltari” (in Paesi come l’Italia o la Germania questi ”contraltari” sono rappresentati in parte da ciò che rimane del movimento operaio e della sinistra, in parte da quella fetta di bagaglio artistico e culturale che non si lascia imprigionare dalle logiche di consumo o da schemi volti a misurare quantità e produttività).

Paradossalmente, in un Paese come la Svezia, a dispetto delle numerose mistificazioni che il Paese sa vendere di sé, il legame tra scuola ed economia è ancora più stretto, per questo non solo non è possibile ”chiudere” l’economia (misura che nemmeno in Italia è stata possibile se pensa alle fabbriche lasciate aperte), ma non è nemmeno possibile chiudere le scuole.
Mercato, vita sociale e sistema educativo, infatti, rappresentano tre tasselli di un sistema socio-politico dalle maglie particolarmente strette, in cui tutto deve essere previsto, pianificato e razionalizzato e dove anche un cambiamento temporaneo (la richiesta di una quarantena collettiva come accade in Italia) sarebbe vissuto come un inaccettabile turbamento per il capitalismo.

 

Matteo Iammarrone

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.