Mentre scriviamo, cresce in Svezia la curva dei contagi e da circa una settimana il conto ufficiale dei morti è di circa 80-100 al giorno. Ma, come rivelato dal giornalista Michael Toll su Aftonbladet, le cifre reali potrebbero essere almeno il doppio.

Anche solo attenendosi alle cifre ufficiali, la Svezia risulta essere il Paese più colpito in Scandinavia, nonché l’unico ad aver lasciato (quasi) tutto aperto: gli assembramenti di meno di 50 persone sono infatti consentiti e negozi, bar, ristoranti e scuole primarie sono regolarmente in funzione (eccetto per la scuola d’élite della principessina Estelle, Campus Manila).

Avevamo già parlato in un precedente articolo di come l’atteggiamento laissez faire e la strategia dell’immunità di gregge di fatto adottata dal governo svedese trovino una cinica, ma realistica, giustificazione nei limiti della sanità pubblica svedese. Questa ammissione da parte del governo, lungi dall’essere percepita come un’ammissione di colpevolezza, è vista, in assenza di una alternativa di società nella coscienza delle masse, così come dell’opinione pubblica, come una semplice constatazione della realtà, un fatto naturale e inevitabile a cui è obbligatorio piegarsi.

Avevamo anche denunciato come non c’è nulla di naturale e inevitabile nel non avere risorse sufficienti per mettere in sicurezza, garantire cure e salvare tutti, ma è semplicemente la conseguenza di un sistema, il capitalismo, che non riesce a garantire una vita dignitosa né un’equa distribuzione della ”abbondanza” su cui dice  di essere basato.

In questo articolo tratteremo in maniera un po’ più specifica della questione del coronavirus dal punto della sanità in Svezia. Analogie sulle condizioni dei lavoratori della sanità e, a partire da queste, basi per costruire la solidarietà internazionale di cui abbiamo bisogno per organizzare il socialismo, possono essere facilmente rintracciate.

Alla conferenza stampa delle 14 del 6 Aprile, Folkhälsomyndighet (l’autorità sanitaria con “pieni poteri”) a una domanda di un giornalista aveva risposto che sarebbe inappropriato utilizzare dispositivi di protezione privi di marchio di certificazione. Era anche stato detto che i dispositivi di protezione, da soli, sono inutili e il portavoce Tegnell aveva tirato in ballo un poco credibile e vago ”contesto più ampio da considerare”, una scusa atta a coprire l’impotenza del governo dinanzi alla carenza  di risorse: non potendo permettersi, economicamente, di mettere al sicuro lavoratori della sanità e pazienti, si fa passare l’idea che non vi sarebbe alcun modo per metterli realmente al sicuro e che la carenza di protezioni non è la causa dell’aumento esponenziale dei contagi e dei morti.

Questa farneticazione è stata smentita, però, da due lavoratori di Kiruna che presentano sintomi da coronavirus dopo essere stati costretti a lavorare senza protezioni dal padrone, difesosi, poi, affermando che le linee guida del governo non prevedono mascherine e che la distanza di 2 metri è sufficiente.

Tuttavia, il 7 aprile, a meno di 24 ore dall’esternazione di questa linea anti- mascherine, sembra esserci stata un’ inversione di marcia. Ciò che il giorno prima   era “scientificamente” vero (qualsiasi affermazione di Folkhälsomyndigheten è  recepita nel Paese come oro colato), il giorno dopo cessa improvvisamente di   esserlo e la verità, come in un libro di Orwell, può essere riscritta.
Se in 1984 oggetto di riscrittura era la verità storica, in Svezia è la verità scientifica che viene adattata alle esigenze politiche del momento, con una celerità maggiore persino di quella immaginata da Orwell nel suo romanzo: la nuova versione di Folkhälsomyndighet è che anche i dispositivi non certificati possono essere utilizzati.

È evidente che le autorità svedesi sono messe in difficoltà dal tentativo di difendere la loro immagine e credibilità a fronte di una oggettiva carenza di risorse di cui esse stesse, con i loro governi borghesi (socialdemocratici o liberali), sono responsabili.

Ricordiamo che la Svezia possiede 570 respiratori (erano 4300 nel 1993), per intenderci la metà dell’Italia in rapporto alla popolazione.

Per mantenere l’equilibrio della narrazione le autorità si trovano oggi costrette a mentire spudoratamente oppure, nei casi migliori, a fornire un’interpretazione rassicurante, ma faziosa, dei fatti reali.

Intanto, all’ospedale di Stoccolma Karolinska Institutet le nuove linee guida del codice etico impongono di negare la terapia intensiva agli ottantenni e ai sessantenni che abbiano patologie pregresse .

Una decisione “etica”, evidentemente controversa, che però è perlopiù passata in sordina. Oltre alle nefaste conseguenze per i pazienti, la carenza di risorse determina un peggioramento delle condizioni di lavoro per i lavoratori della sanità i quali, nella regione di Stoccolma (ma anche ad Uppsala) si vedono costretti a lavorare in condizioni particolarmente stressanti che, probabilmente, non hanno precedenti nella storia della Svezia. Nonostante ciò, gli aumenti salariali previsti per le situazioni di crisi non sono stati ancora attivati.

Come raccontato dall’infermiera Sofia Lindström al giornale online Arbetaren, a causa della carenza di personale, lei e i suoi colleghi sono costretti a compiere “scelte etiche” difficili e a lavorare sotto pressione per 12 o, addirittura in qualche caso, 15 ore al giorno.

Non è solo il carico di lavoro il problema, ma anche la carenza di attrezzature, mascherine e materiali basilari. La frustrazione, la rabbia e la protesta dei lavoratori trovano espressione in un gruppo Facebook chiamato ”Vägra sänkta hygienkraven” (rifiutiamoci di abbassare il livello di igiene) dove, secondo alcune testimonianze, negli ospedali manca persino il sapone e alcuni infermieri sono stati costretti a turni di 17 ore e, mettere carta igienica davanti alla bocca dei pazienti per evitare di essere infettati è diventata prassi comune. “La situazione è surreale!”, testimonia Malin, un’infermiera che, essendo asmatica e dovendo coprire turni da 2 o 3 persone perché i suoi colleghi sono a casa in malattia, ha serie ragioni per essere preoccupata per la propria salute, quella dei suoi colleghi e quella dei pazienti, messa in queste settimane seriamente a rischio dalle avverse condizioni di lavoro che il capitalismo, nella sua tinta nordica- socialdemocratica, sa offrire.

Matteo Iammarrone

 

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.