Il grande movimento di rivolta antirazzista contro la violenza della polizia negli USA è in gran parte rifluito, ma le cause del suo scoppio sono ancora tutte in piedi: un trumpismo sociale e politico che ha perso alle elezioni presidenziali ma che sopravvive; un apparato di polizia violento e razzista, quasi invariato rispetto a sei mesi fa; una situazione di disoccupazione, povertà ed emarginazione sociale che colpisce decine e decine di milioni di persone negli USA, in particolar modo tra i neri e le minoranze etniche. La vittoria del Democratic Party alle presidenziali ha avuto successo nell’attirare enormi energie ed attenzioni politiche sulla sconfitta di Trump, ma i liberal non possono permettersi di fare politiche a favore dei loro padrini capitalisti e allo stesso tempo a favore delle masse diseredate: finiranno anche stavolta per stare dalla parte dei primi, contribuendo a creare le condizioni politiche per il rilancio e l’allargamento del conflitto sociale nel prossimo futuro.

Proponiamo dunque queste riflessioni, elaborate a partire dallo scorso settembre, che toccano alcuni punti fondamentali del dibattito politico legato ai riot e alle forme di lotta radicale che la ribellione antirazzista.


Chi intende rinunciare alla lotta “fisica” deve rinunciare a qualsiasi lotta, poiché lo spirito non vive senza la carne. Seguendo la splendida frase del grande teorico militare Clausewitz, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Questa definizione si applica pienamente anche alla guerra civile. La lotta fisica è solo “un altro mezzo” della lotta politica. È inammissibile opporre l’una all’altra perché è impossibile controllare a proprio piacimento la lotta politica quando essa si trasforma, per la propria intrinseca forza, in una lotta fisica.

Lev Trotsky, Dove va la Francia?

1) Se la lotta fisica è la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi, il regime razzista e violento di oppressione e sfruttamento capitalista non può che generare forme di lotta fisica radicale, contraria a quella altrettanto radicale dei nostri oppressori e sfruttatori.

Il riot, il saccheggio, l’abbattimento di strutture simboliche odiose e la guerriglia urbana sono forme di protesta legittime e profonde contro un sistema che mette la proprietà privata prima della vita umana. Di fronte allo schieramento di forze di polizia e di squadracce brutali, che godono di impunità giuridica e che si accaniscono contro il proletariato, di fatto costituiscono l’unica alternativa immediata alla sottomissione passiva alla violenza degli oppressori. Come abbiamo potuto osservare in questa ondata di proteste iniziata a Minneapolis lo scorso maggio, il riot è la lotta per la sopravvivenza di chi vive nel cuore dell’impero; è, allo stesso tempo, quel tipo di reazione che si impone con urgenza laddove il meccanismo della rappresentanza politica è saltato e dove la cinghia di trasmissione tra realtà sociale e istituzioni è interrotta. Il riot, in questi casi, è l’antidoto al vittimismo, è il canale attraverso cui il lutto e il dolore si trasformano in volontà di potenza. E di quest’ultima c’è un immenso bisogno, proprio perché il duopolio democratico-repubblicano sta diventando sempre più obsoleto e avulso dall’esperienza vissuta di milioni di persone.

2) Questo non bisogna aver paura di dirlo: di proletariato si tratta, sia quando si parla delle vittime della polizia, ma anche e soprattutto quando si parla dei soggetti che agiscono e animano la rivolta. La specificità della storia americana, infatti, ci consegna una classe lavoratrice particolarmente razzializzata. Negli USA, la linea di classe si innesta sulla linea della razza che taglia verticalmente – e non trasversalmente – la società americana, secondo parossistiche determinazioni altrove sconosciute, almeno a questo grado di profondità”. Dinamiche quindi poco conosciute in Europa, ma che forse hanno contribuito a collocare le lotte di classe negli USA in un terreno più avanzato e più cosciente rispetto a quelle di casa nostra. Le “ragioni dei neri” sono dunque un catalizzatore particolarmente efficace per le rivolte, perché “proprio attorno a quel pezzo di società americana si trovano le fratture di classe e i suoi antagonismi fondamentali”. Del resto, persino i repubblicani se ne sono accorti.

3) L’efficacia dei riot è comprovata e i loro obiettivi non sono affatto casuali; dai primi attacchi alle stazioni di polizia, si è subito passati alle grandi catene e alla grande distribuzione. Con la lotta si è cercato di realizzare la socializzazione di quei beni di consumo che il vincolo salariale rende inaccessibili. Dalle sedi di ALBI e Target si è quindi passati alle banche, finanziatrici dello stato di polizia, e ai centri di amministrazione locali, per arrivare finalmente ai palazzi del potere, alla Casa Bianca, costringendo il presidente a rifugiarsi in un bunker. Queste scelte dimostrano una notevole consapevolezza delle gerarchie concrete su cui si regge la proprietà privata e di quali siano i punti nevralgici della società capitalistica.

4) Le proteste non-violente o pacifiche non delegittimano in alcun modo tutte le altre. In particolare, abbiamo visto negli ultimi mesi come la diffusione senza precedenti delle proteste abbia spesso portato molti ad un paragone con il movimento per i diritti civili degli anni ‘60. Questo accostamento è spesso servito a denunciare l’inefficacia delle proteste odierne o, nella maggior parte dei casi, a condannarne i metodi bestiali e violenti. Si tengano però in considerazione due cose:

a) La narrazione del movimento per i diritti civili che viene fatta in quest’ottica di discredito è mistificata e revisionista, figlia di quel perbenismo che vuole ridurre la storia delle lotte sociali ad una pettinatissima sfilata. I riot ci furono eccome anche negli anni ‘60 e, all’epoca, il movimento fu sottoposto alle medesime critiche che sentiamo oggi; lo stesso ML King avrebbe detto che “il riot è il linguaggio di chi non viene ascoltato”, con buona pace dei molti che in questi ultimi tempi hanno cercato di strumentalizzare la sua figura. Insomma, un movimento di protesta è civile solo in retrospettiva.

“Conto di stare alla testa di un’altra marcia non-violenta domani”: una vignetta dell’epoca che attacca il movimento radicale di protesta antirazzista degli anni ’60, che aveva tra i suoi leader Martin Luther King.

b) Oggi la questione non è più quella di ottenere alcuni diritti civili per poi tornare alla pace sociale sotto il capitalismo. I rioters di Portland, Kenosha e Minneapolis non credono più in alcuna cittadinanza. Le proteste divampate in questi ultimi mesi si pongono su di un piano completamente diverso: non si tratta più di cercare l’accesso ad un ambito politico per poi ricostituirsi come soggettività nuove al suo interno, avviando quindi un processo di ridefinizione dell’ambito stesso; si tratta oggi di aggredire questo ambito politico per distruggerlo insieme a tutte le istituzioni coercitive che lo tengono in piedi. Il contratto sociale è saltato, come ha detto la militante Kimberly Jones in un brillante discorso.

5) Il taglio dei fondi alla polizia è un’ottima rivendicazione di carattere tattico, ma, in quanto tale, deve essere concepita come transitoria. Volendo si potrebbe addirittura interpretarla come un passo indietro rispetto alle istanze molto più radicali dei primissimi momenti della rivolta che avevano portato allo scioglimento del dipartimento di polizia di Minneapolis. Taglio dei fondi e abolizione chiaramente non sono la stessa cosa. Bisogna dunque prestare attenzione ai soliti limiti del riformismo; come sottolineato dal podcast di Vox – non proprio la Pravda dunque – a cadere vittima delle riduzioni di budget sarebbero, con ogni probabilità, i reparti di analisi dei dati e di reclutamento, dal momento che tutti i dipartimenti danno priorità assoluta a mantenere un certo numero di agenti nelle strade. La rimozione di questi uffici ridurrebbe ulteriormente quel poco controllo rimasto nelle assunzioni all’interno dei corpi di polizia, portandoli così a mettere in campo forze ancora più incompetenti e pericolose. Chiedere un taglio ai fondi ignorando il problema della decisione è quindi inutile e controproducente. Bisogna chiedersi: chi opererà questi tagli? Seguendo quali interessi? È chiaro ormai che i tempi delle deleghe sono passati. Chi è sceso in strada vuole organizzare la giustizia in maniera completamente nuova e del tutto autonoma. Rivendicazioni di questo tipo, e il loro eventuale ottenimento, non possono essere un obiettivo in sé nella lotta contro il capitalismo, ma dei ponti verso più profondi e radicali obiettivi.

6) La distinzione tra violenza e pacifismo/non-violenza è sterile. Quando si lotta per la sopravvivenza, la violenza non è una scelta. Come scriveva Lukacs, la violenza è presente in maniera “latente e potenziale in e dietro ogni rapporto economico; distinzioni come diritto e violenza, ordine e ribellione, violenza illegale e legale respingono sullo sfondo la base comune di violenza di tutte le istituzioni delle società classiste”. La violenza dunque è un fatto costante e fisiologico del capitalismo. Semmai “oggi il problema che si pone non è: violenza o non violenza. Ma quale violenza: la loro o la nostra?”. Alla luce di queste considerazioni, possiamo dire che la sinistra e i movimenti che approcciano la violenza in maniera ideologica, come se fosse una specie di dilemma a sé stante da sciogliere, si condannano a rimanere sempre un passo indietro rispetto alla rivolta americana. La questione, semmai, è quali forme di lotta, di scontro corrispondano meglio alla natura e agli scopi del movimento dei lavoratori, del nostro movimento.

Ben lungi dall’opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione.

Karl Marx, Indirizzo al Comitato Centrale della Lega dei Comunisti

7) Tuttavia, la distinzione tra riformismo e rivolta, tra proteste “violente” e “pacifiche”, può tornare utile per porre il problema dell’avanguardia, e quindi del potere. Quello di avanguardia è un concetto particolarmente controverso, a causa dei numerosi fraintendimenti e distorsioni subite nel tempo. Molti l’hanno intesa come un gruppo estraneo alla massa che finisce per sussumerla o sostituirla, quando in realtà si tratta semplicemente della prima fila, del punto più avanzato della lotta, quel frangente che, pur nelle sue dimensioni minoritarie, ha un ruolo decisivo nel mantenere acceso lo scontro e a definire la posta in gioco per tutti gli attori in campo, per l’intera massa della popolazione. Finora le lotte si sono contraddistinte per la loro spontaneità, ma la formidabile continuità e intensità degli scontri in alcune zone lasciano sperare in un futuro possibile salto di qualità. Salto necessario se si vogliono consolidare le conquiste ottenute finora – ma anche perché la violenza poliziesca non è per nulla cessata – e che riteniamo sarà reso possibile solo da un incontro prolifico col movimento operaio. I mezzi tradizionali della lotta di classe, come lo sciopero, il boicottaggio e il picchetto, possono dare nuova linfa alla rivolta, tracciando una traiettoria comune con le altre lotte che hanno scosso gli USA nell’era Covid-19, come le proteste contro i debiti studenteschi e gli scioperi degli insegnanti. Ben presto la rivolta si accorgerà che non basta distruggere le forme e i simboli del potere politico ed economico di una piccola élite di ricchi, ma che bisogna anche pensare e costruire nuove forme di organizzazione economiche, nuovi organi di potere politico veramente democratici che sostituiscano le istituzioni di questa società borghese.

A questa nuova, enorme ondata di conflitto sociale mancano ancora molti passi in avanti per raggiungere degli obiettivi così ambiziosi, ma d’altronde i problemi e i compiti che la situazione economica, sociale, politica, ambientale impone a noi sfruttati e oppressi sono inaggirabili proprio perché grandi e decisivi per il nostro futuro – per avere un futuro. Per questo la rivendicazione, prima impensabile per molti, del taglio dei fondi alla polizia deve essere soltanto uno step verso la questione del potere – se comanda un pugno di sfruttatori o la grande massa di coloro che producono la ricchezza. Rendere le trincee già conquistate imprendibili e far avanzare il movimento è un compito fondamentale dei comunisti, così che lo scontro sociale avanzi non solo in ampiezza ma anche in profondità, nella sua qualità.

 

Marco Duò

Vive in Veneto. Lavora come precario nel mondo della scuola.