Stasera si è tenuta la conferenza stampa del presidente Conte per annunciare le misure contenute nel nuovo DPCM che regola lo scenario delle festività di fine anno. La linea democristiano-confindustriale del governo scricchiola da ogni parte, tra pace sociale temporanea, pressioni degli industriali e crisi pandemica ben presente… così come quella economica.


Il governo è arrivato al fatidico 3 dicembre, ultimo giorno in cui l’ultimo DPCM, centrato sulla divisione dell’Italia in regioni di “colore” diverso”, è valido. Da domani, entra in vigore il nuovo Decreto Natale, che aggiornerà svariati aspetti della gestione della crisi pandemica nel nostro paese: vediamo nel dettaglio di che si tratta.

 

Il Decreto Natale

Conte ha illustrato le novità che caratterizzeranno la fase delle festività di fine anno:

_dal 21 dicembre al 6 gennaio sarà vietato spostarsi fra regioni, con le eccezioni dei motivi di lavoro/salute, per assistere persone non autosufficienti, e per recarsi presso la propria residenza, domicilio o abitazione – definizione abbastanza larga e su criteri informali tale da permettere un’elasticità di spostamento maggiore di quella che si paventava fino a poche ore fa;

_nelle giornate del 25/26 dicembre e del primo gennaio, non si potrà uscire dal comune in cui ci si troverà ma, volendo salvare l’atmosfera natalizia, si dà un via libera totale agli inviti nelle rispettive dimore, ampliando ulteriormente il “buco” che caratterizza questo lockdown natalizio all’italiana;

_il coprifuoco rimane in vigore e, anzi, è prolungato fino alle 7 del mattino nella giornata di capodanno;

_a parte pochissime restrizioni, le attività di ristorazione potranno rimanere aperte durante tutte le feste, così come i negozi e i centri commerciali potranno in sostanza rimanere aperti fino alle 21, in spregio di tutti i lavoratori del settore, sottopagati e con orari e turni di lavoro massacranti;

_chi andrà all’estero durante il periodo di “blocco” dovrà sottoporsi alla quarantena;

_il settore di aziende che sconta la paura di un picco di contagi è quello delle crociere (vietate da e per l’Italia, anche gli scali) e del turismo invernale, con gli stabilimenti chiusi per tutto il periodo di chiusura delle regioni;

_al posto di misure economiche sostanziali verso i milioni di disoccupati e impoveriti che la doppia crisi sta creando, il governo ha annunciato un piano cashback-cashless dove, con rimborsi (chashback) fatti sulle spese con bancomat o carte (cashless, cioè “senza contanti”) tra l’8 e il 31 dicembre, si potranno avere indietro a gennaio fino a 150 euro; l’esperimento si ripeterà nel 2021 su base semestrale, ma la quota massima (per semestre!) sarà sempre di 150 euro. Briciole a tutti i consumatori (non a quelli impoveriti e in difficoltà) in un tentativo di far arrivare soldi al settore del commercio – che ovviamente comprende sia i dettaglianti in difficoltà se non in crisi nera, sia le attività che non hanno avuto gravi problemi, sia le grandi catene. Un win-win del settore sempre a scapito dei fondi pubblici, cioè in primis delle tasse e delle imposte versate dai ceti bassi, dalla popolazione lavoratrice.

Novità, fondi e misure per fronteggiare la pandemia? Nulla: si vedrà a gennaio, ora la responsabilità è dei singoli, del comune cittadino atomizzato, né dello Stato, né della classe dominante (che continua a macinare profitti col beneplacito del governo).

Governo-regioni: la gestione “unitaria” della crisi è (sempre) più una farsa

Il DPCM Natale, oltre che per i contenuti, si caratterizza per essere l’ennesimo banco di prova dove l’apparato governativo nel suo complesso mostra segnali di crisi e di scontro interno. È notizia di oggi, uscita dalla Conferenza Stato-Regioni e riportata da Ansa, la “assenza di un preventivo confronto tra le Regioni […] che contrasta con lo spirito di leale collaborazione, sempre perseguito nel corso dell’emergenza, considerato peraltro che la scelta poteva essere anticipata anche nel corso del confronto preventivo svolto solo 48 ore prima”.

I presidenti delle regioni, dunque, accusano il governo centrale di aver solo chiacchierato nell’incontro con queste ultime che avrebbe dovuto stabilire delle linee comuni. La contestazione non è solo di metodo, il che è già grave, tenendo conto che arriva da un’assemblea dove 15 presidenti su 20 sono espressione di partiti che non fanno parte del governo nazionale.

I “governatori” contestano i contenuti del decreto: il mancato confronto “non ha consentito di portare all’individuazione delle soluzioni più idonee per contemperare le misure di contenimento del virus e il contesto di relazioni familiari e sociali tipiche del periodo delle festività natalizie”.

In sostanza, il punto dove si concentra il potere politico del vecchio centrodestra – le regioni, appunto – viene usato da trampolino contro la linea democristiana e confindustriale, ma non troppo del governo, che non ha garantito linee guida liberiste in ambito di contenimento del virus in occasione delle festività natalizie: non si tratta tanto di “difendere la famiglia” (slogan che, provenendo da personaggi ipocriti e svergognati come i politici della destra, fa solo ridere), anche perché delle famiglie povere a questi governatori importa poco, quanto intercettare il malumore dei ceti medio-alti, dei piccoloborghesi nel panico e della borghesia che reclama la sua più completa “libertà”, senza dover sottostare alle reclusioni-quarantene che si vuole imporre alla massa “plebea”.

Il fallimento del sistema sanitario in carico alle regioni e semi-privatizzato, preparato da decenni di tagli feroci alla sanità pubblica, non sta frenando i governi regionali dal fare la parte del leone e dal porsi in qualche modo alla pari con lo Stato e il governo centrale, cercando di piegare il bastone a proprio favore il più possibile nell’interpretazione dell’attribuzione costituzionale di poteri che a loro competerebbero. Quando ci sarebbe stato da far valere l’enorme differenza nella dinamica del contagio fra nord e centro-sud, e fra Lombardia e resto del paese, non ci fu nulla da dire: quarantena medievale per tutti, con tanta polizia, pochi tamponi e scarse misure sanitarie. Una volta ripresi dallo shock, ecco che tutti i vari “governanti” borghesi cercano di ricostituire, come e peggio di prima, il sistema di poteri frastagliati a più livelli, in base alle varie cordate e consorterie.

Un 2021 di pace sociale e ripresa?

Le energie concentrate nel processo di approvazione parlamentare del MES (senza reali possibilità di rifiuto, ha fatto capire Conte), poi dei fondi Next Generation, e intanto nelle lotte interne alla burocrazia statale, partono dal presupposto che questo lockdown sui generis regga e che non ci troveremo a metà gennaio con decine di migliaia di positivi rilevati e ancora con centinaia e centinaia (oggi 993 in Italia, la cifra più alta dall’inizio del contagio!) di morti: è vero che questo tipo di situazione è stato “normalizzato”, ma quanto tempo ha ancora la classe dominante, e dunque il governo, prima che questa normalizzazione si logori seriamente e cada a pezzi? I segnali di opposizione e confitto sociale sono stati sinora deboli e vanno incontro al bivio del rinnovo dei contratti nazionali di lavoro e del termine del periodo di formale (ma non reale) sospensione dei licenziamenti. I posti di lavoro bruciati e non recuperati sono ancora centinaia di migliaia, e il reddito dei ceti medio-bassi continua a calare, mentre quello dei più ricchi è aumentato alla grande, a partire dai grandi capitalisti miliardari nostrani e stranieri.

La “ripresa” economica che si desidera per il 2021 è legata da una parte all’esito della vaccinazione di massa, una dinamica dove lo Stato italiano ha un’agibilità limitata dai meccanismi globali di competizione interstatale e corsa al profitto sui vaccini, prodotti sostanzialmente da mega aziende farmaceutiche private. Dall’altra, a una ricetta “lacrime e sangue” (e non esageriamo) con rialzi dell’orario di lavoro a parità di paga, sul modello proposto dal governo di Nea Demokratia in Grecia, e senza misure strutturali di contenimento del virus… dato che dovrebbero essere tutte volte a intaccare il diritto al profitto delle aziende a favore del diritto alla salute e a infrastrutture, sanitarie in primis, dignitose per tutta la cittadinanza. Per ora, invece, prevale la logica “tutti i soldi (o quasi) a chi ce li ha già”, sperando che a cascata ne beneficino tutti. È il vecchio modello neoliberale che ha portato il mercato globale e l’economia capitalista pressoché al collasso per via della diffusione di un solo virus, quanto molti potrebbero fare in tempi storicamente infinitesimali il salto di specie, contagiando l’uomo.

In uno scenario del genere, il mantenimento della pace sociale significherà il progressivo sprofondare in una barbarie di miseria, impoverimento e militarizzazione sempre peggiori. Questo scenario non italiano ma mondiale non sembra avere le carte per rilanciarsi in grande stile – come nel secondo Dopoguerra – se non a prezzo di altri cicli di violenza e distruzioni inauditi per proporzioni, in un mondo che conta 7,8 miliardi di abitanti. Per uscire dalla crisi pandemica e da quelle che seguiranno, così come dalla crisi economica che è appena iniziata, è necessario che la spina dorsale dell’umanità, la classe operaia, prenda le leve dell’apparato sanitario come di quello industriale per dirigerle direttamente. Non saranno Amazon, i padroni di Confindustria e i potentati sanitari e agroindustriali a salvarci dalla crisi che ci sta inghiottendo.

Giacomo Turci

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.