L’emergenza ecologica è in atto. Ma l’interpretazione di Lenin che Andreas Malm offre non è la soluzione: ce ne parla la compagna francese Marina Garrisi a partire dalla letture di Corona, Climate, Chronic Emergency di Malm.
Andreas Malm è docente di geografia umana all’Università di Lund in Svezia e attivista ambientale. Autore di numerosi libri negli ultimi anni, nei suoi studi cerca di articolare la questione della lotta ambientale con il marxismo. Uno dei suoi ultimi lavori è Corona, Climate, Chronic Emergency[1].
Strategia in un tempo di emergenza cronica
Scritto nell’aprile del 2020 nel cuore della prima ondata dell’epidemia di coronavirus, Corona, Climate, Chronic Emergency è un tentativo di spiegare il singolare carattere della crisi globale scatenata dalla pandemia di Covid-19. Con il pretesto della dimensione “spettacolare” della crisi, le dichiarazioni ufficiali hanno cercato di far sembrare la pandemia come un incidente di percorso. Come scrive Malm,
La crisi del coronavirus è arrivata fin dall’inizio con la promessa di un ritorno alla normalità: questa promessa era insolitamente forte e credibile perché la malattia sembrava molto più esterna al sistema che, ad esempio, il crollo di una banca d’investimento. Il virus era l’epitome di uno shock esogeno (p.4).
Contrariamente all’idea secondo cui la crisi attuale sarebbe solo una parentesi dalla quale si può uscire nel breve-medio periodo, Malm sostiene che un “ritorno alla normalità” è impossibile. L’arrivo del suo studio in Francia solo poche settimane prima di una nuova quarantena e in piena crisi economica e sociale mondiale sembra avere confermato questa sua diagnosi.
Le prime due parti del libro – “Corona and climate” e “Chronic Emergency”– sono una dimostrazione sintetica e convincente della responsabilità del modo di produzione capitalistico nell’emergenza e nello sviluppo di nuove pandemie. Dalla comparsa del virus, molti epidemiologi hanno attribuito la responsabilità della trasmissione dei patogeni che causano SARS-Covid-2 negli umani ai pipistrelli (e/o ai pangolini). Malm sintetizza brevemente le ragioni per le quali i pipistrelli (chirotteri[2]) sono vettori particolarmente importanti di patogeni. Queste singolari caratteristiche hanno fatto sì che i pipistrelli siano già stati chiamati in causa per la trasmissione di diverse epidemie in passato (virus Nipah, probabilmente Ebola, SARS-1 ecc), e rappresenterebbero un collegamento decisivo nella trasmissione del SARS-Covid-2. Se questi meccanismi di straripamenti zoonotici[3] sono stati generalmente ignorati in quasi tutto il mondo, simili scenari erano tuttavia già stati presi in considerazione in ambito scientifico, al punto che Malm sottolinea che “se c’è un sentimento che non ha attraversato gli scienziati che lavoravano su questi straripamenti zoonotici quando il Covid-19 è esploso, è stato quello dello stupore. I pipistrelli causeranno una pandemia, ‘è solo questione di tempo’, ha concluso un team nel 2018 (p.61)”.
In generale, la dimostrazione scientifica si ferma qui e il pipistrello diventa quindi il “primo colpevole” della pandemia di Covid-19; Malm, tuttavia, si addentra più in alto nella catena di trasmissione per fare luce sui fattori scatenanti queste pandemie zoonotiche, dimostrando che non vi è nulla di “naturale” o “accidentale” in esse.
È, per così dire, logico, che strane nuove malattie stiano sorgendo dal mondo selvaggio: è proprio al di là del territorio umano che risiedono patogeni sconosciuti. Ma questo mondo potrebbe essere lasciato tranquillo. Se l’economia messa in moto dagli uomini non avesse trascorso il suo tempo ad assalirlo, invaderlo, dilaniarlo, tagliarlo a pezzi, distruggerlo con zelo al limite della furia sterminatrice, queste cose non sarebbero avvenute (p. 35).
Sottolineando la responsabilità della logica economica, l’autore chiama in causa un particolare processo: la deforestazione[4]. Eccoci dunque un po’ più in alto nella catena di causalità, a uno stadio in cui i pipistrelli sembrano essere più vittime che colpevoli. Prosegue Malm:
La deforestazione è il motore dello straripamento zoonotico all’inizio del XXI secolo, dobbiamo chiederci qual è il motore della deforestazione (…) Nel nuovo millennio, è la produzione di merci che sta divorando le foreste tropicali (…) Quattro prodotti – carne di manzo, soia, olio di palma e legno (…) da soli hanno rappresentato i quattro decimi della deforestazione tropicale, che ha subito un’accelerazione in proporzioni spettacolari tra il 2000 e il 2011 (pp. 44-45).
Dietro questo saccheggio organizzato di suoli e foreste, troviamo lo stesso colpevole: il capitale fossile, un termine usato da Andreas Malm per riferirsi alla parte di capitale che vive e beneficia della continua estrazione di combustibili fossili. In altre parole, sono le grandi aziende capitaliste le prime colpevoli della deforestazione, del moltiplicarsi degli straripamenti zoonotici e, quindi, del proliferare di nuove malattie mortali per l’uomo.
Al termine di questa brillante dimostrazione, l’ipotesi formulata da Malm del “capitale come metavirus e protettore dei parassiti” (p. 78) è davvero convincente e consente inoltre all’autore di stabilire un collegamento tra la comparsa e lo sviluppo di una pandemia e l’aggravarsi della crisi climatica: “l’estrazione di combustibili fossili nelle foreste tropicali combina i fattori trainanti del cambiamento climatico e la tracimazione zoonotica in un bulldozer (…) Capitale fossile: capitale parassita” (p. 106).
Rimangono da trarre le logiche conclusioni da questa dimostrazione. La prima è che sarebbe ingenuo pensare che chi è alla radice dei nostri problemi sia in grado di risolverli. Andreas Malm sottolinea giustamente che i capitalisti, cioè coloro che beneficiano direttamente del modo capitalistico di accumulazione, non sono in grado di vedere nella natura un valore in quanto tale. Questa ha valore solo come “uno spazio di risorse che non è stato ancora sottoposto alla legge del valore” (p. 77, enfatizzato in corsivo). Ed è per questo che l’idea di “capitalismo verde” è una pura illusione. La seconda conclusione è che queste catastrofi (pandemia, riscaldamento globale, ma anche crisi economiche e sociali che le accompagnano) sono in realtà una parte intrinseca della “normalità” capitalista. L’emergenza non è una parentesi, è cronica. In questo senso, il ritorno alla (o meglio il mantenimento della) “normalità” che i vari governi stanno cercando di prometterci sarebbe, in realtà, il mezzo più sicuro per condannare il ventunesimo secolo a essere nient’altro che una nuova “età delle catastrofi”.
La diagnosi di Andreas Malm è sufficiente per farci passare qualche notte insonne. Tuttavia, non invita in alcun modo al disfattismo: “Certo, questo nemico può essere mortale, ma può anche essere sconfitto” (p. 128). A patto, prosegue l’autore, di attivare le leve giuste, di sfuggire a ogni “fatalismo climatico”, vera “contraddizione performativa” e che la sinistra radicale abbandoni la sua postura essenzialmente “curativa” – si potrebbe anche dire difensiva – limitata, di fronte alla crisi, alla ricerca dei “palliativi migliori”[5].
Leninismo e Stato borghese
“Si è parlato molto di marxismo ecologico negli anni recenti; con l’emergenza cronica che grava su di noi è arrivato il tempo di sperimentare anche il leninismo ecologico”, scrive Malm (pp. 147-148). Già nel suo “L’Antropocene contro la storia” (Anthropocene vs history)[6] del 2017, Malm sottolinea la necessità di pensare un programma di emergenza ecologica, ispirandosi alle azioni dei bolscevichi nel 1917. Sempre nel 2017 nella conferenza di presentazione di “Thinking about Emancipation”, ha cercato di rivendicare l’attaccamento di Lenin alla “natura selvaggia” e alla sua conservazione. Fare riferimento a Lenin non è una novità per Malm, ma in “The Bat and the Capital” vediamo come cerca di sviluppare quello che per lui è il “leninismo ecologico”. Fondamentalmente, il leninismo riflette in Malm una tensione a non ridurre la strategia a soluzioni una tantum e parziali (“dighe”), ma, al contrario, a cercare modi per una transizione ecologica globale e radicale.
Per imporre una transizione ecologica radicale al capitale fossile si dovrebbe cominciare, sostiene Malm, con “la richiesta di nazionalizzare le compagnie di combustibili fossili” e con la loro “trasformazione in attrezzature di cattura diretta dell’aria” (p. 143). Insieme a questo, ci dovrebbe essere “una pianificazione rigorosa e globale” (p. 144) e, scrive, “se c’è qualcosa di cui avremo bisogno per trattare le cause dell’emergenza cronica è un certo grado di forza” da parte dello Stato (p. 125). In effetti, sembra abbastanza illusorio immaginare che coloro che traggono profitto dall’attuale organizzazione del modo di produzione capitalista saranno pacificamente persuasi a invertire lo stato attuale delle cose. Per riprendere il controllo, riorganizzare e convertire la produzione, l’esistenza di un certo tipo di Stato sembra inevitabile. Da questa prospettiva, fare marcia indietro nell’affrontare il “problema dello Stato” è, fondamentalmente, rendersi impotenti nel pensare a una transizione su una scala macro – una scala che è, a sua volta, assolutamente indispensabile per pensare alla transizione nel quadro di un’emergenza globale cronica. Questo è ciò che le correnti anarchiche rifiutano di capire, scrive Malm; per loro, fondamentalmente, “lo Stato è il problema, l’assenza di esso la soluzione” (p. 122), ma “abbiamo bisogno (per un certo periodo di transizione) di uno Stato. Questo è ciò che ci distingue dagli anarchici, per dirla con Lenin” (p. 131).
Fino a questo punto, l’argomentazione di Malm sembra convincente. È davvero illusorio immaginare che le società capitalistiche pongano fine all’accaparramento delle materie prime e dei mezzi di produzione, condizione necessaria per porre fine al saccheggio della natura e per riorganizzare la società, risparmiando così un certo periodo di transizione. Già ai suoi tempi Karl Marx ridicolizzava coloro che rifiutavano l’uso di qualsiasi forma di autorità da parte della classe operaia in nome di una “purezza dei principi eterni.”
Più discutibile, invece, è l’esercizio teorico che porta Malm ad abbandonare il modo di Lenin di risolvere proprio questa questione dello Stato:
Abbiamo appena argomentato che lo Stato capitalista è per sua costituzione incapace di compiere questi passi verso la transizione ecologica. Eppure non c’è altra forma di Stato in offerta. Nessuno Stato dei lavoratori basato sui soviet nascerà miracolosamente durante la notte. Nessun doppio potere degli organi democratici del proletariato sembra verosimilmente materializzarsi in tempi brevi, se non mai. L’attesa sarebbe sia delirante che criminale, quindi tutto ciò con cui dobbiamo lavorare è il triste Stato borghese, ancorato ai circuiti del capitale come sempre. Dovrebbe essere esercitata una pressione popolare su di esso, spostando l’equilibrio delle forze in esso condensate, costringendo gli apparati a tagliare le corde e iniziare a muoversi. (…) Ma questo sarebbe chiaramente un allontanamento dal programma classico di demolizione dello Stato e di costruzione di un altro – un aspetto del leninismo tra altri che sembra anche meritare un necrologio (pp. 151-152).
Nel suo celebre “Stato e rivoluzione” pubblicato nell’estate del 1917, Lenin spiega come la tradizione marxista ereditata da Marx ed Engels affronta la questione dello Stato e i compiti dei rivoluzionari nei suoi confronti, contro certi tentativi di “revisioni” teoretiche all’interno del movimento operaio[7]. Lenin insiste nuovamente sull’idea fondamentale che “lo Stato è un organo di governo di classe, un organo per l’oppressione di una classe da parte di un’altra; un ordine che legalizza e perpetua questa oppressione moderando il conflitto tra le classi[8].
Secondo questa concezione, lo Stato serve come “strumento di sfruttamento della classe oppressa”, ed è quindi del tutto illusorio immaginare che possa essere rivolto contro gli interessi della classe a cui risponde. Ciò che Lenin difende esplicitamente è la prospettiva strategica di un confronto con lo Stato e la sua distruzione, adottando una nota formula di Marx secondo la quale tutte le rivoluzioni hanno solo perfezionato la macchina statale, ma ciò che conta è distruggerla. Ciò non significa, naturalmente, che la distruzione dello Stato borghese può essere usata come una parola d’ordine indipendentemente dalla situazione[9] ma che i rivoluzionari devono lavorare e guidare l’azione delle masse in questa prospettiva.
La risposta alla domanda su come distruggere e con che cosa sostituire lo Stato borghese è stata data dalle esperienze della Comune di Parigi del 1871 e, più tardi, dalle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917. Queste hanno visto lo sviluppo di organi indipendenti di lotta della classe operaia, veri e propri strumenti di classe per l’insurrezione, storicamente chiamati soviet (“consigli” in russo). Rielaborata in questi termini da Lenin, la transizione rivoluzionaria assume allora una forma singolare, quella di un confronto di due tipi di istituzioni che rispondono a interessi di classe fondamentalmente opposti: da un lato, lo Stato capitalista come strumento di dominio borghese; dall’altro, i soviet come organizzazioni di sfruttati e oppressi in lotta.
Questa particolare forma di lotta per il potere fin dai tempi di Lenin è stata definita come l’ipotesi del potere duale. La formulò in un lavoro del 1917 basato sull’esperienza della Rivoluzione Russa:
Questo potere duale è evidente nell’esistenza di due governi: uno è quello principale, l’attuale, governo della borghesia (…) che detiene nelle sue mani tutti gli organi di potere; l’altro è un governo supplementare e parallelo, un governo “di controllo” nella forma del Soviet degli operai di Pietrogrado e del Soviet dei Deputati e dei Soldati di Pietrogrado che non detiene organi di potere statale, ma poggia direttamente sul sostegno di un’evidente e indiscutibile maggioranza del popolo, sugli operai armati e sui soldati.
Se, dunque, Lenin effettivamente polemizza con la prospettiva dell’ “abolizione dello Stato” difesa dagli anarchici, non è per evitare il momento di confronto e di distruzione dello Stato borghese ma al contrario per insistere – sulle orme di Marx ed Engels – sulla necessità di usare, in modo transitorio, una certa forma di violenza organizzata, cioè una forma di Stato (in questo caso, uno Stato operaio, che non è più uno Stato), per rompere la resistenza della borghesia. Eppure è proprio questa concezione che Malm respinge nella sua formulazione del leninismo ecologico.
È una strana operazione teorica spogliare la strategia leninista (che è indubbiamente uno dei punti chiave di Malm) e operare una sorta di “dimostrazione” consistente soltanto in poche affermazioni. Invece di seguire una strategia volta a distruggere e sostituire lo Stato borghese, l’autore ci invita a “esercitare una pressione popolare” sulle istituzioni per “forzarle” a rompere con la riproduzione dell’ordine capitalista. Si tratta di formulazioni che rimangono vaghe (non sappiamo né come esercitare questa pressione né in che cosa consisterebbero queste rotture nello Stato borghese) e di una concezione che ricorda di più quelle contro cui Lenin ha combattuto di quelle che ha difeso.
Per giustificare il suo esercizio teorico, Malm usa di base due linee argomentative: il pragmatismo e lo scetticismo. Pragmatismo, perché dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo. Scetticismo, perché è impossibile immaginare altro rispetto a quello che già esiste. Questi “argomenti” ricordano quelli già sollevati da altri, ieri e oggi[9] per abbandonare la necessità di distruggere lo Stato borghese: “l’impossibilità di pensare all’emergere di organi popolari”; l’ “onnipotente legittimità delle istituzioni della democrazia borghese”; “il pericolo del dispotismo” e così via.
Tutti questi argomenti sono generalmente presentati come ovvi, permettendo a quanti li espongono di salvarsi dalla fatica di dover fornire delle prove rigorose a loro supporto. Lo stesso Malm ammette facilmente, quando gli viene chiesto, che la sua concezione richiede dei chiarimenti. L’aspetto ancora più sorprendente è che questa difesa delle istituzioni esistenti come fossero un orizzonte al di là del quale uno non possa ragionevolmente andare, si presenta in un contesto in cui, al contrario, esse appaiono sempre più per quello che sono – vale a dire profondamente autoritarie e antidemocratiche. Invece di approfittare di questa situazione per radicalizzare la sfiducia in queste istituzioni borghesi, Malm difende una prospettiva che potrebbe, paradossalmente, finire per rilegittimarle.
Oltretutto, lo scetticismo che guida questa concezione (“nessun potere duale di organi democratici del proletariato sembra materializzarsi presto, se non addirittura mai”) testimonia almeno due aree di confusione. La prima è che non partiamo da zero: sono già esistiti, in parte, embrioni di democrazia operaia all’interno della democrazia borghese, come i sindacati. Questi embrioni di democrazia operaia sono, ovviamente, sempre più integrati nell’apparato statale e sempre più assottigliati, ma organizzano ancora alcuni settori strategici della nostra classe e possono (e dovrebbero) essere riorientati ed estesi come tali, completamente indipendenti dallo Stato, al servizio di una strategia rivoluzionaria. In secondo luogo, porre il problema in modo astratto o in qualche modo “oltre il tempo” ci impedisce di vedere che, come ci ricorda lo stesso Malm, il tempo accelera nei momenti di crisi politica al punto in cui “per parafrasare Lenin, è come se decenni fossero stati stipati in settimane, il mondo girasse con una marcia più alta, lasciando ogni previsione suscettibile di imbarazzo” (p. 3). Ciò è tanto più vero in quanto la pandemia e la conseguente crisi globale si stanno sviluppando in un contesto in cui assistiamo al ritorno della lotta di classe su scala internazionale. In breve, rifiutare di abbandonare la prospettiva del potere duale non equivale affatto a girarci i pollici mentre “aspettiamo” che “un’altra forma di Stato” cada dal cielo. Che sarebbe, in effetti, criminale. Piuttosto, richiede che noi riusciamo a cogliere le dinamiche e le contraddizioni in gioco in una situazione in modo da radicalizzarle e orientarle secondo quella prospettiva. Altrimenti, rischiamo di ridurre il leninismo a una semplice formula provocatoria e di ripiegare su una strategia puramente istituzionale.
Sabotaggio o controllo dei lavoratori?
Per prendere sul serio la prospettiva strategica che Malm difende è necessario esplorare il suo libro pubblicato pochi mesi prima, How to Blow Up a Pipeline, che l’autore stesso considera complementare a The Bat and Capital. Mentre quest’ultimo si concentra, come abbiamo appena visto, sulla questione dello Stato, How to Blow Up a Pipeline è dedicato alle discussioni con il movimento ambientalista, in particolare Extinction Rebellion, che l’autore critica per essersi intrappolato in un impotente “pacifismo strategico”.
“Quando ci decideremo a passare a un livello superiore?”, chiede Malm come domanda d’apertura. “Quando concluderemo che è giunto il momento di provare anche qualcosa di diverso?” (p.8).
Sfruttando l’eredità delle lotte passate, Malm distingue tra diversi tipi di violenza e dimostra che questa può avere un potenziale emancipatore quando attacca le strutture di dominio. Per rompere con “l’approccio inflessibile del business-as-usual, che porta le emissioni sempre più in alto e frustra le speranze di mitigazione” (p.66), difende come tattica preferita la prospettiva del sabotaggio: annunciare e mettere in atto l’interdizione. Danneggiare e distruggere i nuovi dispositivi che emettono CO2” (p.67). Il libro prende il titolo dalla centralità che l’autore dà alla tattica del sabotaggio; dopotutto si tratta di un manuale – teorico e pratico – destinato all’attivista radicale per il clima.
Mentre condivido la possibilità e anche la necessità di una “diversità e pluralità di tattiche” (p.116), che l’autore difende, l’efficacia del sabotaggio come tattica preferita appare discutibile.
La prima domanda da porsi è senza dubbio: il sabotaggio di cosa? Quali “dispositivi che emettono CO2” dovrebbero essere distrutti per primi? Dobbiamo attaccare il “consumo privato” o la “produzione di combustibili fossili”? (pp. 84-85). Un po’ entrambe le cose, senza dubbio, dato che Malm afferma “il consumo fa parte del problema, e in particolare il consumo dei ricchi”. (p.85)
Malm ha ragione a sollevare l’esistenza di una “capacità di inquinare ineguale” (p.85); usando le parole di Dario Kenner[11] nelle pagine seguenti offre una serie di cifre per dimostrare che non è affatto una “umanità” falsamente omogenea a essere responsabile della crisi climatica. Tuttavia, non rispondendo alla domanda se dobbiamo attaccare i beni di consumo o la produzione, omette di sottolineare la responsabilità primaria delle corporazioni capitaliste nel rilascio delle emissioni che stanno distruggendo il pianeta.
Per prendere solo il caso della Francia, la compagnia petrolifera e di gas Total è indubbiamente un esempio di questi “super inquinatori” a cui si deve l’aggravarsi della crisi climatica. In qualità di diciannovesima tra le più grandi aziende inquinatrici del mondo, la multinazionale francese da sola emette più di due terzi delle emissioni di CO2 prodotte in Francia, ovvero più di 311 milioni di tonnellate di CO2 nel 2015. Piuttosto che chiedere un attacco indifferenziato contro beni di consumo e produzione, non dovremmo denunciare le 100 aziende globali che emettono il 70% del carbonio scaricato nel mondo? Non dovrebbero essere esplicitamente considerati i “nemici numero uno” del movimento per il clima?
Prendiamo ora in considerazione queste aziende mega inquinanti: il sabotaggio può essere l’arma preferenziale per confrontarsi con esse? “Dobbiamo distruggere Total!” Certamente, ma come?
È sorprendente che mentre Malm considera il socialismo una fertile “banca del seme” di strategia, non dica una parola sui metodi di lotta con cui la classe operaia ha storicamente posto fine al “business as usual”: scioperi e occupazioni di fabbriche e imprese. Mentre il suo libro recensisce una “pluralità di tattiche” e azioni intraprese dal movimento per il clima (anche dedicando diverse pagine a una campagna in Svezia per forare le gomme dei SUV), non dice assolutamente nulla sull’esistenza dei lavoratori che, poiché occupano un posto decisivo nel processo lavorativo, hanno una forza considerevole per spezzare il “ciclo infernale” della produzione capitalista.
Qui troviamo lo stesso scetticismo riguardo alla capacità della classe operaia e, in questo caso dei lavoratori della Total, di svolgere un ruolo decisivo nella transizione ecologica. Piuttosto che difendere l’unità del movimento per il clima con questi lavoratori nell’attacco verso il gigante francese, Malm alla fine difende una prospettiva “sostituzionista” promuovendo il sabotaggio degli oleodotti. È una strategia che molto probabilmente verrà relegata a una prospettiva di minoranza – invece di cercare di stringere alleanze – e che sembra poter avere solo piccole conseguenze per un conglomerato come Total che ha siti in quasi 30 paesi.
Di recente, la Total Management – il vero leader dell’imperialismo francese in Africa – ha annunciato il suo piano per chiudere la sua raffineria a Grandpuits (municipalità nel dipartimento Senna e Marna) con il pretesto di perdite nell’oleodotto dell’Île-de-France. L’azienda sta intensificando le sue attività in Africa mascherando il suo passaggio all’energia verde in Francia come un modo per capitalizzare i sentimenti a favore dell’ambiente. Tali atti di sabotaggio mirano, ancora una volta, a “fare pressione” sullo Stato imperialista francese affinché nazionalizzi e converta le attività di Total, come sembra implicare Malm? È davvero ragionevole pensare che lo Stato francese deciderà di sfidare gli interessi di uno dei più grandi conglomerati capitalisti francesi quando, al contrario, ha aumentato i suoi omaggi alle grandi imprese nel contesto della crisi? Inoltre, negli ultimi decenni, il capitale non si è mostrato sempre più intransigente, chiedendo sempre maggiori sforzi di questo tipo in cambio anche di poche briciole? Come possiamo quindi immaginare che uno Stato al servizio del capitale adotti misure per rompere con quello stato di cose? Ci troviamo nella stessa situazione di stallo che Malm afferma, ma nella quale si è anche rinchiuso: per sua natura lo Stato capitalista non può prendere tali misure. Aspettare o fingere che possa farlo sarebbe criminale.
Rifiutando di considerare i lavoratori di queste compagnie come soggetti capaci di contrapporsi agli interessi dei loro dirigenti, Malm si priva di una forza strategica potenzialmente considerevole per pensare, concretamente, le strade di un vero leninismo ecologico. Piuttosto che difendere la centralità del sabotaggio come mezzo per spezzare il ciclo infernale del “business as usual”, non dovremmo tornare alla tradizione del marxismo rivoluzionario? Questo fa dello sciopero l’arma decisiva con cui la classe sfruttata non solo può porre fine alla “normalità capitalista” ma anche, quando diventa attiva, dimostrare che è possibile un altro modo di operare. E chi meglio di quanti si confrontano direttamente e quotidianamente con il capitale fossile per delineare i percorsi concreti di una transizione ecologica e sociale? Chi meglio di questi lavoratori può immaginare i mezzi con cui riorientare e convertire la produzione e le attività affinché non siano più al servizio dell’accumulazione privata ma al servizio della maggioranza, nel rispetto della dignità di ogni persona e della salvaguardia del pianeta?
In un’intervista con RP Dimanche sulla chiusura della sua raffineria, Adrien Cornet, un lavoratore di Grandpuits, ha detto su questo argomento:
Partiamo sempre dalla premessa che i sindacati energetici vorrebbero battersi anima e corpo per preservare la raffinazione e la produzione a base di combustibili fossili, il che non è affatto così. Siamo consapevoli che dobbiamo andare oltre i combustibili fossili. Ho 30 anni. Ho due bambini piccoli. Capisco la necessità di proteggere il pianeta. (…) Quello che dico spesso è che domani potrei diventare un lavoratore di permacultura. Mi piacerebbe molto! (…) Per fare un esempio molto concreto, quando la raffineria nelle Fiandre è stata chiusa, la FNIC [Federazione nazionale delle industrie chimiche] ha realizzato un progetto molto completo sull’idrogeno. Ha avuto molto successo. Ciò che mancava era un equilibrio di potere collettivo, in particolare attraverso l’opinione pubblica. Nel 2010, la consapevolezza ambientale non era così sviluppata. Oggi l’emergenza ecologica è nella mente di tutti e dobbiamo porre la questione al centro del dibattito pubblico.
Non c’è, forse, in questo modo di collegare concretamente interessi sociali e ambientali, nell’abbozzo di una conversione operata dalla e per la maggioranza, qualcosa come un leninismo ecologico che dovremmo cercare di esplorare e sviluppare?
In conclusione
Il lavoro di Malm offre strumenti indubbiamente preziosi per capire, da una prospettiva marxista, come lo sviluppo della crisi climatica sta conducendo e porterà a future crisi globali – proprio come è successo con il Covid-19. I suoi contributi permettono di analizzare il ruolo decisivo svolto dai combustibili fossili nell’accumulazione e nella riproduzione capitalistica e giustamente ci ricordano che la lotta rivoluzionaria non può relegare le preoccupazioni climatiche e ambientali ad una posizione di secondaria importanza. Anche se non condivido il modo in cui affronta i dibattiti strategici che egli contribuisce a sollevare, le sue tesi meritano di essere lette e discusse.
Ciò che emerge in definitiva dalla strategia di Malm sviluppata nelle sue ultime due opere è la combinazione di azione diretta, presentata come radicale (con il sabotaggio apparentemente la tattica preferita), e una forma di “riformismo pragmatico”. Dietro questa combinazione troviamo la stessa volontà di “fare pressione” sullo Stato capitalista. Come lo stesso Malm ammette, “Lo scopo [delle campagne di sabotaggio] sarebbe quello di costringere gli Stati di interdire [le fonti inquinanti] e ritirare i materiali” (p. 69). L’idea di base è che non ci possono essere altri agenti di transizione ecologica rispetto allo Stato capitalista esistente: “Alla fine, saranno gli Stati a imporre la transizione o nessuno” (p. 59).
Sebbene non la condivida, questa logica ha comunque una certa coerenza. Dietro l’abbandono della prospettiva del potere duale e dei metodi della lotta di classe, vi è la stessa estromissione della classe lavoratrice come soggetto rivoluzionario in grado di portare, in alleanza con gli altri strati sfruttati e oppressi, all’avvento di un’altra società. Per quanto ne so, Malm non si è preso la briga di spiegare o giustificare questo profondo scetticismo riguardo al potenziale rivoluzionario dei lavoratori[12]. È sorprendente vedere che questo accade di nuovo in un momento in cui stiamo assistendo a uno straordinario ritorno della lotta di classe su scala internazionale.
Ad ogni modo, questa ipotesi strategica alla fine non riesce a incarnare un autentico “leninismo ecologico”, anche se questa è la concezione che Malm promuove. Infatti, la sua concezione corre un rischio molto forte di fondere i movimenti sociali con la politica delle attuali formazioni riformiste che si presentano come radicali pur non ponendo mai la prospettiva di andare oltre il sistema capitalista. E questo è ciò che porta Malm a sostenere in Corona, Climate, Chronic Emergency che le formazioni socialdemocratiche “potrebbero essere la nostra migliore speranza, come lo sono state solo per un paio di anni. Niente potrebbe essere migliore per il pianeta di Jeremy Corbyn primo ministro del Regno Unito nel 2019 e Bernie Sanders presidente degli Stati Uniti nel 2020.” (p.121).
Al contrario, perché è così urgente risolvere il problema del “socialismo o barbarie,” nessuna fiducia dovrebbe essere riposta negli Stati imperialisti o nelle formazioni politiche emergenti che propongono di risolvere la crisi sociale e ambientale nel quadro del sistema capitalista. Piuttosto che sperare di costringere il nemico alla sfida sul proprio terreno, sembra molto più sensato mantenere la prospettiva di un leninismo che non scenda a compromessi sulla necessità di affrontare e superare lo Stato borghese. Come ha scritto Emmanuel Barot in occasione del centenario della Rivoluzione Russa, “Ripensare il potere duale per “riprendere” il potere non può significare – oggi più di ieri – applicare formule ritualistiche che traspongono meccanicamente il (cosiddetto) modello del 1917. Ma la questione strategica delle condizioni della distruzione dello Stato borghese, qualunque sia la sua singolare fisionomia, rimane intatta”.
Nel contesto in cui la lotta di classe ha fatto il suo grande ritorno sulla scena internazionale, è necessario riconoscere il posto strategico della classe operaia, difendere la sua alleanza con il movimento ecologista cercando di lavorare ovunque e senza sosta intorno un programma volto a stabilire la sovranità sulla produzione da parte di lavoratori liberamente associati e indipendenti dallo Stato borghese, e la conversione di tutte le aziende inquinanti, in connessione con le associazioni e le organizzazioni ambientali. In un periodo in cui i capitalisti e i loro Stati stanno aumentando ovunque licenziamenti e chiusure, una tale prospettiva può servire da bussola per gli attivisti rivoluzionari per intervenire concretamente nella realtà e difendere un programma comunista e ambientalista radicale.
Marina Garrisi
Prima pubblicazione in francese su RP Dimanche, 28 novembre 2020; traduzione in inglese su Left Voice, 7 febbraio 2021.
Note
1 Andreas Malm, Corona, Climate, Chronic Emergency: War Communism in the Twenty-First Century (London: Verso, 2020).
2 Chiroptera è il nome scientifico dell’ordine mammiferi volanti notturni con gli arti inferiori modificati per formare ali.
3 Ovvero la trasmissione all’uomo di malattie infettive originate da un’altra specie.
4 La deforestazione contribuisce infatti alla distruzione degli ecosistemi e alla scomparsa di alcune specie animali, portando a una diminuzione della biodiversità. Peraltro, “una maggiore biodiversità significa un minor rischio di straripamento zoonotico” (p. 41). Malm lo chiama “effetto di diluizione”. Inoltre, la deforestazione è direttamente responsabile del trabocco zoonotico a causa del suo impatto diretto sui pipistrelli. Malm scrive: “Lo stress causato dalla deforestazione sembra rompere le difese altrimenti impermeabili dei pipistrelli e innescare ‘impulsi di escrezione virale’ – episodi in cui i virus vengono diffusi in massa su ospiti accidentali, che potrebbero benissimo essere umani” (p. 43).
5 “Una sinistra che rimane nel suo angolo sociale definito abitualmente sarà solo in grado di sollevare richieste simili a ‘dighe per tutti’ – migliore azione palliativa, ma sempre palliativa. Sarà superata” (p. 105). Per delineare una strategia che sia all’altezza del compito di affrontare la crisi attuale, Malm chiede un ritorno al pensiero strategico inteso come “ricerca di strategie efficaci di intervento consapevole” (p. 119). Difende la necessità di assumere una posizione radicale: “essere radicali nell’emergenza cronica è mirare alle radici ecologiche di disastri perpetui “(p. 105). Se in questa ricerca il socialismo (inteso nel senso della tradizione teorica e politica del marxismo) costituisce per l’autore una “banca del seme per l’emergenza cronica ”(p. 119), è perché ha dimostrato in passato di essere una bussola efficace per pensare e intervenire in situazioni di crisi capitalista. Malm si riferisce in particolare ai dibattiti della socialdemocrazia tedesca alla vigilia della prima guerra mondiale, quando alcuni all’interno del movimento operaio cominciarono ad abbandonare l’idea della crisi come una manifestazione intrinseca dello sviluppo capitalistico. Questa rinuncia, teorizzata per la prima volta da Eduard Bernstein, si basava sulla relativa stabilità del modo di produzione capitalistico, che era ancora in pieno sviluppo nella seconda metà del XIX secolo. Malm mostra giustamente come, abbandonando la crisi come momento ineludibile dello sviluppo capitalista, “l’idea di prendere il potere, distruggere il capitalismo decrepito e installare un ordine completamente diverso era diventata ridondante; mentre la socialdemocrazia poteva aumentare la sua forza e strappare frammentarie riforme”(p. 120).
6 Andreas Malm, L’anthropocène contre l’histoire: Le réchauffement climatique à l’ère du Capital [Anthropocene vs history: Global warming in the age of capital] (Paris: Fabrique, 2017).
7 A cominciare da quelli di Karl Kautsky, una figura della socialdemocrazia tedesca contro la quale Lenin scrisse più tardi La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky.
8 Lenin, Stato e rivoluzione, cap. 1, La società classista e lo Stato (1917).
9 Difendere la prospettiva strategica di distruggere lo Stato borghese e sostituirlo con l’autogoverno degli sfruttati e degli oppressi non ha nulla a che vedere con la logica di una “offensiva permanente”. Per approfondire queste questioni si veda Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo (1920).
10 Si vedano, ad esempio, i dibattiti degli anni ’70 con l’eurocomunismo sull’abbandono della dittatura del proletariato da parte dei partiti comunisti francesi, spagnoli e portoghesi. C’è anche il dibattito in corso nella sinistra americana sulla “via democratica al socialismo” nel quale alcuni cercano esplicitamente di riabilitare una prospettiva kautskiana nell’ambito dell’abbandono della necessità di affrontare lo Stato borghese e per giustificare la mobilitazione nel Partito Democratico. Si veda, per esempio, “Why Kautsky Was Right (and Why You Should Care)” di Eric Blanc, il dibattito tra quest’ultimo e Charlie Post in “Which Way to Socialism?”, e il dossier dedicato a questo dibattito pubblicato dalla Voce delle Lotte.
11 Dario Kenner, Carbon Inequality: The Role of the Richest in Climate Change (London: Routledge, 2019).
12 Molti altri, prima di Malm, si sono avventurati a decretare la morte o la scomparsa del proletariato come soggetto rivoluzionario, sia perché lo vedono sconfitto una volte per tutte dalle offensive capitaliste, sia perché lo ritengono definitivamente integrato nell’egemonia borghese. Su questo argomento si veda, ad esempio, Emmanuel Barot, “Ordre bourgeois, pouvoir et néo-utopisme”, Révolution Permanente, 26 maggio 2015; Emmanuel Barot e Juan Chingo, “Enjeux conceptuels et débats stratégiques sur la révolution à venir: au sujet du dernier essai du Comité Invisible, ‘A nos amis’”, Révolution Permanente, 13 marzo 2016; Emmanuel Barot, “Révolution, contre-révolution et autoritarisme en démocratie bourgeoise. Retour sur Marcuse”, Révolution Permanente, 15 novembre 2016.
Marina fa parte della redazione di Révolution Permanente, giornale online francese gemello della Voce delle Lotte.