Da una parte la potenza della sciopero generale in Palestina, dall’altra la solidarietà internazionalista di settori di lavoratori come i portuali hanno dimostrato ancora una volta l’enorme forza che la classe operaia può esercitare su scala globale nella lotta contro la guerra e le politiche militariste, al contrario della retorica che la vorrebbe neutralizzata e reazionaria.


Un atto di solidarietà che rompe la retorica sull’individualismo e la barbarie della classe operaia

Una martellante propaganda ci ricorda ogni giorno come gli esseri umani tenderebbero, per la loro stessa natura, a massimizzare il proprio tornaconto personale. Se poi nel vissuto quotidiano riscontriamo qualche forma di altruismo sociale e politico, questo si dovrebbe esclusivamente alle classi medie agiate, ritenute intrinsecamente altruiste e progressiste grazie al loro elevato livello d’istruzione e all’assenza di ristrettezze economiche. All’opposto, i lavoratori sarebbero oggi egoisti e reazionari, capaci al massimo di condurre qualche vertenza particolaristica e settoriale. Questa narrativa, purtroppo condivisa anche da alcuni settori di sinistra, è volta non solamente a presentare il sistema capitalistico, basato sulla ferrea competizione e l’infinita accumulazione, come congeniale alla nostra natura, ma anche a delegittimare il movimento operaio. Soprattutto, però, una simile vulgata è palesemente falsa.

Quanto successo in questi ultimi anni in alcuni porti, in Italia e in altri paesi, è una conferma di quanto scriviamo. Il caso più importante riguarda certamente le mobilitazioni dei portuali di Genova. A partire infatti dalle prime proteste del 2019 contro il traffico delle navi saudite cariche di armamenti poi utilizzati nella devastante guerra in Yemen, una radicata e diffusa solidarietà internazionalista ha preso piede nello scalo ligure. Gli scioperi guidati dal ‘piccolo’ CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) non sempre sono riusciti a bloccare i ‘giganti’ del mare del regno dei Saud. Quanto hanno messo in campo i portuali di Genova è però diventato un esempio per altri lavoratori. Appena due venerdì fa, una protesta molto simile contro le “navi della morte” ha interessato infatti lo scalo di Livorno. Abbiamo contattato uno dei lavoratori che ha partecipato alla mobilitazione per farci spiegare meglio cosa sia successo nello scalo toscano.

In pochissime ore la vostra protesta contro l’arrivo nel porto di Livorno della nave Asiatic Island è rimbalzata su molti siti e social network. Ci puoi spiegare più precisamente cosa è successo?

I compagni del CALP, che a loro volta erano giunti a conoscenza della cosa grazie al lavoro dell’associazione weapon watch che si occupa di monitorare il traffico di armi nei porti europei e mediterranei, ci hanno informato che era in arrivo nel porto di Livorno la nave Asiatic Island. In precedenza, questa aveva sostato anche nel porto di Genova, dove durante la notte e in gran segreto erano stati caricati degli armamenti militari, molto probabilmente munizioni di precisioni ed esplosivi. Sapendo che la nave era diretta verso il porto di Ashdod in Israele, abbiamo immediatamente capito che il materiale bellico sarebbe stato utilizzato nella guerra di aggressione dello stato ebraico contro i palestinesi.

E voi non volevate essere complici di queste atrocità?

Proprio così. Ci siamo quindi attivati per capire in quale terminal la nave avrebbe attraccato. Una volta compreso che questa avrebbe sostato al terminal Darsena Toscana, abbiamo contattato i compagni più politicizzati e sensibili che lavorano lì. Di fronte alla possibilità che venissero caricati altri armamenti si è sviluppato un forte desiderio da parte di noi lavoratori di chiamare uno sciopero per astenersi dal lavoro. Tale evenienza era resa probabile dal fatto che ci erano giunte segnalazioni in merito alla presenza di decine di mezzi militari blindati in un molo vicino pronti ad essere imbarcati. In realtà però, grazie anche alla nostra mobilitazione, questo non è successo. Abbiamo vigilato con cura e la nave è ripartita in tutta fretta nel corso della serata stessa.

Possiamo dire che le proteste nel porto di Genova sono state d’ispirazione per la vostra mobilitazione?

Lo possiamo dire certamente. I portuali di Genova e il CALP in particolare sono stati i primi a porre la questione del carico e del passaggio di navi con armamenti militari nei porti italiani. Questo è un problema rilevante per tutti i portuali. Vi sono almeno due ragioni al riguardo. Da un lato, non possiamo negare come esista una questione morale: noi non vogliamo essere complici degli stati che attaccano popolazioni civili o che combattono guerre. Dall’altro, caricare armamenti e lavorare vicino a navi che trasportano esplosivi è molto pericoloso per tutti noi. E questo problema è molto gravoso per un porto come quello di Livorno che storicamente ha visto un passaggio rilevante di mezzi militari, diretti soprattutto alla vicina base americana di Camp Darby.

Lo scorso 8 maggio vi è stato a Genova un incontro tra i lavoratori di svariati porti italiani. Chi era presente e cosa pensate di queste iniziative?

Oltra ai compagni di Genova che ospitavano l’incontro, eravamo presenti noi portuali di Livorno e i lavoratori degli scali di Trieste e Civitavecchia. Speriamo presto di riuscire ad allargare il fronte anche ad alcuni porti meridionali come Napoli e Taranto. L’obiettivo è quello di giungere ad una forma di collaborazione permanente tra tutti i lavoratori più combattivi dei porti italiani. Occasioni come quella di Genova sono importanti: stare insieme ci aiuta a capire che non siamo soli e che lottare per un mondo migliore è giusto e possibile.

Intervista a cura di Gianni Del Panta

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).