Si avvicina la data del 27 novembre, giorno in cui il movimento femminista denuncia la violenza di genere, i femminicidi, gli abusi, le discriminazioni sul posto di lavoro, del sistema educativo e delle narrazioni tossiche che fanno sulla vita delle donne.

Ma non bisogna limitarsi a studiare la statistica o fermarsi alle letture patriarcali e istituzionali sulla violenza: per questo abbiamo deciso di provare, come corrente Il pane e le Rose – Pan y rosas Italia, a proporre una lettura utile a chiarire perché la violenza di genere sia strutturale ed intrinseca al sistema capitalista, comprendendo il profondo legame di simbiosi che il patriarcato ed il capitale hanno.

Lanciamo una serie di cinque articoli, di cui il seguente è il prio, che toccano sotto aspetti diversi il tema della violenza.

Mobilitati con noi il 27 novembre per denunciare l’alleanza criminale tra questi due sistemi e per rivendicare una vita che non sia solo fondato sullo sfruttamento e la sopravvivenza, ma che sia ricca di bellezza e di libertà d’essere, che dia diritto alla vita di tuttə di essere vissuta!

Perché vogliamo il pane ma anche le rose!

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In questo primo articolo proveremo ad analizzare il fenomeno della violenza machista, negli ambiti familiari e sociali, e come questa viene falsamente gestita dalle varie istituzioni. Proveremo non solo a proporre un alternativa di fuoriuscita dalla violenza che metta realmente al centro le persone vittime di violenza, ma che sia un alternativa nella vita di tuttə nella collettività. La violenza di genere è una caratteristica della società che troviamo diffusa in tutto il mondo; come questa viene vista, percepita, però dipende dalla lettura che cultura dominante ci dà.

Basti pensare che, ancora negli anni ’50, non dover lavorare per essere una buona madre e moglie non era considerata una violenza, ma anzi era sinonimo di privilegio di classe, con la retorica che dietro ogni grande uomo c’era una grande donna. Ciò nascondeva anche il fatto che non era garantito poter lavorare per le donne, nonostante oltre un secolo di lotte per l’emancipazione femminile.
Con l’ingresso
storico delle donne nel mondo del lavoro capitalista e l’avvento del femminismo combattivo, le cose avevano cominciato a cambiare: si acquisiscono sempre più diritti sotto la spinta della lotta di classe, degli scioperi, delle occupazioni delle scuole e delle facoltà.

Con la storica “terza ondata” del femminismo, cominciata negli anni ‘90, abbiamo assistito al successo dello Stato e della politica borghese nell’inglobare e rimodellare le idee e i metodi di mobilitazione del movimento femminista, facendogli fare un salto di qualità nella sua istituzionalizzazione, rendendolo spesso un’attività di pressione sullo Stato in senso riformista, senza una prospettiva chiara di cambiamento del sistema patriarcale e capitalista.

Così il femminismo istituzionale ci ha dato la sua lettura della violenza di genere senza che questa venga mai messa in correlazione con il sistema stesso, parlando di violenza maschile, e non di violenza patriarcale, iniziando a raccontare la violenza di genere come un’emergenza, qualcosa di improvviso, di un cataclisma.
Le donne s
arebbero quindi colpite da un’epidemia di violenza, una violenza che risulta visibile ad occhio nudo solo quando si raccontano le morte, private della capacità di reagire con le botte, le coltellate o gli spari, e quindi meritevoli della compassione di un sistema complice e colpevole di quella stessa morte.
I corpi delle donne sono costantemente terreno fertile per qualsiasi tipo di campagna elettorale. Quando vengono violati, diventano l’espediente giusto per promuovere politiche securitarie, innalzamento dei livelli di militarizzazione delle strade o politiche xenofobe e razziste. Diventano la scusa giusta per le campagne imperialiste.
Basti pensare ai discorsi che hanno seguito il ritorno dei Talebani in Afghanistan: le stesse potenze della NATO che hanno bombardato e devastato il paese per anni, pretendono di insegnare la civiltà e il femminismo al popolo afghano, quando la loro presenza in dieci anni non ha significato libertà ed eguaglianza per le donne, specie per la grande maggioranza che vive nelle campagne.

Essere femministe allo stesso tempo ci dà lo strumento di nominare e sviscerare questa violenza, di capirne le origini, di vederla non solo nei femminicidi ma anche nei posti di lavoro, nelle strade, nell’educazione delle bambine in un sistema sanitario ingiusto e spesso inaccessibile. Ci dà lo strumento per scollare l’etichetta di “emergenza” da una condizione che le donne vivono da secoli e che la società normalizza per puntellare “il migliore dei sistemi possibili”, ma soprattutto ci dà la possibilità di organizzarci e di conoscere il nemico da combattere per sovvertire e distruggere un sistema oppressore e assassino.

Che le donne siano vittime di un sistema patriarcale non è una fantasia o un’opinione a cui credere o meno: è il dato fondamentale da cui il femminismo, e qualsiasi movimento che lotti per l’emancipazione dell’umanità, deve partire per la sua analisi e l’elaborazione di un piano di lotta. Proprio perché questa oppressione, questa violenza è riprodotta di continuo dal sistema, non si tratta semplicemente di riformarlo e di ottenere alcune leggi più favorevoli, ma di abbattere e cambiare questo sistema, per stroncare alla radice la riproduzione della cultura patriarcale, maschilista che ha come suo prodotto più brutale il femminicidio, e per garantire seriamente a uomini e donne i mezzi economici e culturali per superare definitivamente il patriarcato.

 

Femminicidi e centri antiviolenza: un vuoto consapevole della politica istituzionale

Ad oggi sono oltre 80 le vittime di femminicidio registrate in Italia dall’inizio del 2021 in cui nella maggior parte dei casi l’assassino è il partner, l’ex-partner o un familiare. Ma proprio perché la violenza patriarcale non inizia e non finisce in un singolo gesto o in un singolo uomo assassino, questo non è bastato per smuovere una risposta. Nonostante siano arcinoti i dati che dimostrano quanto le quarantene e la crisi pandemica in generale abbiano influito sull’incremento della violenza di genere, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nessuna misura di sostegno economico è stata dedicata ai centri che si occupano dell’accoglienza delle donne vittime di violenza né alla creazione di percorsi di fuoriuscita dalla violenza realmente funzionali.

Le strutture che si occupano del contrasto alla violenza di genere, oggi, riversano in condizioni precarie con una possibilità di intervento decisamente ridotta a causa delle possibilità economiche limitate e agli scarsi mezzi a disposizione. Una condizione che diventa insostenibile soprattutto nelle regioni del sud Italia in cui spesso l’apertura al pubblico è limitata ad alcuni giorni alla settimana, in cui le strutture non possono accogliere tutte le donne che ne fanno richiesta, lasciando inevitabilmente moltissime donne che necessitano di supporto, private dell’unico mezzo che su carta, lo stato mette a disposizione per fuoriuscire da contesti di violenza di genere che troppo spesso sfociano in un femminicidio. Ma più generalmente va sottolineato che troppi centri antiviolenza, in mancanza di fondi che permettano un vero e proprio programma di assunzione di figure professionali specializzate, devono fare affidamento sul lavoro di personale volontario che, senza retribuzione, e spesso senza neanche formazione e competenze specifiche, si occupa di collaborare alle attività quotidiane dei Cav.

Il sistema dei centri antiviolenza non è comunque una risposta sufficiente alla violenza di genere, per come è strutturato. Spesso i Cav non possono neanche essere tenuti in conto come una risposta risolutiva in quanto nella maggior parte dei casi è necessaria una denuncia da parte della donna il che non può essere una scelta obbligata né per questioni di sicurezza né per questioni di etica politica e fiducia nel sistema.

I percorsi di fuoriuscita che vengono previsti non hanno come reale obiettivo l’emancipazione delle persone che li intraprendono. Non prevedendo né il raggiungimento di una forma di indipendenza economica attraverso l’erogazione di un reddito d’emergenza o di un percorso reale di collocamento nel mondo del lavoro, né l’assegnazione di un luogo definitivo dove vivere in tranquillità e in sicurezza (con i figli a carico qualora ce ne siano) le donne che si rivolgono alle case rifugio si trovano a scontrarsi con un sistema quasi infantilizzante che non ha come fine ultimo la creazione di una nuova vita lontana dalla violenza patriarcale da cui provano ad allontanarsi.
Già nel periodo del primo lockdown era stata sottolineata l’urgenza e la necessità di requisire tutti i locali sfitti di proprietà dello stato, della chiesa e di privati al fine di creare luoghi sicuri dove trascorrere il periodo di isolamento lontano da contesti di violenza patriarcale. Ma con l’allentamento delle misure di contenimento del contagio le necessità non sono mutate, i femminicidi non si sono interrotti e nemmeno gli episodi continui di violenza patriarcale (denunciata e non) che si consumano quasi principalmente tra le mura domestiche.

 

Quale modello di contrasto alla violenza rivendichiamo?

Per quanto sia necessario rivendicare l’investimento di fondi nei percorsi che lo Stato prevede per il supporto delle donne che hanno vissuto la violenza patriarcale “istituzionalmente” intesa, è necessario rivendicare un altro modello di fuoriuscita dalla violenza. È fondamentale che le donne che hanno subito violenza patriarcale abbiano un ruolo attivo, determinante, nella creazione di un nuovo modello di collettività in cui il lavoro di cura, che da sempre condanna le donne al ruolo di madri e angeli del focolare, sia redistribuito. Nuove comunità che permettano la creazione di un profondo senso di solidarietà tra le oppresse e le sfruttate affinché possano riconoscersi non solo nella violenza che subiscono, ma soprattutto nella forza della rabbia e del rifiuto con cui la combattono.

In una società che alimenta l’individualismo, che insinua l’idea che la violenza con cui veniamo a contatto sia un dato meramente “personale”, è fondamentale scardinare l’illusione dell’unicità, per rompere le catene dell’isolamento e della solitudine e ritrovare la forza di organizzarsi, cospirare e ribellarsi a chi ci vuole addomesticate, prede e sfruttate.
È urgente riappropriarsi dell’arma dell’autodifesa attraverso la creazione di comitati nei quartieri, nelle università e nei posti di lavoro, affinché siano le donne stesse a decidere cosa sia la violenza e come combatterla, senza diventare espediente per giustificare politiche securitarie e punitiviste controproducenti per la causa dell’emancipazione delle donne, e anche degli uomini dal patriarcato.

Non più vittime, ma affossatrici del sistema che ci vuole morte!

 

Ilaria Canale

Nata a Napoli nel 1993. Laureata in infermieristica all'Università "La Sapienza" di Roma, lavora nella sanità nella capitale.. È tra le fondatrici della corrente femminista rivoluzionaria "Il pane e le rose".