Le prime settimane del 2022 sono state segnate dallo scoppio della rivolta in Kazakistan e i tamburi di guerra in Ucraina. Proseguendo la nostra serie di approfondimenti sullo spazio post-sovietico abbiamo intervistato Yurii Colombo, tra i più attenti osservatori italiani delle vicende politiche della regione, già collaboratore del Manifesto e autore di diversi volumi sull’ex-URSS. Recentemente, Yurii ha anche pubblicato un libro che prova a fare un bilancio dell’esperienza dell’Unione Sovietica, a 30 anni dalla sua disgregazione: “Urss: un’ambigua utopia”, Massari editore, 2021. Parleremo anche di questo, data la centralità di quell’esperienza storica per comprendere le attuali tensioni, di classe e ‘geopolitiche’, in Europa orientale e Asia centrale.
il 2022 è cominciato con le proteste in Kazakistan, che sono però solo le ultime avvenute nello spazio post-sovietico negli ultimi anni; rimanendo al periodo più vicino a oggi, si pensi ad esempio al movimento presentato dai media come pro-Navalny della scorsa primavera, o le proteste in Bielorussia nell’autunno 2020. Quali sono le radici di questi processi? Quali le cose che hanno in comune e le differenze?
I processi a cui hai fatto cenno sono da inquadrare nella crisi di lungo periodo cominciata con il crollo dell’URSS, associata al riemergere dei nazionalismi nelle repubbliche ex-sovietiche. Questo aspetto è stato d’altro canto aggravato dalla tensione tra l’interesse dell’imperialismo occidentale ad espandere il proprio raggio d’azione e il tentativo della Russia, in particolare con Putin, di mantenere la propria area di influenza. Il livello politico si intreccia poi con quello socio-economico: la fine dell’URSS ha infatti condotto alla distruzione dello stato sociale sovietico, uno stato sociale sicuramente povero e viziato dalle rigidità staliniane e post-staliniane, ma molto ampio. Nelle proteste che abbiamo visto negli ultimi anni non c’è solo dunque un atteggiamento filo-occidentale e liberal democratico.
Prendiamo le mobilitazioni che hanno avuto luogo in Russia la primavera scorsa. È vero che avevano come punto di riferimento il filo-occidentale Navalny, ma hanno visto la partecipazione di ampi settori poveri della popolazione, soprattutto nelle regioni più lontane dalla capitale e da San Pietroburgo (dove più forte invece è stata la componente di giovani del ceto medio, con maggiori illusioni). Da notare che il principale beneficiario di quelle proteste sul piano elettorale è stato il Partito Comunista Russo. Ora, lungi da me sostenere questo partito [caratterizzato da posizioni scioviniste grande-russe e omofobe, ndr], tuttavia è indubbio che la sua opposizione alle ultime contro-riforme, come quella delle pensioni di un paio di anni fa, sia stato un elemento molto importante per riuscire a capitalizzare alle urne la crescente opposizione a Putin.
Passando alle proteste in Bielorussia dell’autunno 2020, è interessante ricordare il ruolo centrale che hanno avuto gli scioperi dei lavoratori delle grandi aziende di Stato; scioperi che hanno spinto Lukashenko, letteralmente, a recarsi di fabbrica in fabbrica nel tentativo di placare gli animi. Alla fine l’operazione ha avuto successo, dato che il movimento nelle piazze era effettivamente egemonizzato da posizioni liberali che, se avessero prevalso, sarebbero andate nella direzione di promuovere un piano di privatizzazioni su larga scala. Così, ben sapendo cosa aveva significato lo smantellamento del settore industriale pubblico nel resto dell’ex URSS, gli operai bielorussi sono stati convinti a ritornare al lavoro. Detto questo, è importante sottolineare come – se è vero che il movimento di piazza con epicentro Minsk aveva dei limiti – non bisogna sotto-stimare l’importanza di alcuni elementi, come il ruolo giocato dalle donne e l’emergere di forti istanze femministe, che, in un contesto di aggravamento dell’oppressione patriarcale successivo al crollo dell’URSS, hanno un potenziale estremamente radicale.
Tornando però al ruolo dei lavoratori, ancora più importante è il recente esempio kazako, dove gli operai non solo hanno rappresentato la forza d’urto del movimento, ma hanno anche cercato di mettere all’ordine del giorno le proprie rivendicazioni, come la nazionalizzazione delle imprese privatizzate e in mano al capitale straniero.
Quello che hai descritto ricorda un po’ l’immagine della rivoluzione-“vecchia talpa” di marxiana memoria, che dalle moltitudinarie proteste russe – passando per gli scioperi degli operai bielorussi – sbocca nelle proteste kazake dove gli operai giocano un ruolo anche politicamente centrale…
Voglio aggiungere a quanto hai detto, però, che la rivolta kazaka non rappresenta un passo in avanti nella coscienza solo nello spazio post-sovietico, ma offre importanti spunti di riflessione per la sinistra radicale a livello mondiale e soprattutto in Italia. Primo: in Kazakistan hanno avuto un ruolo di primo piano i lavoratori dei settori produttivi, quelli metallurgici, del petrolio ecc., che rimangono fondamentali anche da noi. Adesso, non voglio dire che la classe operaia sia rappresentata solo dalla classe operaia tradizionale, però è evidente che siamo stati letteralmente invasi dalle teorie sulla centralità dei lavoratori cognitivi, sul ceto medio intellettuale e così via, con tutta una serie di conseguenze politiche molto negative.
Certi, a sinistra, invece non negano che esistano ancora gli operai, ma sostengono che essi non sono più centrali: in Kazakistan abbiamo visto che è stata la mobilitazione a partire dai posti di lavoro, cominciati nelle zone del sud-ovest petrolifero, che è stata fondamentale per innescare la discesa in piazza degli strati poveri, soprattutto giovanili, delle grandi città. La rivolta kazaka, con i suoi assalti alle sedi istituzionali da parte dei manifestanti e i suoi 225 morti causati dalla reazione armata dello stato e dell’esercito russo, ci ha poi ricordato un altro aspetto, quello dell’uso della forza: a un certo punto dello scontro sociale la lotta politica diventa violenza e si pone dunque il problema di organizzare l’uso della forza. È curioso che in Italia – dove abbiamo avuto una sinistra rivoluzionaria molto rilevante tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 che ha agitato tantissimo il tema della forza – sia oggi un tabù parlarne, anche in termini generali.
Sono molto d’accordo con queste tue valutazioni, sia sulla centralità della classe operaia che sulla questione della forza. D’altro canto, la ferocia della repressione statale – insieme a una rinnovata disponibilità da parte delle masse all’azione diretta – l’abbiamo vista non solo nell’esotico e autoritario Kazakistan, ma anche in Europa e negli Stati Uniti: si pensi ai Gilets Jaunes e alle proteste anti-razziste negli USA del 2021. Ne approfitto per fare un salto a parlare del tuo libro: vedo infatti una contraddizione tra quello che hai appena detto, e l’idea che a mio avviso emerge un po’ da “Urss un’ambigua utopia” secondo cui ci sia ben poco da salvare del bolscevismo, del quale enfatizzi gli aspetti autoritari. Non è forse ancora attuale la questione di organizzarsi in maniera conseguente per abbattere il capitalismo? Non è forse Lenin colui che più di tutti ha posto la questione di costruire organizzazioni democratiche e centralizzate per preparare l’insurrezione? Abbiamo visto a cosa hanno condotto il movimentismo e il riformismo nell’ultimo decennio…
Comincio a rispondere chiarendo che io non ho una posizione anarchica nei confronti della rivoluzione russa, rispetto alla quale ho un giudizio estremamente positivo. Io credo che sia stato il tentativo più alto di superare il sistema del capitale avvenuto nella storia, più alto della comune di Parigi, anche perché parte di un processo più ampio su scala internazionale, al netto di quello che è successo dopo, per via di tutta una serie di condizioni oggettive e soggettive. Non è stata un colpo di stato, ma una rivoluzione i cui caratteri socialisti non sono inficiati dai risvolti totalitari dello stalinismo. Sono d’accordo poi con l’attualità del tema dell’organizzazione: non penso si possa superare questo sistema senza darsi una strutturazione. Anzi, forse la questione dell’organizzazione e della centralizzazione rivoluzionarie sono ancora più impellenti oggi che all’epoca di Lenin.
Tuttavia non possiamo fare un feticcio del bolscevismo e prenderlo meccanicamente: la storia non si ripete ed è necessario calare le questioni strategiche fondamentali nella realtà contemporanea. La massima apertura e onestà nel dibattito storiografico è funzionale a questo scopo. Nonostante i suoi meriti e tenendo conto del fatto che non si può imputare solo al partito di Lenin la degenerazione burocratica dell’Unione Sovietica (centrali sono stati il fallimento della rivoluzione in Europa e l’arretratezza dello sviluppo russo) non bisogna nasconderne gli aspetti autoritari, che già Trotsky aveva evidenziato nel 1904. È certamente vero che l’accerchiamento della rivoluzione ha avuto un ruolo decisivo nell’aumentare le rigidità, si pensi però al fatto che la proibizione delle frazioni nel partito avviene dopo il 1921, una volta terminata la guerra civile, quindi successivamente al massimo pericolo vissuto dalla rivoluzione.
Inoltre, nella concezione dei bolscevichi era implicita l’idea che la loro fosse l’unica organizzazione rivoluzionaria, tant’è che Trotsky non vi entrò fino alla rivoluzione e nel programma di transizione si sentì in dovere di segnalare come l’idea di democrazia sovietica non possa essere separata dalla libertà di formare partiti (ovviamente nei confini della difesa delle forme di proprietà e di governo socialiste). Certo, uscire dal feticismo e dalla mitologia nei confronti del leninismo vuol dire anche non trascurare la sua forte democrazia interna, la sua flessibilità: si pensi al fatto che la sera prima della rivoluzione Kamenev e Zinoviev potevano rilasciare un’intervista con la stampa USA, dichiarando la loro contrarietà all’insurrezione senza subire conseguenze, ma anzi continuando negli anni successivi a ricoprire le più alte cariche dello stato e del partito. Si trattava poi anche di un’organizzazione relativamente aperta: si pensi ad esempio a molti socialisti-rivoluzionari di sinistra che furono coinvolti in importanti funzioni governative o diplomatiche – come Blumkin ambasciatore in Turchia – nonostante il tentativo di fomentare un’insurrezione per scongiurare gli accordi di Brest-Litovsk [in cui nel 1918 i bolscevichi firmavano la resa a Germania e Austria.Ungheria, facendo uscire la Russia dalla Prima Guerra Mondiale, ndr].
Tornando alle tensioni nello spazio post-sovietico contemporaneo, nella propaganda mediatica, a volte si tende a dipingere lo scontro NATO-Russia come un conflitto tra due blocchi monolitici. Ma è davvero così? Quali sono gli interessi e i calcoli dei vari attori in gioco? Ce ne puoi parlare facendo anche riferimento all’attuale approfondimento della crisi in Ucraina?
Penso sia necessario riprendere seriamente da un punto di vista marxista l’analisi delle relazioni internazionali, evitando quelle semplificazioni che leggono tutto a partire dall’esistenza di due campi contrapposti, magari identificandone uno come anti-imperialista, senza effettuare uno studio serio. Questo discorso vale anche al contrario: come è sbagliato pensare che la Russia di Putin giochi un ruolo progressivo, lo è altrettanto tacciarla sbrigativamente come imperialista.
Si tratta di un paese ormai di poco più di 140 milioni di abitanti, con un pil di 2/3 rispetto a quello dell’Italia, un’economia fortemente dipendente dalle materie prime e una piazza finanziaria che è ridicola nei confronti di quella delle principali potenze (nonostante i mega-grattacieli che hanno costruito negli ultimi anni la borsa di Mosca conta veramente poco). Se è vero, poi, che la politica estera della Russia è oppressiva nei confronti dei paesi sui quali essa esercita pressioni per mantenere la sua sfera d’influenza, lo è altrettanto che non è in grado di performare nemmeno la funzione più basilare di un paese imperialista: l’esportazione di capitale, se per esportazione di capitale intendiamo gli investimenti diretti esteri e non i soldi che gli oligarchi spostano nelle banche occidentali e nei paradisi offshore. Si guardi a cosa è successo dopo la vittoria in Siria: Putin ha chiamato la Merkel e Macron per proporgli gli investimenti necessari alla ricostruzione!
Passando al cosiddetto ‘campo occidentale’ è invece evidente che non ci siano interessi univoci nei confronti della Russia tra i paesi NATO. La Germania fino a pochi anni fa era il primo partner commerciale della Russia, dal cui gas è estremamente dipendente; da ciò deriva un atteggiamento fortemente contraddittorio, manifestatosi qualche settimana fa quando il capo-ammiraglio della marina tedesca ha detto in una conferenza in India che bisogna venire a patti con la Russia riconoscendo la legittimità delle sue richieste alla NATO, affinché essa cessi la sua espansione ad est. Dopo di che, l’ammiraglio ha dovuto dimettersi, però l’episodio è molto indicativo. Inoltre, se è vero che esiste un atteggiamento espansivo da parte dell’Unione Europea e della Germania – interessata ad accaparrarsi alcuni settori dell’industria ucraina che nonostante lo sfacelo post-URSS hanno ancora qualche possibilità di espansione e le sue terre molto fertili – l’accesso all’UE del paese è oggettivamente molto difficile per tutta una serie di circostanze.
L’economia ucraina infatti è gestita in maniera estremamente opaca dal gruppo di oligarchi che controlla il paese, al punto che è difficile parlare di “economia di mercato”; da un lato, sarebbe quindi molto complicato integrarla con l’Europa occidentale, dall’altro, la stessa classe dominante locale perderebbe molti dei suoi privilegi con l’accesso al mercato comune. Non da ultimo, c’è da tenere in conto che settori effettivamente neo-nazisti hanno un peso rilevante negli apparati statali, dopo i risvolti delle proteste di Maidan, fatto che ha già condotto alcuni paesi come la Polonia ad esprimere alcune preoccupazioni; senza considerare che non sarebbe facile spiegare la cosa ai circoli sionisti internazionali.
Dico questo, segnalando che è però sbagliato pensare che l’Ucraina sia un paese nazista: formazioni come Svoboda e Pravyj Sektor hanno una scarsissima influenza tra le masse ed elettoralmente, ma in ultima analisi l’elemento caratteristico di un processo di fascistizzazione-nazificazione è la distruzione del movimento operaio. Certo, c’è stato l’assalto alla sede dei sindacati di Odessa, ma il movimento sindacale in Ucraina è ancora molto radicato, oltre ad essere sottovalutato dagli osservatori internazionali, soprattutto a sinistra, nonostante io credo si tratti forse del più forte di tutta l’ex URSS. A ottobre, ad esempio, si sono registrati importanti scioperi e proteste contro l’aumento delle tariffe del gas.
Analizzando ora un attimo più da vicino l’attuale crisi tra Russia e NATO in Ucraina, io non credo che ci sarà una guerra nel breve periodo, anche se è chiaro che la situazione è molto pericolosa e potrebbe sfuggire di mano più avanti. La maggior parte degli esperti di questioni militari dice che le truppe ammassate al confine da Putin non sono sufficienti a un’invasione, mentre oltre alle contraddizioni dell’Europa, non bisogna dimenticare che gli stessi USA hanno un atteggiamento oscillante nei confronti di Mosca: alcuni nel dipartimento di stato mirano a far fuori Putin per portare avanti un progetto di semi-colonizzazione della Russia, questo però li condurrebbe ad accelerare lo scontro con la Cina, essendo che uno sviluppo del genere sbilancerebbe ulteriormente i rapporti di forza a favore di Washington. Inoltre, è davvero possibile controllare uno spazio immenso e pieno di contraddizioni come la Russia semplicemente mettendo al posto di Putin una marionetta? È chiaro che in questo caso potrebbe avvenire un processo di balcanizzazione del paese che avrebbe implicazioni enormi, nemmeno lontanamente paragonabili a quanto avvenuto in Jugoslavia negli anni ’90.
Vorrei farti ancora un paio di domande sul tuo ultimo lavoro. Giustamente nel libro evidenzi l’esigenza di fare un bilancio critico dell’esperienza sovietica, per impostare seriamente la riflessione su come costruire un progetto politico che vada verso una società senza classi. Tuttavia evidenzi anche alcuni aspetti poco noti e di estremo interesse in questo senso emersi in URSS, come il programma di pianificazione cibernetica. Cosa ha tarpato questo tipo di possibilità? Ce ne puoi parlare?
Certamente. Inizialmente, sotto Stalin, la cibernetica era considerata una scienza borghese, ma con il rilassamento delle maglie strette attorno al dibattito pubblico e alla ricerca scientifica, tra gli anni 50 e gli anni 60 comincia a farsi strada l’idea di una pianificazione più razionale e coordinata, tramite un sistema organizzato da una rete di computer; uno sviluppo che avrebbe potuto condurre all’emergere di internet in Unione Sovietica ben prima che negli Stati Uniti, oltre a poter superare le rigidità della pianificazione dall’alto. Il problema, però, è che questo non era nell’interesse della burocrazia al potere, il cui sistema politico autoritario tarpava quella spinta di partecipazione dal basso che sola avrebbe potuto dare corpo a un progetto del genere.
In altre parole, la cibernetica non fu tarpata dalle deficienze della ricerca scientifica inerenti al socialismo, ma perché in URSS non c’era abbastanza socialismo, sia nel senso che c’era carenza di democrazia operaia, che – quando non faceva comodo alla burocrazia – di pianificazione. Contrariamente ad altri ambiti – come quello aereo-spaziale, in cui la pianificazione poté dimostrare tutta la sua superiorità sul libero mercato – la ricerca sulla cibernetica rimase infatti parcellizzata in vari centri di ricerca sparsi per tutto il paese. Paradossalmente, in questo caso con Arpanet, gli Stati Uniti agirono in maniera molto più ‘socialista’: del resto era già successo con la costruzione della bomba atomica, quando il governo centrale radunò coscientemente le migliori menti del pianeta per raggiungere l’obiettivo.
In generale, comunque, va sottolineato che non furono l’arretratezza scientifica e tecnologica in quanto tali che segnarono il destino dell’Unione Sovietica, in grado di raggiungere risultati eccezionali in questi ambiti, ma le rigidità e le distorsioni dettate dal dominio autoritario della burocrazia. Detto questo, c’è anche da aggiungere che – nonostante tutte le sue contraddizioni – l’Unione Sovietica (e in particolare nella prima fase dell’epoca di Breznev) raggiunse livelli di egualitarismo nella distribuzione del reddito inimmaginabili per le democrazie capitaliste occidentali, come ha recentemente dimostrato Thomas Piketty, non certo sospetto di simpatie bolsceviche. Tuttavia, poiché la casta al potere era incapace di sviluppare la produttività promuovendo la creatività dal basso, essa finì – sempre con Breznev – per puntare eccessivamente sull’esportazione di materie prime verso l’Occidente creando alcune delle premesse per la crisi post-URSS e approfondendo le tendenze alla corruzione e all’accumulazione di ricchezza privata da parte della burocrazia che avrebbe condotto alla restaurazione del capitalismo nei decenni successivi.
Un capitalismo in realtà molto particolare: se è vero che l’integrazione nel mercato mondiale fa sicuramente della Russia un paese capitalista, è difficile parlare di capitalismo considerando i rapporti tra lo Stato – che peraltro controlla i settori strategici – e gli oligarchi emersi dalle privatizzazioni, relazioni che io definisco nel mio libro come “neo-feudali”, dato che i grandi capitalisti russi dipendono fortemente dagli appalti statali e quindi dal rapporto con il ‘cerchio magico’ putiniano più che dal mercato. Detto con un aneddoto: nel 2020 la Norilskij Nikel di proprietà di uno dei principali oligarchi russi, Vladimir Potanin, causò un disastro ecologico nel nord della Russia. Potanin promise alle popolazioni locali di elargire un miliardo di dollari come riparazione; ma per tutta risposta Putin gli disse: “Un miliardo? No, tu ne metti tre!”, e Potanin: “va bene!”, consapevole che quello che gli sarebbe uscito da una tasca gli sarebbe rientrato dall’altra, grazie ai suoi rapporti privilegiati con lo Stato.
Rimanendo sulla questione della restaurazione del capitalismo nell’ex-Unione Sovietica, oltre a spiegare che si è trattato di un processo collegato al venire al pettine di contraddizioni sociali fondamentali, fai anche una riflessione sul contesto internazionale per spiegare come mai al “socialismo reale” non sia succeduto in Russia un capitalismo di successo. Perché la perestroika di Gorbačëv non poteva portare il paese né sui binari della Svezia, né di quelli della Cina?
A sinistra spesso si tende a dare tutte le colpe a Gorbačëv o agli USA per caduta dell’Unione Sovietica e i disastri successivi; alcuni, soprattutto oggi in Russia, si chiedono se non sarebbe stato meglio intraprendere la ‘via cinese al socialismo’. Tuttavia è chiaro che il contesto sociale e internazionale fu più importante degli orientamenti dei singoli nello spiegare gli esiti della vicenda URSS.
Gorbačëv aveva in mente una transizione al mercato secondo una traiettoria social-democratica. La strada verso un capitalismo di successo con forti connotati redistributivi era però sbarrata dalla relativa subordinazione dell’economia russa nel mercato mondiale, in cui l’URSS – come ho già accennato – era sempre più inserita tramite l’esportazione di materie prime. Inoltre, l’Unione Sovietica e gli stessi paesi del patto di Varsavia rappresentavano un’entità economica fortemente integrata, così la loro disgregazione non poteva che approfondire le contraddizioni della restaurazione capitalistica.
Per quando riguarda un percorso alla cinese, anche qui la situazione era complicata da tutta una serie di ragioni: in primo luogo la Russia era un paese in cui l’industrializzazione era un dato acquisito, perciò non esistevano – come in Cina – enormi masse contadine da utilizzare come serbatoio di manodopera a basso costo con cui contrattare l’integrazione nel capitalismo mondiale come “fabbrica del mondo”. Peraltro, con Deng Xiaoping, la Cina aveva iniziato in anticipo, rispetto alla Russia, riforme di mercato interne, e a istituire zone economiche speciali dove attirare investimenti esteri.
In secondo luogo, la società civile in Russia era molto più forte che in Cina, precludendo un epilogo alla Tienanmen del periodo di scontro politico e sociale che caratterizzò gli ultimi anni dell’URSS, dove un ruolo importante fu giocato non solo dai settori filo-occidentali, influenti tra l’intellighenzia tecnica, ma anche dai minatori (sebbene incapaci di giocare un ruolo politicamente autonomo). Come sappiamo, nel 1991 la frazione ‘conservatrice’ dei vertici militari e del partito mise in campo un colpo di stato contro Eltsin per prevenire la disgregazione dell’unione sovietica, tuttavia il golpe fallì, e non fu un caso. Solo dopo più di dieci anni, e in modo contraddittorio, la via alla modernizzazione autoritaria, con l’ascesa di Putin, poté prendere l’avvio e dispiegarsi lungo un ventennio.
Intervista a cura di Lorenzo Lodi
Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.