L’idea che non esista più la classe operaia è diventata da anni pervasiva, anche a sinistra. Ciò nonostante la classe operaia viene chiamata in causa spesso: per spiegare la vittoria di Trump, la Brexit oppure l’avanzata della Lega di Salvini. Grazie all’utilizzo di un approccio spaziale, questo articolo mostra come ciò che è stato etichettato come la scomparsa della classe operaia sia in realtà un processo di riorganizzazione della struttura di classe in Italia, socialmente e geograficamente. A differenza del recente passato, quando le grandi fabbriche fordiste si concentravano nelle aree urbane delle principali città del nord-ovest, la manifattura ha prevalentemente sede oggi nelle aree semi-urbane delle città di provincia del nord-est e di alcune zone del centro. Questa, come altre trasformazioni, hanno decretato un’accresciuta centralità del settore logistico, dove alcune delle più significative vertenze si sono sviluppate negli ultimi anni. Più in generale, i cambiamenti del tessuto produttivo e della sua geografia interrogano l’azione degli anticapitalisti, chiamati a “decolonizzare” la propria azione militante oltre le aree urbane delle principali città.


Introduzione

In un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano nell’ottobre del 2020, Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista dal 2007 al 2017 e attualmente uno dei massimi esponenti di quel partito, dava notizia di un convegno a Torino sulle ragioni della rivolta operaia del 1969–70, a cinquant’anni di distanza da quegli eventi. Secondo Ferrero, per quanto lo sfruttamento dei lavoratori sia brutale oggi come allora, un paragone sarebbe però impossibile. La ragione è presto detta: “la situazione è tutta diversa: le fabbriche non ci sono quasi più e Mirafiori ha meno di un decimo degli operai di allora” (Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2020, corsivo nostro). A distanza di appena 6 mesi dallo scoppio di una pandemia che aveva portato anche il blog dei Wu Ming (13 aprile 2020) a titolare di una “nuova centralità della working class”, le parole dell’ex segretario di Rifondazione possono forse suonare stonate. Non rappresentano però una voce fuori dal coro. Negli ultimi decenni in molti hanno scritto della presunta scomparsa delle fabbriche in Italia e nei paesi occidentali più in generale. L’idea che non esista più la classe operaia è così diventata un leitmotiv tanto penetrante quanto ossessivo. Il settore nel quale questa narrazione dal chiaro sapore liberista ha sfondato con più forza è quello della cosiddetta filosofia radicale e post-moderna, che vanta un certo seguito, spesso anche solo implicito, nei contesti urbani di natura sinistroide e progressista. Degno rappresentante di questa vulgata è il noto filosofo Byung-Chul Han (2016: 14), secondo il quale: “il neoliberismo elimina la classe operaia che è sfruttata da altri. Oggi, ciascuno è un lavoratore che sfrutta se stesso per la propria impresa”. Salvo poi, come ha sottolineato la politologa socialdemocratica Nadia Urbinati (2019), far tornare la classe operaia  alla ribalta quando il voto di questa deve spiegare fenomeni come la vittoria di Donald Trump o la Brexit. In un articolo sul Corriere della Sera, per esempio, commentando un recente sondaggio, l’analista Dario Di Vico ha evidenziato come “per trovare la constituency leghista più consistente bisogna isolare gli elettori operai” (Corriere della Sera, 7 novembre 2021). Ma com’è possibile che nei discorsi mainstream la classe operaia si sia volatilizzata e allo stesso tempo sia chiamata in causa per spiegare fenomeni fra i più disparati? Molta di questa confusione deriva da considerazioni superficiali sullo stato dell’arte dell’industria italiana. 

Ciò che in molti hanno liquidato come la scomparsa della classe operaia era in realtà un processo di riconfigurazione della struttura di classe: il consolidamento cioè di nuove relazioni tra le classi e all’interno della classe lavoratrice. Nonostante la portata storica di queste trasformazioni, il modo peculiare con il quale si sono sviluppate nel contesto italiano resta ancora oggi in gran parte inesplorato. Questo articolo risponde quindi all’esigenza di comprendere alcune caratteristiche della ri-organizzazione di classe nel contesto italiano a partire dal periodo post-fordista e cosa questo significhi per le forze rivoluzionarie. 

Nella comprensione di questa ri-organizzazione ci sarà utile un approccio spaziale, ovvero uno sguardo sui luoghi dell’industria. Da un modello di fabbrica fordista, che tendeva a concentrare al proprio interno ogni fase del processo produttivo ed era ubicata soprattutto nelle aree urbane delle più grandi città del nord-ovest come Torino e Milano, siamo progressivamente passati a un modello basato su aziende di medio-grandi dimensioni che curano spesso una singola fase della produzione e si concentrano prevalentemente nelle aree semi-urbane delle città di provincia del nord-est e di alcune zone del centro. 

Come causa e conseguenza di questi sviluppi, le città hanno smesso, da un lato, di essere il luogo privilegiato del dispiegamento del processo capitalista nella sua completezza e, dall’altro, la principale dimensione di incontro e aggregazione della forza lavoro. I contesti urbani sono così diventati hub dei servizi, dove si muove una classe lavoratrice particolarmente eterogenea e frammentata, che fatica a riconoscersi come tale e a organizzarsi lungo linee di classe. Tutti questi mutamenti pongono sfide e opportunità ancora troppo poco dibattute tra le forze rivoluzionarie. 

Scomparsa o trasformazione dell’Italia industriale? 

In Italia, nel corso degli ultimi decenni, il numero di lavoratori impiegati nel settore industriale è diminuito, dando vita ad un trend opposto rispetto a quanto visto nel secondo dopoguerra. Al termine del conflitto, il paese aveva infatti conosciuto uno sviluppo economico particolarmente rilevante. Tra il 1951 e il 1957, ad esempio, il PIL era salito ad una media del 5,3% all’anno, giungendo poi ad una media annuale del 6,6% tra il 1958 e il 1963. Centrale in questo processo è stato il settore industriale, con percentuali di crescita spesso a doppia cifra. L’effetto diretto di ciò è stata una profonda trasformazione della struttura di classe in Italia. Nel 1951, il 44,6% della forza lavoro era ancora impiegata in agricoltura, mentre il settore industriale occupava il 22,6% della manodopera. A distanza di appena 20 anni, i rapporti si erano ribaltati: nel settore agricolo lavorava meno del 20% della forza lavoro, mentre l’industria occupava 6 milioni di lavoratori, raggiungendo il 31% del totale (King 1985).

La situazione è certamente diversa oggi. Il contributo al PIL di quanto l’Istat (2020) configura come industria in senso stretto è calato dal 20% del 1990 a meno del 16% del 2007. Di riflesso, anche la percentuale di popolazione impiegata nel settore è scesa dall’11,2% del totale del 1971 al 9,2% del 2001 (Daniele, Malanima e Ostuni 2018). La crisi economica del 2008 ha accelerato ulteriormente questi processi. Nel solo 2009, la produzione industriale è crollata del 16%, mentre il successivo recupero è stato lento e debole. Nel 2015, l’indice industriale in Italia rimaneva infatti inferiore al livello raggiunto nel 1986. Il decennio che ha preceduto l’esplosione della pandemia si è inoltre caratterizzato per una forte contrazione del numero di lavoratori industriali, scesi di oltre mezzo milione di unità dopo il 2008 e attestatisi sui 3,7 milioni nel 2019 (Istat 2020). Questo è circa il 40% in meno rispetto al 1971. Tutto sembrerebbe quindi accreditare la tesi di chi, sulle orme del sociologo socialdemocratico Luciano Gallino (2003), parla della scomparsa dell’Italia industriale.

Non si può, tuttavia, giungere a questa conclusione prima di aver considerato quattro importanti fattori. In primo luogo, la contrazione della manifattura e del numero di lavoratori industriali devono essere viste in termini relativi e non assoluti. L’industria rimane un settore determinante per la struttura economica italiana e quello più “pesante” per quanto riguarda il numero di lavoratori dipendenti impiegati – come appena ricordato, 3,7 milioni. L’Italia rimane inoltre al secondo posto in Europa, dopo la Germania, per valore della produzione industriale. Questa si colloca al centro degli scambi intersettoriali e rappresenta un soggetto fondamentale di domanda per tutti i servizi. In maniera ancor più importante, infine, l’industria rappresenta la singola voce più rilevante per l’export italiano. Nel 2019, ad esempio, le categorie elettrodomestici e macchinari elettrici pesavano da sole per oltre il 25% dell’export totale (Oec World 2022). In secondo luogo, come effetto dell’esternalizzazione di alcune funzioni che nel periodo fordista erano gestite internamente – si pensi al servizio mensa, alle pulizie dei locali e a numerose operazioni connesse con la commercializzazione dei prodotti – un certo numero di lavoratori prima conteggiati nell’industria vengono oggi accorpati al settore dei servizi, alterando parzialmente il confronto (Clash City Workers 2014). Un terzo fattore da annotare riguarda invece il peso relativo dei lavoratori industriali in rapporto alla ricchezza prodotta. Alla già citata diminuzione delle tute blu nell’ultimo decennio ha fatto da contrappeso la graduale risalita del contributo dell’industria al PIL. Questo valore era sceso sotto il 14% nel 2009, tornando poi attorno al 15% circa tra il 2018 e il 2020, quando però i lavoratori industriali erano oltre mezzo milione in meno. Questo significa che, almeno in termini teorici, il singolo lavoratore industriale è oggi più importante per la valorizzazione del capitale di quanto non fosse un decennio fa, rendendolo quindi un soggetto con un forte potenziale rivendicativo. Quarto, va senz’altro considerato il carattere straordinariamente diseguale della geografia industriale in Italia, sebbene i dati aggregati tendono a nasconderlo. Per quanto il divario nord-sud non sia cosa nuova, il passaggio da un modello fordista a uno post-fordista ne aggiunge altri e più orizzontali, come quelli fra aree urbane e metropolitane, da un lato, e quelle rurali, dall’altro. Se fino agli anni Settanta esisteva una dicotomia tra aree urbane delle principali città del nord-ovest, come Torino e Milano fortemente industrializzate e aree provinciali e rurali agricole, oggi ne esiste un’altra: fra centri urbani dedicati a servizi e distribuzione e aree provinciali e rurali a vocazione manifatturiera e produttiva. Questa trasformazione merita uno sguardo più attento.

L’industria in movimento verso est e le zone semi-urbane delle città di provincia 

Pochi decenni dopo l’avvio del processo di industrializzazione vero e proprio, il divario nord-sud e la forte concentrazione delle attività manifatturiere nel nord-ovest erano già evidenti. Nel 1911, ad esempio, nell’area del cosiddetto triangolo industriale Torino-Milano-Genova, dove viveva circa un quarto della popolazione italiana, si concentrava quasi il 40% della manodopera industriale e circa la metà delle aziende tecnologicamente più avanzate. Tale squilibrio accelerò ancor di più nel periodo fascista e nella prima fase repubblicana. Nel 1936, un operaio su due lavorava in una delle tre regioni del nord-ovest. In maniera ancora più diseguale, il 45,8% della popolazione attiva in Lombardia e il 40% in Piemonte era costituita, nel 1961, da lavoratori impiegati nella manifattura o in attività estrattive. Al contrario, tutte le regioni meridionali avevano una percentuale di manodopera industriale che oscillava tra il 5 e il 13%. Nel 1971, il 45% della manodopera industriale italiana lavorava tra Piemonte e Lombardia, mostrando così un fortissimo squilibrio con tutte le altre parti del paese (King 1985). 

Protagoniste indiscusse di questa fase sono state le due principali città del nord-ovest: Torino e Milano. Il nome della prima è, come noto, strettamente legato a quello della Fiat. Su 160 mila operai nel settore automobilistico a livello nazionale, oltre 130 mila lavoravano a Torino nel 1971, mentre la Fiat e le sue controllate rappresentavano da sole l’89% dell’occupazione industriale del capoluogo piemontese. Tra le 90 aziende con oltre 500 dipendenti presenti a Torino, ben 74 operavano nel ramo dell’ingegneria meccanica, spesso come fornitori diretti della Fiat. La peculiarità di molte di queste industrie era però la loro ubicazione: all’interno del comune di Torino e spesso a ridosso del centro cittadino. Mirafiori stessa, che con i suoi 60mila lavoratori era la fabbrica più grande di tutta l’Europa occidentale in quegli anni, era distante appena 6 km dalla parte vecchia della città. Torino era così diventata un immenso dormitorio per la Fiat e le altre aziende, con quartieri operai ben definiti e in buona parte abitati da un nuovo proletariato: giovane, meridionale e non ancora irregimentato nelle strutture sindacali e sociali. Sarà proprio questo segmento della classe lavoratrice che giocherà un ruolo cruciale nel decennio di centralità operaia a partire dal cosiddetto autunno caldo del 1969 (Balestrini e Moroni 1988). La storia industriale di Milano ha, al contrario, un carattere più eterogeneo, non essendo legata in modo così netto ad una sola azienda. Anche la geografia urbana è in parte dissimile: la cintura industriale correva infatti alla periferia della città. Nonostante queste differenze, ben 16 delle 18 aziende più grandi, quelle con oltre 1.000 dipendenti, avevano sede all’interno dell’area comunale della città nel 1971 (King 1985).

A partire dagli anni Settanta, la centralità della grande fabbrica fordista ubicata nelle principali città del nord-ovest è gradualmente venuta meno. Per la prima volta, tra il 1971 e il 1981, il numero di lavoratori industriali è diminuito del 5% nelle regioni del nord-ovest. All’opposto, l’occupazione nel settore industriale nelle regioni del nord-est ha fatto registrare un aumento di quasi il 20% nello stesso periodo. In maniera ancor più significativa, mentre i lavoratori industriali sul totale della popolazione sono scesi dal 18,1% del 1981 al 12,9% del 2001 nel nord-ovest, la loro percentuale è cresciuta dal 12,7% al 13,3% nel nord-est (Daniele, Malanima e Ostuni 2018). Così come l’industrializzazione, anche il suo declino è stato geograficamente disuguale, riguardando  inizialmente il Piemonte e la Liguria. Il baricentro economico si è progressivamente spostato ad est e, almeno in parte, a sud, creando un nuovo triangolo industriale Milano-Bologna-Venezia. Infatti, mentre tra Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto vive circa il 32% della popolazione totale, le tre regioni rappresentano il 55% della produzione industriale nazionale e occupano circa il 51% della manodopera industriale. Questa traiettoria emerge ancora più chiaramente quando si prendono in considerazione le aziende con oltre 250 dipendenti. Delle 1305 industrie grandi che si contavano in Italia nel 2018, ben 798 si trovavano tra Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, per una percentuale superiore al 60%. Al polo opposto, la Sicilia ne contava 8, la Sardegna 4 e la Calabria appena 1 (Istat 2020).          

Insieme a queste caratteristiche verticali, ne osserviamo altre orizzontali. Già nel 1981, sebbene Milano e Torino restassero fra le prime dieci città con la più alta percentuale di lavoratori industriali (Daniele et al. 2018), alcune delle più alte concentrazioni di manodopera industriale si registravano in province che erano state prevalentemente agricole fino a pochi decenni prima, come Treviso, Vicenza, Pordenone e Modena. Nel 2018, la situazione aveva avuto una fortissima accelerata in questo senso. Se prendiamo in considerazione le industrie con oltre 250 dipendenti, la maggiore concentrazione operaia sul totale della popolazione risultava nelle province di Vicenza, Reggio-Emilia, Modena, Mantova, Biella, Parma, Belluno, Bergamo, Pordenone e Cremona (Istat 2020). Per quanto i nomi siano diversi, il dato generale è confermato anche da quello che il Censis (2016) definisce come vocazione manifatturiera, ovvero il peso relativo di questo settore rispetto al totale delle attività economiche. In questa speciale classifica, troviamo in testa città di provincia come Varese, Lecco, Treviso, Vicenza, Fermo, Cuneo, Chieti e Macerata. Per incontrare la prima città “maggiore”, dobbiamo scorrere fino alla quarantesima posizione con Firenze. Milano è ottantaseiesima, mentre Roma conferma la sua peculiarità di caso di ‘urbanizzazione senza industrializzazione’ giungendo ultima. 

Una conoscenza che rimane purtroppo più aneddotica che scientifica sembra anche suggerire come la maggior parte delle  fabbriche che hanno sede nelle città di provincia si trovi al di fuori della cerchia comunale, in una zona semi-urbana. Proprio il dilagare iniziale della pandemia nel marzo del 2020 in Val Seriana nella provincia di Bergamo ha fornito uno spaccato molto interessante al riguardo. Nei piccoli comuni di Alzano Lombardo e Nembro, entrambi sotto i 15 mila abitanti, hanno sede infatti ben 376 aziende per un totale di circa 3700 dipendenti (L’Eco di Bergamo, 6 marzo 2020). Mentre molte di queste aziende sono piccole e piccolissime, altre occupano tra i 100 e gli 800 lavoratori, mostrando anche una forte propensione all’export di prodotti tecnologicamente avanzati (Corriere della Sera, 7 marzo 2020). La situazione è simile se si prende in considerazione il settore dell’automotive in Toscana. Le due principali aziende sono la Vitesco e l’ormai ex Gkn. La seconda è probabilmente la fabbrica più conosciuta al momento in Italia, grazie alla lunga occupazione dello stabilimento portata avanti dai 422 lavoratori a partire dal 9 luglio. Fino a metà degli anni Novanta, l’azienda si trovava all’interno del comune di Firenze, nel quadrante nord-ovest della città, quello destinato all’espansione industriale fin dal primo Novecento e quello più marcatamente operaio. Oggi ha invece sede al limite estremo del comune di Campi Bisenzio, nell’hinterland fiorentino. In maniera interessante, la distanza tra l’attuale ubicazione della fabbrica e il primo tessuto residenziale del comune di Campi Bisenzio è maggiore di quella che intercorre tra la vecchia sede nel quartiere di Novoli e Piazza Duomo a Firenze. Il caso della Vitesco è forse ancora più eclatante. Il sito produttivo si trova diviso tra due stabilimenti: uno nella frazione di Torretta, dove vivono meno di 50 persone, al confine tra i comuni di Collesalvetti e Fauglia, tra la provincia di Pisa e quella di Livorno; l’altro nel comune di San Piero a Grado, circa 3 mila abitanti, sempre nel pisano. In entrambi i casi, in un contesto di campagna poco urbanizzata, lavorano centinaia di operai, per un totale che sfiorava quota mille prima del recente mancato rinnovo di oltre 100 lavoratori in staff-leasing.       

La crescita della logistica

Mentre negli ultimi decenni il settore industriale si frammentava e in parte si contraeva, quello della logistica viveva una crescita importante. Principalmente per tre fattori. In prima istanza, per il progressivo allontanamento del luogo della produzione dallo spazio urbano che abbiamo descritto nei paragrafi precedenti. Se nel modello fordista entrambe le fasi del processo di messa a valore delle merci si espletavano in città, nella fase post-fordista tendono invece ad essere spazialmente distinte. Un secondo, e ancor più decisivo, elemento è stato l’affermarsi delle cosiddette catene del valore globale con l’imperativo del Just In Time e delle “scorte zero” sulla scia del modello Toyota (vedi Pirazzoli in questo numero). Queste catene globali hanno frammentato il ciclo produttivo tra imprese localizzate in paesi o continenti diversi, determinando la crescita esponenziale del traffico di materie prime, semilavorati e prodotti finiti. Il terzo fattore riguarda la liberalizzazione dei vettori postali che ha creato un nuovo mercato organizzato in grandi oligopoli laddove c’era un semplice servizio pubblico. Possiamo aggiungere anche un quarto fattore, sebbene più dinamico e consequenziale: la recente impennata delle compere online. Il corollario diretto dell’acquisto di ogni merce fisica sul web è infatti la consegna effettuata presso le nostre abitazioni da un corriere. 

Una conseguenza della crescita della logistica è la centralità del magazzino. Anche in questo caso, l’ubicazione di questi è in gran parte nelle aree semi-urbane, quando non proprio in contesti rurali. Il caso di Amazon è paradigmatico al riguardo. La multinazionale di Jeff Bezos ha aperto un numero record di ventotto nuovi magazzini in Italia tra il 2020 e il 2021, raddoppiando gli impianti (Consolati 2022). Tra questi, 6 sono centri logistici. Con la sola esclusione di quello di Vercelli, tutti gli altri si trovano in comuni con una popolazione inferiore ai 15 mila abitanti. Un esempio interessante è rappresentato dal magazzino di Colleferro, che impiega circa 600 persone e che insiste su un bacino ampio che si estende fra la provincia di Frosinone e quella di Roma. Quest’area, un tempo a vocazione produttiva, si caratterizza oggi come una zona a trazione logistica. Nel caso dei centri di Arquà Polesine e Torrazza Piemonte, l’intera popolazione attiva di questi comuni sotto i 3mila abitanti non sarebbe forse sufficiente per soddisfare il bisogno di manodopera di Amazon. In un contesto di atomizzazione e frammentazione anche geografica della forza lavoro, il settore della logistica rappresenta senz’altro una controtendenza. Non può cioè fare a meno di riunire sotto uno stesso tetto, nello stesso luogo, decine e decine di lavoratori. Questa caratteristica strutturale rende la logistica centrale all’analisi anche per motivi di agibilità e organizzazione collettiva. 

Se guardiamo alle mobilitazioni che negli ultimi anni hanno interessato questo settore, ci rendiamo conto di come esse siano capillari e multiformi, la maggior parte organizzate con i sindacati di base (in particolare il Si Cobas). Una delle cose più interessanti è che, nonostante la grande varietà della logistica, le lotte si sono sviluppate in quasi tutte le branche: dal food-delivery, ai lavoratori portuali fino ai magazzini delle multinazionali come Amazon e FedEx. Assumere una prospettiva unificante è senz’altro difficile, dato che le rivendicazioni sono state diverse, dalla sicurezza sul lavoro all’applicazione del contratto collettivo nazionale fino al rispetto dell’orario di lavoro. Data la posizione geografica di molti magazzini, le lotte che hanno avuto come protagonisti i lavoratori della logistica hanno animato zone periferiche, distanti dal centro. A titolo di esempio, nello sciopero degli interinali di Amazon nella sede di Colleferro si è assistito a un processo molto esplicativo: i sit-in pensati per la protesta perdevano di intensità e partecipazione man mano che ci si spostava verso il centro (dal magazzino alla sede di Adecco, fino al comune nel centro di Colleferro) in un processo speculare e opposto a quello con cui siamo soliti pensare le intensità delle  mobilitazioni sul lavoro.

Nel giugno 2020 vicino Milano, a Peschiera Borromeo, la multinazionale FedEx ha licenziato più di 70 lavoratori sindacalizzati che stavano scioperando da mesi e ispirando mobilitazioni in altri magazzini. All’inizio del 2021 in provincia di Piacenza, gli stessi lavoratori di FedEx subiscono pesanti atti di repressione da parte della polizia, fino all’arresto di due sindacalisti Si Cobas e all’annuncio dell’azienda della chiusura dello stabilimento. A gennaio dell’anno dopo la vertenza ha condotto a una vittoria parziale, riuscendo nella reintegrazione di parte dei licenziati. Alla fine di luglio anche i lavoratori portuali hanno indetto scioperi bloccando merci pesanti per più di 24 ore. Al porto di Genova, per esempio, navi contenenti armi per l’Arabia Saudita sono restate ferme per più di un giorno. Se guardiamo alla logistica “leggera”, ovvero a quella della consegna a domicilio, non troviamo mobilitazioni meno importanti. A partire dal 2016 i riders del food delivery hanno dato vita a proteste e scioperi in tutta Europa. In Italia, a Torino, Milano, Bologna, Firenze e in altre città i fattorini di diverse piattaforme, come Just Eat, Deliveroo e Glovo, hanno dato vita a forme nuove di sindacato-movimento, organizzandosi in modo più o meno autonomo. Le principali rivendicazioni, in origine, riguardavano la tipologia di contratto, poi si sono estese alla sicurezza e al controllo. L’attenzione mediatica che i riders sono stati in grado di richiamare ha portato la piattaforma Just Eat ad annunciare nel 2019 un cospicuo piano di assunzioni dei lavoratori contrattualizzati come free lance. 

Da questa grande varietà emerge un tratto trasversale a molte delle lotte nella logistica: una relazione peculiare con lo spazio e la geografia circostante. Come abbiamo detto sopra, il modello fordista si è modificato nel tempo, determinando una nuova distribuzione della forza lavoro fra aree urbane e rurali. Da un lato la città è progressivamente diventata improduttiva, almeno nella concezione tradizionale del termine. Si è riempita di impiegati nei servizi, di artigiani digitali, piccole produzioni poco visibili, situate in spazi polifunzionali come i FabLab, animati appunto da artigiani e lavoratori specializzati difficilmente inquadrabili come operai. Dall’altro la provincia e la campagna, sempre più a vocazione produttiva, si sono progressivamente riempite della forza lavoro operaia che al tempo della città fabbrica sarebbe stata inserita nel contesto metropolitano. Se guardiamo però con attenzione al settore della logistica, questa polarizzazione netta può essere messa in discussione e un filo rosso tra geografie diverse può emergere, proprio seguendo la connaturata esigenza delle merci di circolare. 

Se è vero che una parte dei lavoratori della logistica è posta ai margini della città, nei magazzini e nei porti, un’altra parte circola nelle strade e nelle piazze della città, consegnando cibi e pacchi in bicicletta o sui camion. Concentrati e decentrati da un lato, frammentati e centrali dall’altro: peculiarità del modello fordista e post-fordista rimescolate. La logistica, dunque, è centrale al tardo capitalismo ma al tempo stesso non è espressione della sua piena riuscita: è semmai espressione di come nessun modello possa mai essere superato del tutto. Di come, cioè, mentre si prova ad annientare – nell’immaginario e nei luoghi – la classe operaia, questa si confermi centrale sebbene attraverso altre strade. 

Le nuove relazioni fra classi all’interno delle città 

Se assumiamo quest’ottica, dunque, e andiamo a spacchettare le geografie della struttura di classe, ci rendiamo conto di come sia irrealistico affermare tout court che la classe operaia non esista più.  Nel dibattito pubblico chi sostiene questo assunto spesso dà corpo e gambe anche ad un altro corollario: al posto della classe operaia c’è oggi la classe dei lavoratori precari. Una classe composita, fatta da operatori dei servizi e della cura da un lato e da impiegati nell’industria culturale e turistica dall’altro. Questa convinzione merita un approfondimento. 

A partire dalla fine degli anni ottanta l’industria culturale e quella turistica sono cresciute in modo esponenziale, andando a riempire nelle città i vuoti sociali e spaziali lasciati dalla delocalizzazione della produzione. Nel 2019, la voce viaggi, turismo e ospitalità ammontava a circa il 13% del PIL italiano, prima di contrarsi sensibilmente l’anno seguente, quando per le restrizioni legate allo scoppio della pandemia è sceso al 7%. Si tratta quindi di una voce importante e, a discapito della narrativa che lo circonda, per niente green, visto che quella del turismo è stata giudicata l’industria più inquinante del nostro tempo (Agostini et al. 2020). Si è così andata consolidando la cosiddetta “città duale” (Lever 2001), ovvero una città fatta sia da grandi hub finanziarie e centri direzionali sia da lavoratori con caratteristiche e qualifiche diverse. Abbondano in città i lavoratori qualificati ma poco pagati e male contrattualizzati, come per esempio i lavoratori del cosiddetto precariato intellettuale. A questi si aggiungono altri lavoratori meno qualificati, impiegati stagionalmente o in nero, oppure “on demand”, facilmente sostituibili. Basta pensare a tutto l’indotto della ristorazione, vendita al dettaglio e servizi turistici che la città porta con sé.

Ma perché mai la crescita di questo settore di lavoratori dovrebbe portarci a credere che la classe operaia tradizionalmente intesa non esista più? Per quanto astratto e intellettuale, anche il lavoro creativo urbano – quello che Guglielmo Carchedi (2017) definisce lavoro mentale – ha bisogno di strumenti di lavoro che restano fisici, da costruire e manutenere. È posto, dunque, in diretta relazione al processo materiale di lavoro e di trasformazione che non costituisce un salto “ontologico” rispetto al lavoro “manuale”, il quale, d’altro canto, molto difficilmente può dirsi del tutto non-creativo, privo di elaborazione mentale-intellettuale. La tesi della scomparsa della classe operaia a favore dei nuovi lavoratori intellettuali si basa su uno sguardo parziale, che si concentra solo sugli spazi urbani consolidati e ne fotografa le relazioni senza osservarne i processi. 

Nel modello urbano di tipo fordista, insieme alla fabbrica anche la classe operaia era integrata in città. Nei momenti di mobilitazione collettiva le rivendicazioni dentro il luogo di lavoro andavano di pari passo con quelle fuori dall’orario e dallo spazio della produzione: toccavano appunto la ri-produzione. Basti pensare alle lotte per la casa degli anni settanta nelle quali gli stessi soggetti che rivendicavano tempi e condizioni di lavoro diverse lottavano anche per condizioni abitative e di vita diverse, per l’edilizia popolare, per servizi sanitari, per la scuola pubblica. Anche i modelli organizzativi all’interno delle fabbriche andavano oltre queste: ci si organizzava in comitati di quartiere, si costituivano cooperative operaie per riscattare alloggi sociali, si mettevano in campo esperienze di mutuo-soccorso nei quartieri operai. Questa integrazione fra rivendicazioni produttive e ri-produttive era resa possibile dalla vicinanza fra altri tre soggetti urbani: il sottoproletariato, le organizzazioni politiche (principalmente extra-parlamentari) e i movimenti che a vario titolo si organizzavano nei confini della città. 

Con la fuoriuscita della fabbrica dal contesto urbano durante la fase post-fordista, anche la classe operaia manifatturiera ha iniziato a situarsi altrove, perdendo la relazione di prossimità fisica con gli altri protagonisti dello spazio urbano. Allo stesso tempo, la città ha iniziato sempre di più ad essere prodotta da lavoratori – dei servizi e dell’industria culturale – che sempre meno sono configurabili come abitanti urbani quanto piuttosto come city users, persone che producono o consumano in città ma che non possono permettersi la vita urbana. Nonostante queste trasformazioni, molti dei soggetti collettivi e delle organizzazioni di movimento hanno continuato a restare focalizzate e localizzate nei contesti urbani, lottando per e contro quello che era visibile in città: gli effetti del turismo, della gentrificazione, la perdita di tessuto sociale e politico. Del processo di valorizzazione capitalista hanno iniziato a combattere solo una parte: quella legata alla fase finale di messa a rendita del consumo delle merci. Il processo produttivo è lentamente fuoriuscito dalle rivendicazioni e dai radar delle organizzazioni urbane. Questi soggetti sono cioè rimasti con i piedi ben piantati nei contesti spaziali che li avevano prodotti, allontanandosi però dalla classe che produce. In questo senso hanno rinunciato a una prospettiva di classe. 

Cosa devono fare gli anticapitalisti oggi?

In questo articolo abbiamo cercato di analizzare le trasformazioni nel tessuto produttivo italiano dal modello fordista a quello post-fordista, con attenzione ai cambiamenti rispetto alla geografia e, conseguentemente, alla struttura di classe. Un’analisi parziale, certo, ma che ci sembra un punto di partenza per muovere dei passi in avanti nella trasformazione dell’esistente. Per prima cosa quest’analisi ci sembra importante per continuare ad essere materialisti storici, ovvero partire dalla realtà e non chiedere alla realtà di piegarsi rispetto alla nostra identità militante. Siamo abituati ad organizzarci prioritariamente nelle città medio-grandi, ma se queste non sono più l’unico o il principale luogo nel quale la nostra classe di riferimento si trova ed agisce, allora dobbiamo avere il coraggio di cambiare luogo, e non la presunzione di cambiare classe: imparare a operare nei centri minori e nelle fasce periferiche e suburbane piuttosto che tentare di adattare la propria politica ai ceti medio-alti delle ztl dei centri città.

In questo senso, è necessario uno sforzo “decolonizzante” rispetto allo spazio delle contraddizioni e delle lotte. Non basta guardare fuori dalle grandi città, se lo facciamo applicando le categorie di interpretazione dei conflitti che abbiamo costruito su base urbana. Gli spazi semi-urbani, provinciali e periferici non sono brutte copie di quello che un tempo fu la città sia in termini oggettivi che soggettivi. Se cerchiamo in geografie diverse i modi e le forme di organizzazione di epoche precedenti, non li troveremo e saremo portati – in modo del tutto arbitrario – a pensare che la classe lavoratrice non sia più il soggetto rivoluzionario che andiamo cercando. Su questo versante, pensiamo che non ci sia molto da inventare: il superamento del capitalismo può avvenire solamente attraverso la mobilitazione di quei soggetti che, cedendo la propria forza-lavoro per ricevere in ritorno un salario, sono cruciali per la valorizzazione del capitale.

Dove invece è richiesto un dibattito serrato è su come si possano unire la classe lavoratrice industriale e quella del settore della logistica. Se tra fabbrica e magazzini, da un lato, e quartiere, dall’altro, non esiste più quella continuità spaziale del periodo fordista, allora una solida e robusta organizzazione sui luoghi di lavoro sembra ancora più decisiva. Il caso della Gkn con la rottura con la burocrazia sindacale, il costituirsi di una Rsu combattiva, il formarsi di un collettivo di fabbrica e l’emergere dei delegati di raccordo ci racconta proprio di come questo modello possa essere messo in pratica e possa funzionare. Come abbiamo già provato ad analizzare brevemente nel primo numero di questa rivista, un tale processo può però mettersi in moto, consolidarsi nel tempo e raggiungere salti politici “inusuali” solamente se vi è stato a monte un meticoloso e spesso invisibile lavoro di politicizzazione e di conquista a sé della componente lavorativa più avanzata da parte delle forze rivoluzionarie. Non basta che, una volta scoppiata la vertenza, il variopinto circo del popolo della sinistra si palesi davanti ai cancelli della fabbrica a portare solidarietà e sostegno ai “poveri lavoratori licenziati”. Senza il tentativo decennale di un numericamente limitato, ma politicamente capace, gruppo trotskista di penetrare la fabbrica è molto probabile che nessuna delle condizioni sopra richiamate sarebbe stata presente al momento dell’annuncio dell’azienda della chiusura del sito produttivo di Campi Bisenzio. In conseguenza di ciò, sembra verosimile ipotizzare che la vertenza Gkn avrebbe seguito lo stesso triste iter di casi simili nel recente passato: dai comunicati di vicinanza delle istituzioni agli infiniti incontri al Mise; dalle promesse di re-industrializzazione alla chiusura definitiva della fabbrica. Vi è però un altro ed egualmente importante insegnamento che il ‘caso’ Gkn ci porta in dote. Non importa quanto piccolo possa essere un gruppo politico, quando questo mostra una chiara strategia orientata alla conquista della parte più combattiva e cosciente del movimento dei lavoratori e trova un centro gravitazionale in questo, può conquistare reali posizioni di forza e un ruolo rilevante nella scena politica, mostrando concretamente un corretto metodo di formazione di un’avanguardia rivoluzionaria forgiata nel calore della lotta di classe, e interna ai processi di autorganizzazione della classe lavoratrice stessa.

Questo approccio, sembra utile sottolinearlo, è diametralmente opposto a quanto fatto negli ultimi anni in Italia dai vari gruppi di quella che i commentatori borghesi dipingono come l’estrema sinistra. Per molti, l’idea è stata che una certa visibilità mediatica e un presunto sfondamento elettorale avrebbero attivato un effetto a cascata con la possibilità di avvicinare una parte della classe, vista quindi come soggetto passivo e mero bacino elettorale. La conclusione è stata che nelle urne, per nessuno, vi sia stata la tanto attesa pesca miracolosa. Il prezzo pagato è stato però alto: interclassismo strisciante, elettoralismo dominante ed evidente torsione destroide. Si pone quindi con forza l’esigenza di uscire dall’infinita riproposizione di cartelli elettorali per abbracciare una seria politica leninista di costruzione del partito.    

Carlotta Caciagli, Gianni Del Panta

Questo articolo fa parte del numero 2, primavera 2022, della rivista Egemonia.

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Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).

Dottoressa di ricerca in sociologia e scienza politica, diplomata presso la Scuola Normale Superiore. Si occupa di trasformazioni urbane e delle relative politiche capitaliste.