Il Gramsci torinese: il PSI, l’Ordine Nuovo e i consigli di fabbrica

Il movimento socialista italiano ha prodotto nel corso della storia grandi menti e pensatori, fra questi Antonio Gramsci non è secondo a nessuno. Con un’enorme produzione letteraria e filosofica ha lasciato un’impronta sulla politica italiana contemporanea, di cui può essere considerato uno dei maggiori padri per quanto riguarda il movimento operaio. È indubbio che gli scritti e gli studi portati avanti da Gramsci (che continuò nonostante il confino e la prigionia fascista) raggiunsero nel corso del tempo una mole non indifferente. Ma non dobbiamo dimenticarci che, oltre ad essere un uomo di cultura, Gramsci era anche un uomo di azione, un dirigente politico rivoluzionario in grado di aizzare gli animi del proletariato italiano. L’esperienza centrale della sua vita fu la permanenza fra il 1912 e il 1922 a Torino, dove frequentò inizialmente la facoltà di lettere. Torino al tempo era la città dell’industria, con una classe operaia discretamente organizzata, ed è qui che Gramsci trovò terra fertile per il suo sviluppo politico, diventando prima militante e poi dirigente del partito socialista. Tenne sempre uno stretto contatto con gli ambienti di fabbrica torinesi, partecipando a scioperi, riunioni e collaborando con diversi giornali socialisti, fino ad arrivare a fondare il settimanale l’Ordine Nuovo nel 1919 insieme ad altri compagni. Per gli ordinovisti, l’esperienza dei Consigli di fabbrica indicava una forma possibile per l’auto-organizzazione di massa della classe lavoratrice, sul modello dei soviet russi che avevano espresso l’attività e il potere politico delle masse operaie e contadine dell’ex-impero zarista. In particolare, Gramsci identifica i consigli di fabbrica come organi creati dalla classe operaia stessa, e al posto di essa; essi riconoscono la loro propria legge, la propria autorità e sono una risposta alle esigenze vitali del proletariato nel momento della radicalizzazione e dell’estensione della sua lotta; sono l’espressione storica di forze e volontà immanenti nella classe operaia, essi sono vivi e vitali. Muovendosi in questi ambienti, Gramsci riuscì a stimolare la fiducia nei propri mezzi tra i lavoratori torinesi, nonché a diffondere tra di loro la tensione verso una lotta di classe su scala nazionale e politica, e non solo locale e sindacalista. In quest’ottica, appoggiava la creazione e l’evoluzione di queste istituzioni, che partivano dalle catene di montaggio e dai luoghi di lavoro, perché fossero veri e propri organi rivoluzionari della classe lavoratrice.

 

I consigli: dalla fabbrica alla società, dalla lotta economica immediata alla lotta di classe rivoluzionaria

Per rappresentare effettivamente il proletariato, l’istituzione operaia deve infatti essere presente nel luogo dove il ciclo di produzione capitalista raggiunge la sua massima espressione. La fabbrica deve essere il principale terreno di lotta, il posto dove si studiano i punti deboli del sistema capitalistico per scoperchiarli. La lotta di classe che Gramsci portò avanti contro il governo e i padroni andò di pari passo a quella dialettica contro burocrazie sindacali e una parte del Partito Socialista che, monopolizzati dal pensiero riformista e dalla logica del compromesso con la classe dominante, si dimostrarono fin da subito scettici, se non ostili, al sistema dei Consigli. Nell’agosto del 1917, a seguito dei moti antimilitaristi che sconvolsero Torino e che causarono la morte di cinquanta proletari torinesi, scrisse in polemica con il riformista Claudio Treves:

il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette; vuole comprensione, intelligenza e simpatia piena d’amore.

Parole che si dimostrano sempre più attuali, vista la condotta apertamente contro gli interessi dei lavoratori assunta oggi dalla burocrazia dei sindacati maggiori. Essi rifiutano infatti qualsiasi politica di lotta, a favore di accordi bilaterali (ma che tanto bilaterali non sono, se sono sempre a perdere) con la borghesia. Rifiutano di far fronte unico contro i capitalisti, finendo con l’avere i propri interessi di casta come priorità – anche lì subendo colpi su colpi via via che si erode la loro stessa base operaia, le loro stesse organizzazioni. Interessi che in parte coincidono con quelli della classe dominante stessa, con la quale vanno a braccetto quando si tratta di impedire scioperi e ostacolare il movimento operaio.

Il conflitto di classe si rinnovò con il Biennio Rosso il quale pose la questione su chi esercitasse il potere nelle fabbriche; potere che, naturalmente, i padroni non intendevano in alcun modo cedere alla classe operaia. La guerra di classe che il proletariato torinese e del Nord Italia portò avanti dimostrò quanto le masse lavoratrici considerassero importanti le nuove istituzioni che esse stesse avevano forgiato, difendendole attraverso ogni strumento di lotta a loro disposizione. Il movimento torinese, isolato politicamente e materialmente, si esaurì col passare dei mesi, ed è in questa situazione che le due parti sociali arrivarono a un compromesso. Fu una sconfitta per il movimento operaio, il quale si preparava a subire l’avvento delle violenze fasciste. Un evento che sconvolse la vita di Gramsci e gli equilibri dell’intero movimento, i quali furono travolti dai fatti senza aver avuto la possibilità di reagire, trovandosi contro borghesia, Stato e fascisti. Proprio nel 1921, passato il culmine della lotta di classe nel paese, la lotta politica di Gramsci e delle sinistre del PSI sfociava nella fondazione del Partito Comunista d’Italia. In un frangente in cui il Biennio Rosso era già appassito, dopo uno sciopero di un mese alla FIAT, Gramsci scriveva, nell’articolo Uomini di carne e ossa sull’Ordine Nuovo dell’8 maggio ‘21:

Non c’è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle più dure necessità, che ha la responsabilità dell’esistenza di una popolazione di quarantamila persone, non si può domandare di più a questi compagni che sono tornati al lavoro, tristemente, accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere più oltre o di reagire.

Parlando con elementi che criticano da destra la figura di Gramsci, è possibile sentire accusarlo di essere un uomo politiche “filosofeggiava ma non agiva”.

La storia fortunatamente ci dimostra non solo quanto quest’affermazione sia errata e sconsiderata, ma anche che Gramsci accompagnava una vasta conoscenza teorica con una prassi politica ben al di sopra della routine “socialista” della sua epoca, sia sul piano della strategia che delle relazioni con la classe operaia. Antonio Gramsci può e deve ancora essere un elemento importante dell’eredità storico-teorica del movimento operaio italiano, che si trova ad affrontare numerose lotte contro Stato e padroni, e che ha la necessità di acquisire sempre più consapevolezza del suo ruolo politico nella società intera.

Edoardo Stratos

 

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