Il lungo tira e molla tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, per la definizione del programma del governo Conte bis, è terminato con un accordo complessivo, anche sulle nomine dei ministri, cosa che ha permesso al nuovo governo di giurare già ieri mattina, e di chiedere la fiducia a Camera e Senato rispettivamente lunedì e martedì prossimi. Il M5S, prima di concludere definitivamente l’accordo, ha anche sottoposto la scelta di partecipare a un governo Conte bis con il PD al voto sulla propria piattaforma digitale Rousseau, raccogliendo quasi 80.000 voti (su 115.372 iscritti dichiarati) di cui il 79,3% favorevoli.

Contando anche sull’appoggio di Liberi e Uguali e di diversi voti dei gruppi minori, a Montecitorio la squadra di Conte dovrebbe poter contare su una maggioranza con oltre 20 voti di scarto, mentre a Palazzo Madama PD+LeU+M5S hanno solo 162 voti, uno in più della maggioranza assoluta, e saranno dunque decisivi i voti dei gruppi minori, che dovrebbero garantire almeno quota 170.

I ministri

Diverse riunioni a geometria variabile tra Mattarella, Conte e i gruppi dirigenti di M5S e PD dedicate alla lista dei ministri del nuovo governo, vero indice forte degli equilibri politici del Conte bis aldilà degli accordi programmatici formali. Proprio la situazione formale del peso elettorale dei partiti al governo – situazione che sicuramente sarebbe cambiata, e non di poco, con elezioni anticipati – ha determinato l’assegnazione di 9 ministeri al PD, 9 al M5S, 1 a LeU, 1 (Ambiente) al generale dei carabinieri Sergio Costa (confermato dal governo Conte I), indipendente in quota M5S, e il Ministero dell’Interno, cruciale per mantenere l’equilibrio tra PD e M5S, a Luciana Lamorgese, apartitica, già prefetto di Venezia e e Milano, e Consigliere di Stato durante l’ultimo governo. I nuovi ministri sono i seguenti:

Federico d’Incà (M5S)– Rapporti con il Parlamento;

Paola Pisano (M5S) – Innovazione tecnologica e la digitalizzazione;
Fabiana Dadone (M5S) – Pubblica amministrazione;
Francesco Boccia (PD) – Affari regionali e le autonomie;
Giuseppe Provenzano (PD) – Sud;
Vincenzo Spadafora (M5S) – Politiche giovanili e sport;
Elena Bonetti (PD) – Pari opportunità e la famiglia;
Enzo Amendola (PD) – Affari Europei;
Luigi Di Maio (M5S) – Esteri;

Luciana Lamorgese (Indipendente) – Interno;
Alfonso Bonafede (M5S)– Giustizia;
Lorenzo Guerini (PD)– Difesa;
Roberto Gualtieri (PD) – Economia e Finanze;
Stefano Patuanelli (M5S) – Sviluppo economico;
Teresa Bellanova (PD) – Politiche agricole alimentari e forestali;
Sergio Costa (Indipendente quota M5S) – Ambiente;
Paola De Micheli (PD) – Infrastrutture e trasporti;
Nuncia Catalfo (M5S)– Lavoro e politiche sociali;
Lorenzo Fioramonti (M5S) – Istruzione;
Dario Franceschini (PD) – Beni culturali e turismo;

Roberto Speranza (LeU) – Salute.

Diverse le conferme in campo M5S di esponenti già ministri o sottesgretari, con il caso notevole di Di Maio spostato agli Esteri: ministero in sé fondamentale, ma che verosimilmente sarà eterodiretto, data la totale impreparazione di Giggino e la sua già dimostrata disponibilità a sottomettersi agli interessi dei capitalisti operanti all’estero, come nel caso della scomparsa di Giulio Regeni in Egitto, dove le ragioni del business italiano prevalsero sulla ricerca della verità e delle responsabilità del governo egiziano.

Se, da una parte, per il Sud è ministro Provenzano del PD, addirittura proclamatosi “socialista” nel suo ultimo libro “La sinistra e la scintilla”, la linea liberale e aderente al partito dell’ordine e di Confindustria è garantita da altri ministri PD come la De Micheli e Gualtieri, già noti per essere politici borghesi “affidabili” e, nel caso di Gualtieri, con abbondante esperienza di lavoro comune con i politici europei e la burocrazia dell’UE, avendo partecipato addirittura alla squadra che convinse i vari governi nazionali nell’UE ad adottare le norme sui bilanci note come Fiscal Compact.

Alcune ingenue speranze ha alimentato, finché non ha aperto bocca, il ministro Lamorgese: a neanche 48 ore dal giuramento ha già confermato che sì, ci deve essere più umanità, ma i porti devono rimanere chiusi come ha stabilito Salvini: proprio sul terreno dove ideologicamente si è consumata la battaglia più soda tra PD e Lega, si promette già che non ci sarà proprio nessuna svolta rispetto alle politiche e alle leggi che avevano fatto gridare – inopportunamente – al fascismo ormai alle porte. In questo senso, anche il ministro Boccia ha chiarito che non si scatenerà una guerra sulla questione dell’autonomia differenziata:

L’autonomia è dentro la Costituzione. La faremo rigorosamente rispettando la costituzione. C’è già un punto d’incontro su questa tema.

Si vuole così evitare di far schierare il PD del nord contro la nuova (e fragile) maggioranza zingarettiana, e dovendo seguire un progetto tardo-leghista che rischia seriamente di indebolire l’assetto istituzionale italiano così come si è evoluto con l’Unità e la carta costituzionale, a favore di una divisione non solo sostanziale-economica, ma anche giuridico-formale fra un’Italia del centro-nord più collegata al capitale tedesco ed europeo, e un’Italia centro-meridionale economicamente più debole e possibile nuova terra di conquista per capitali (più o meno) connazionali e (soprattutto) stranieri in uno scenario che sia più simile a quello delle Zone Economiche Speciali, deregolamentate, con cui la Cina ha fatto scuola nel mondo.

Il ministro Teresa Bellanova, invece, è stata subito oggetto di attacchi mediatici, ormai “di rito” da diversi anni, per la sua istruzione che si ferma alla licenza media: ancora una volta, da settori di ceto medio impiegatizio e “intellettuali” (necessariamente con le virgolette, in questo caso) si alternano un odio pseudo-classista contro i poveri incolti a un assordante silenzio sul fatto che sì, Bellanova ha la terza media e da ragazza ha fatto la bracciante, ma per decenni è stata una dirigente, una burocrate socialdemocratica della CGIL, e poi una militante d’altro rango del PD: quest’ultimo “dettaglio” non crea nessun problema, non genera nessuna critica da parte di differenti settori della sinistra democratica, nemmeno fra quelli che già attaccano Bellanova su altri terreni ben meno seri.

 

La vittoria di Conte e Di Maio e la (ir)resistibile ascesa del PD

Se la sfiducia depositata dalla Lega aveva rischiato di far spalancare l’abisso sotto il M5S, i suoi parlamentari e i suoi ministri – che ben sapevano di non poter più ottenere un terzo dei voti in elezioni da tenersi in ottobre o novembre -, si può dire che i due frontman mediatici del MoVimento, Conte e Di Maio, riportano una vittoria tattica che non era scontata: poter rimanere al governo come partito “di maggioranza” mantenendo la presidenza del consiglio dei ministi, sulla scia della nuova popolarità di Conte, fino a poche settimane un semi-sconosciuto, burattino di Salvini, per la maggior parte degli italiani.

In questo, il M5S ha potuto contare sulla crisi interna del PD, che ha sofferto forti tensioni interne al fine di capitalizzare la polarizzazione anti-Salvini alle urne (posizione che era dello stesso segretario Zingaretti) e ha rischiato una scissione dei renziani verso un partito “di centro” liberale (ancora possibile, anche nell’arco di pochi mesi): questa situazione ha depotenziato il ruolo del PD nelle trattative come principale partito della borghesia in Italia, fedele ai patti europei e NATO e con una tradizione più che decennale (senza contare i suoi partiti antenati) di politiche anti-operaie. Se, dunque, per la geometria politica dei grandi partiti italiani di oggi, era pressoché inevitabile coinvolgere il PD in un governo che evitasse il voto a breve termine, è anche vero che l’ennesimo governo PD preceduto da una sconfitta elettorale avrà maggiori difficoltà di manovra: non solo per la situazione economica stagnante dell’economia italiana ed europea (senza contare i segnali crescenti che vanno verso una possibile crisi finanziaria globale nel prossimo futuro), ma anche per la convivenza con un partito sì ormai governista, ma politicamente instabile e fino a ieri nemico giurato come il M5S. Se i renziani nel PD dovranno valutare seriamente come giocare le loro carte per non venire semplicemente marginalizzati e messi in minoranza anche tra le truppe parlamentari, nel M5S quel 20 e poco più per cento di contrari a questo governo potrebbe diventare qualcosa di più ampio e profondo nel sicuro logoramento che questo governo affronterà nel dover formulare una finanziaria che, a colpi di tagli, tenterà di non far aumentare l’IVA e di rimanere nei parametri stabiliti dall’UE.

Certo è che, per ora, Di Maio e Conte hanno cantato vittoria; il primo, in una conferenza stampa alla Camera, ha dichiarato:

Il numero record di cittadini che partecipato a questa votazione ha votato per la stragrande maggioranza per il sì alla nascita di un nuovo governo con il presidente del consiglio Giuseppe Conte con una coalizione in cui il Movimento 5 Stelle sarà la forza politica di maggioranza. E’ un voto plebiscitario, l’80% ha votato per il sì. Io credo che dobbiamo essere molto orgogliosi del fatto che tutto il mondo ha aspettato la pronuncia di questi 80.000 cittadini italiani hanno votato su una piattaforma digitale che è un unicum al mondo. […] Il programma di governo è terminato, ci sono i 20 punti su cui ho alzato la voce. […] […] Se noi abbiamo un programma per cui servono tre anni per essere realizzato, allora chi vuole tradire quel programma se ne prenderà la responsabilità – non davanti a Di Maio, al Movimento 5 Stelle, al Parlamento, ma a tutto il popolo italiano. […] L’esperienza di questo agosto dev’essere un monito per tutti coloro che credono di poter utilizzare il consenso degli italiano per giochi di partito, interessi di partito: alla fine gli italiani ti puniscono sempre, e la storia pure ti punisce.

Conte, ribadendo una linea che almeno a livello ideologico e retorico non può adagiarsi a un ritrovato nordismo, specie in un governo con una maggioranza di ministri meridionali, ha chiuso così l’annuncio della lista dei ministri:

Forti di un programma che guarda al futuro, dedicheremo con questa squadra le nostre migliori energie, le nostre competenze, la nostra più intensa passione a rendere l’Italia migliore nell’interesse di tutti i cittadini, da nord a sud.

La destra promette opposizione

I vecchio centrodestra vede una maggiore presa di distanze di Forza Italia come partito liberale, democratico e “ragionevole” contro le schegge impazzite del sovranismo leghista che hanno “consegnato il paese al governo più a sinistra della storia della Repubblica”, come ha dichiarato, senza alcun senso del pudore, Silvio Berlusconi, che d’altronde considera il M5S un partito “della sinistra pauperista”, infastidito in effetti dal successo del borghese Casaleggio senior nel radunare un così ampio numero di membri dei ceti medi impiegatizi e della piccola borghesia in una forza con un elettorato enorme e un certo grado di autonomia, quantomeno formale, dal grande capitale.

Ciò non toglie che ci sia un’opposizione comune frontale contro PD e M5S, che rivendica la natura “antidemocratica” del nuovo governo (che però rispetta pienamente l’assetto costituzionale italiano) e elezioni prima possibile.

Il governo delle poltrone, dei riciclati e dei poteri forti europei non avrà vita lunga. Opposizione in Parlamento, nei comuni e nelle piazze, poi finalmente si vota e… si vince!!! Io non mollo e non mollerò mai Amici, per me viene prima l’onore dei ministeri.

Così ha commentato su Twitter Matteo Salvini, aggiungendo a Radio Anch’io:

È il primo governo italiano che nasce a Bruxelles, con un ministro dell’Economia, professore di storia, che arriva direttamente da Bruxelles, con un ministro della Salute senza nessuna esperienza di sanità, con un ministro dei Trasporti senza nessuna esperienza di trasporti e con un ministro dell’Istruzione che ha detto che per aumentare gli stipendi dei professori bisogna tassare le merendine e le bibite gasate: ecco, se partiamo dalla tassa sul chinotto, ci sarebbe da sorridere se non ci fossero di mezzo gli italiani. […] Contro questo governo faremo opposizione in parlamento e in Italia, dove siamo maggioranza, con i nostri sindaci e governatori.

Alla domanda del perché non intende scendere in piazza con Fratelli d’Italia, Salvini ha risposto:

Quando ci sarà la fiducia ci saremo. Poi saremo a Pontida domenica 15 settembre e a Roma sabato 19 ottobre. Ci saremo. Hai voglia che ci saremo. Noi non siamo i centri sociali, noi portiamo le mamme e i papà in piazza, non i delinquenti di sinistra che tirano le molotov ai poliziotti. Noi siamo un’altra roba.

Insomma, per la Lega, centrodestra sì, ma in una dialettica che, più che una pace e un’alleanza, pare una tregua armata.

Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia ha invece dichiarato su facebook, associandosi alla definizione berlusconiana di “governo più a sinistra di sempre”:

Ha ragione Di Battista: con il voto del 4 marzo 2018, l’unica cosa certa era che gli italiani non volevano il ritorno del PD al Governo della Nazione. Grazie M5S! Sentivamo proprio la mancanza di Renzi, Gentiloni e compagnia bella.

La reazione del grande capitale

L’accordo del PD col M5S, un partito ormai diventato “ragionevole” agli occhi della classe dominante ma non ancora organico a essa, ha rassicurato i mercati e gli investitori sull’affidabilità di questo governo: aldilà dei proclami e dei punti programmatici (su cui ci soffermeremo), la consolidata linea neoliberale del PD permetterà di continuare quelle politiche e quelle riforme necessarie per sottrarre ulteriori risorse allo stato sociale, erodere le condizioni di vita della gran massa della popolazione e permettere migliori condizioni di investimento e profitto, così da “rilanciare il paese” nella retorica nazionalista trasversale dei discorsi politici, che non ha trovato né sta trovando un’opposizione concreta nelle burocrazie dei grandi sindacati i quali, anzi, da tempo si agitano principalmente per poter essere incluso in un nuovo “patto tra produttori” promosso e benedetto dal governo, così da garantire lo sviluppo e il destino non già dei lavoratori, quanto della riproduzione del capitale in Italia.

In particolare, l’allontanamento dell’ipotesi di elezioni subito ha visto un calo dello spread, sceso sotto i 150 punti, una ripresa dell’acquisto dei titoli di Stato italiani (con il loro rendimento ai minimi storici, segno di maggiore affidabilità”percepita) e buoni risultati, tra ieri e giovedì, per l’indice Ftse Mib di Milano (solo ieri un +1,58%), guidati dalle banche italiane Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banco Bpm, Bper, Ubi e Mps, e da gruppi industriali come Atlantia (la principale azienda italiana e mondiale di gestione autostrada, controllata dai Benetton, che gode della conferma del ministro De Micheli che non saranno revocate le concessioni autostradali), Pirelli e FCA.

Infine, anche dai sacerdoti europei del capitale è arrivato un segnale di soddisfazione; il vicepresidente della Commissione UE Frans Timmermans ha dichiarato:

Penso che sia un bene che ci sia un governo chiaramente impegnato su una linea pro-Ue per trovare soluzioni comuni con il resto dell’Unione. Sono pronto a lavorare con il nuovo governo italiano.

Una presa di posizione che tiene conto dell’indicazione, da parte del governo Conte bis, di Paolo Gentiloni, ex-premier nel 2016-18 con il PD, come membro italiano della Commissione.

Il programma

Certo, evitare le elezioni, salvare poltrone e vitalizi, poter governare anche fino al 2023: ma per fare cosa? La risposta formale a questa domanda, che mai coincide con quella reale che viene poi data su pressione dei capitalisti di cui abbiamo appena parlata, è un programma di governo di 29 punti, che comprende tutti 20 punti iniziali proposti dal M5S e che sono stati oggetto di una intensa e concitata trattativa. L’obiettivo dichiarato del governo, dunque, è quello di durare per tutto il resto della legislatura, oltre tre anni: un periodo che già in sé sarebbe anche troppo breve per realizzare tutte le promesse del programma del Conte bus.

Sul piano economico, se in generale è vero che il governo a trazione Lega non aveva per nulla rotto con l’ottica neoliberale che fa da spirito del mondo dei governi in Italia e all’estero, ci si può aspettare che venga almeno in parte tagliato il Reddito di Cittadinanza (misura già prevista nella stessa legge del RdC) e che venga ridiscusso il programma di adozione di una flat tax elaborato dalla Lega: i 23 miliardi che servono per evitare l’aumento dell’Iva saranno probabilmente integrati anche dal mancato abbassamento dell’Irpef specifico per piccoli proprietari e partite Iva; l’aliquota “speciale” potrebbe valere solo per quanto riguarda il 2019. In compenso, è annunciata una revisione del cuneo fiscale “tutta a favore dei lavoratori”, cosa che invece probabilmente avrà come esito un aumento di tasse e imposte che compenserà o supererà l’aumento della busta paga: il mancato rialzo generale dei salari garantirà comunque che non aumenti la quota salari sulla ricchezza prodotta, mentre ulteriori, probabili se non sicure, detassazioni alle imprese permetteranno a queste, loro sì, di arricchirsi, in primis a spese dei lavoratori.

Le misure nel campo del lavoro proseguono con altri nove punti che includono “una retribuzione giusta (cosiddetto ‘salario minimo’)” – vogliamo credere sulla parola a PD e M5S quando dicono che una loro legge sarebbe su un cosiddetto salario minimo, una misura che probabilmente farebbe abbassare i salari di una maggioranza, più che alzare quelli di una minoranza; la garanzia sull’efficacia erga omnes, verso tutti, dei contratti collettivi nazionali, se da una parte potrebbe impedire accordi-farsa a sigle sindacali posticce e totalmente fuori dal controllo dallo Stato e dai settori centrali della borghesia, rischierebbe dall’altra di sancire la totale nullità giuridica degli accordi firmati dai sindacati di base, specie tenendo conte che nel programma si prevede anche una “legge sulla rappresentanza sindacale, sulla base di indici rigorosi”, che possiamo immaginare “rigorosi” rispetto al fatto di escludere il più possibile il sindacalismo combattivo da qualsiasi riconoscimento formale.

Si parla di misure a favore dei lavoratori non assunti come dipendenti diretti, con esplicito riferimento ai rider delle app (che però non possono che lamentarsi del sostegno ben poco efficace ricevuto da Di Maio quando era ministro del lavoro), di parità di genere nella retribuzione, cosa che troverebbe senz’altro una feroce opposizione anche dai padroni più “liberali”, dato che il loro progressismo finisce dove si inizia a intaccare i loro (super)profitti.

In generale, il programma di governo prospetta un paese dove si possa aumentare, perlomeno in alcuni settori (come formazione, turismo, difesa, infrastrutture), la spesa pubblica, in un clima di rilancio dell’industria italiana che abbia al suo centro un Green New Deal, un grande piano di riconversione e sostenibilità ecologica, reso possibile da una modernizzazione e razionalizzazione economica dello Stato, dalla spending review che “va completata, alla conferma dell’autonomia differenziata ma “cooperativa” e attenta a non allargare il divario nord-sud (anche se si prevedono ZES proprio come in Cina: non proprio modelli di arricchimento della popolazione locale!), alla revisione del sistema fiscale, alla lotta all’evasione e alla mafia, al rafforzamento dell’export basato sul rilancio delle eccellenze anche in campo agricolo-alimentare.

Un insieme di “buoni propositi” vaghi che, abbandonando la retorica “filo-operaia” di cui rimanevano tracce nel PD, sono perlopiù esplicitamente rivolti a creare un miglior ambiente di investimento per le aziende, e che non casualmente non dicono una parola concreta e precisa contro i tagli devastanti in corso da anni nella sanità e nella pubblica istruzione (dove NON si parla del concorso d’assunzione dei docenti, rimandato due anni fa dallo stesso PD!), né si accenna alla rimozione delle peggiori leggi repressive e anti-operaie recenti – anche perché in buona parte sono state ideate o votate dal PD e dal M5S.

La nostra opposizione: nessuna illusione nel Conte bis

Proprio le sirene del clima di novità, e di “scampato pericolo” rispetto a elezioni che avrebbero con ogni probabilità consegnato il governo al centrodestra con una Lega molto forte, unite ad alcune proposte apparentemente progressiste e “popolari” del nuovo programma di governo, stanno già attirando settori popolari e dei movimento contro gli scogli mortali delle vere politiche neoliberali, anti-popolari e di austerità che il PD, potendo contare sul sostegno del M5S che non ha nessun interesse ora a rompere il nuovo patto di governo, riprenderà a mettere in atto dopo la breve stagione all’opposizione.

Il fatto stesso che la linea sull’immigrazione rimanga quella di “nuovi patti europei” per la mera correzione della politica dei flussi, cioè della politica dei lager in Libia, dei morti in mare, dei patti coi capi militari e politici più reazionari del Mediterraneo, dei superprofitti per le aziende europee in Africa, ci dice che il ritrovato europeismo del M5S e del governo non è che l’altra faccia delle politiche antioperaie e antipopolari del sovranismo della Lega e di altri partiti europei: nessuno dei due è un “male minore” accettabile e contro il quale sospendere l’opposizione e la lotta sociale dei lavoratori, delle donne, della gioventù, degli immigrati.

In questo senso, non si può avere nessuna fiducia nell’annuncio di una grande “svolta” da parte del PD, così come il M5S ha già ampiamente dimostrato che la priorità non è aprire come una scatoletta di tonno il Parlamento, ma instaurarvisi e rimanervi il più a lungo possibile: da questi partiti non solo non viene alcuna soluzione generale alle condizioni di vita della popolazione sfruttata e oppressa, ma nemmeno verranno grandi riforme e garanzie di progresso verso un capitalismo sostenibile e verde, che non è mai esistito e mai esisterà, mentre continuerà a esistere la corsa generale e spietata al profitto dei capitalisti, nella quale ogni criterio di salvaguardia della specie umana e dell’ecosistema mondiale viene messo in questione a colpi di disastri economici, ambientali, militari.

Il Governo Conte bis non fa eccezione: per questo è necessaria una mobilitazione indipendente, unitaria, internazionalista del movimento operaio, del movimento delle donne, degli studenti, degli immigrati e di tutti gli oppressi con una nostra agenda politica, non dettata dalle multinazionali e dalle banche, e una nostra proposta di uscita anticapitalista dalla crisi, contro il nazionalismo sovranista che ci vuole divisi, e contro l’unione dei capitalisti europei. I nostri alleati sono i protagonisti delle lotte operaie e popolari in Europa e in tutto il mondo, non i nostri sfruttatori “connazionali” o i burocrati di Bruxelles!

Giacomo Turci

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.