Come femministe rivoluzionarie siamo convinte che conoscere la nostra storia, riappropriarci delle nostre battaglie e vittorie, ma soprattutto delle parole d’ordine che ci hanno permesso di essere le protagoniste della storia delle rivoluzioni, sia fondamentale. 

Con questo spirito, nel contesto di mobilitazione verso l’8 marzo vogliamo ripercorrere i passi storici e teorici delle femministe socialiste che ci hanno preceduto, in particolare nella rivoluzione russa: non solo per ricordarle, ma per seguire il cammino da loro intrapreso, con lo stesso obiettivo – l’emancipazione della donna dall’oppressione patriarcale, e di tutta l’umanità dallo sfruttamento.


L’8 marzo e oltre: il ruolo delle bolsceviche nella rivoluzione russa

L’idea che la lotta di classe, la lotta politica per il socialismo e quella per l’emancipazione della donna fossero profondamente legate è stata uno dei pilastri del successo dei comunisti russi un secolo fa. Non fu solamente un’idea, ma la base di un’energica attività tramite la quale diedero grande prova di sé, in primis, le militanti bolsceviche.

Prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale nel 1914, il partito bolscevico cominciò a pubblicare, proprio l’8 marzo, il giornale Rabotnitsa (La donna lavoratrice), con una redazione che includeva Nadezhda Krupskaia e Inessa Armand. Dopo 7 numeri, fu soppresso dal governo nel giugno 1914, riprendendo le pubblicazioni nel 1917, alla vigilia della rivoluzione. La segretaria del giornale era Nina Agadzhanova: unitasi ai bolscevichi nel 1907 e militante del comitato di partito del quartiere di Vyborg, a San Pietroburgo. Fu arrestata e mandata in esilio nel 1916, ma scappò e tornò nella capitale (cui lo zar aveva intanto cambiato nome in Pietrogrado per eliminare la radice tedesca del nome), dove riuscì ad entrare per lavorare in una fabbrica metallurgica. Quando Lenin tornò in città nell’aprile 1917, Nina faceva parte della delegazione dei lavoratori di Vyborg che lo aspettava alla stazione finlandese. Fu inoltre una dei rappresentanti del distretto al Soviet di Pietrogrado, particolarmente impegnata in un’intensa attività di organizzazione e agitazione tra febbraio e ottobre.

Quando alcune dirigenti bolsceviche come Samoilova, Krupskaia e Stal arrivarono a Pietrogrado dall’esilio, non dovettero ricominciare da capo: era già presente un gruppo di donne bolsceviche molto attive, tra cui Vera Slutskaia, che lavorava come segretaria del partito in un quartiere operaio. Questa aveva proposto di ristampare la Rabotnitsa e creare un comitato speciale per coordinare il lavoro tra le donne. 

Un ritratto di Alexandra Kollontaj, bolscevica russa, prima ministra della storia dell’umanità in seguito alla rivoluzione.

Sin da prima della rivoluzione di febbraio, propagandare le idee della rivoluzione alle donne era un compito strategico secondo tutta l’Internazionale Socialista, non solo per i bolscevichi. Ne fa testimonianza il discorso che Clara Zetkin (1896) tenne nell’ottobre 1896, durante il Congresso del Partito socialdemocratico tedesco a Gotha. Lì, la rivoluzionaria sostenne che la lotta per l’emancipazione delle donne era legata alla lotta per il socialismo, e che per questo motivo era fondamentale diffondere l’agitazione socialista [1] tra le donne e promuovere la loro organizzazione sindacale. Al discorso rispose duramente un socialista inglese, Belfort Bax, noto per le sue posizioni misogine. Come argomento d’autorità, Bax cercò di contrastare ciò che Zetkin sollevava poggiandosi sulle posizioni di Engels ne “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” [2]. Eleanor Marx (1896), la figlia più giovane di Karl Marx, personalmente molto vicina a Engels, rispose pubblicamente a Bax, ribadendo che le posizioni di Engels e Zetkin erano collegate: la lungimiranza dei militanti rivoluzionari non fu negata dalla prova della rivoluzione, come vedremo.
8 marzo 1917. Manifestazioni e raduni di donne furono convocati a Pietrogrado in questa giornata. Il malcontento era diffuso e si prevedevano proteste di massa, ma nessuno avrebbe immaginato che quel giorno sarebbe scoppiata una rivoluzione, passata poi alla storia come “rivoluzione di febbraio”, in quanto il calendario giuliano, allora in vigore in Russia, retrodata di 13 giorni quello giuliano.

I censimenti del 1897-1914 mostrano che vi erano 20 milioni di donne nella forza-lavoro salariata dell’impero russo. Circa la metà era impegnata nelle faccende domestiche e un quinto (4 milioni) erano lavoratrici industriali prima del 1914 (comprese fabbriche, servizi e trasporti). Un dato, quest’ultimo, che aumentò considerevolmente negli anni ‘10, raggiungendo 7,5 milioni di lavoratrici nel settore; nel 1917, le donne costituivano ormai il 47% della forza-lavoro a Pietrogrado. 

L’enorme e caotico sforzo di mobilitazione dell’impero russo per partecipare allo scontro imperialista della Prima Guerra Mondiale aveva provocato non solo l’esodo di milioni di contadini dalle campagne più remote verso le trincee, ma anche la penuria di lavoratori urbani e industriali, sia per via del reclutamento stesso, sia per la straordinaria spinta alla crescita della produzione, trainata dall’industria militare. Così, la classe dominante si trovava costretta, in Russia come altrove, a integrare le donne nell’industria e nell’economia formale come mai era successo prima, offrendo loro contraddittoriamente un nuovo trampolino per il loro protagonismo sociale, e la possibilità di attaccare con forza il capitalismo direttamente nel suo punto vitale per eccellenza, le fabbriche.

Ma torniamo ora alla Pietrogrado che va verso l’8 marzo 1917.
Il pane scarseggiava nelle città e le condizioni dei poveri erano insostenibili. Nei primi due anni di guerra, i prezzi delle materie prime erano aumentati del 131% a Mosca. Nel dicembre 1915, le donne di Pietrogrado facevano la fila per ore a temperature sotto lo zero per comprare zucchero e farina. Ci furono numerose rivolte guidate da donne, in cui la principale rivendicazione era il prezzo del cibo. Nel febbraio 1917 la rabbia repressa si trasformò in azione.

Un editoriale della Pravda, il quotidiano del partito bolscevico, riportava una settimana dopo che “le donne sono state le prime a scendere in piazza a Pietrogrado nella loro giornata internazionale. Le donne di Mosca in molti casi hanno determinato l’umore dei soldati; sono andate nelle caserme e li hanno convinti a schierarsi con la rivoluzione. Viva le donne!”

Il 5 marzo [3] 1917, Maria e Anna Ul’janova scrissero sulla Pravda:

Il 23 febbraio, giornata internazionale della donna, è stato dichiarato uno sciopero nella maggior parte delle fabbriche e degli stabilimenti. Le donne erano in uno stato d’animo molto militante – non solo le lavoratrici, ma le masse di donne che facevano lunghe file per pane e cherosene. Hanno organizzato manifestazioni politiche, sono scese in piazza, si sono mobilitate presso la Duma chiedendo il pane, hanno fermato i tram. “Compagni, fuori!” gridavano con entusiasmo. Sono andate nelle fabbriche e hanno chiamato gli operai ad unirsi allo sciopero. Nel complesso, la giornata internazionale della donna è stata un grande evento che ha alimentato lo spirito rivoluzionario

In una settimana lo zarismo crolla, i ministri fuggono e i deputati della Duma [il parlamento russo] formano un governo provvisorio, guidato dal principe L’vov. Dal basso nasce un altro potere, quello dei consigli dei delegati della classe operaia, a cui si aggiungono i comitati dei contadini e dei soldati.  Questi organismi erano emersi per la prima volta nella rivoluzione del 1905 come una nuova forma di autorganizzazione democratica dalla base, i soviet. Il grande merito dei bolscevichi fu quello di intuire come questi consigli potessero essere molto di più che un organo di protesta, lotta e “controllo dal basso”: i soviet potevano essere la forma concreta di una forma di democrazia superiore, la democrazia operaia, che avrebbe costituito l’ordine politico del socialismo, superando le vecchie istituzioni della democrazia borghese, già corrotta e in mano al grande capitale e ai ricchi fin dalla sua nascita nei paesi dove si affermava in ritardo, come in Russia. I soviet finalmente rompevano la delega del potere politico a una piccola élite, permettendo l’autogoverno della classe lavoratrice e della popolazione povera, permettendo di migliorare e rivoluzionare in modo permanente ogni aspetto della vecchia società decadente.

Una degli innumerevoli protagonisti di questo fermento citata dalla storica Barbara Evans Clements (1982), Polia, lavorava come domestica in un ospedale militare, era analfabeta e partecipò per la prima volta a una votazione quando venne eletta nel comitato esecutivo del soviet dei dipendenti ospedalieri. Evans Clements afferma giustamente che, come molte donne lavoratrici, Polia sentiva di non avere nulla da perdere e tutto da guadagnare dalla rivoluzione, a cominciare dalla sua dignità. Fu così anche per la appena ventiduenne Aleksandra Rodionova, macchinista di tram nel febbraio 1917. La sua testimonianza diretta della rivoluzione di febbraio è stata poi raccolta dalle storiche delle donne in Russia. 

Come abbiamo già detto, molte donne avevano intrapreso professioni tradizionalmente “maschili” durante la guerra, mentre milioni di uomini erano al fronte. 

Nel luglio 1917, dopo le giornate di insurrezione contro il governo provvisorio, quest’ultimo lanciò una campagna di repressione contro i bolscevichi, imprigionando vari dirigenti, tra cui Trotsky, e costringendo Lenin alla clandestinità. Per impedire al governo di disarmare i lavoratori bolscevichi, la Rodionova nascose più di 40 fucili in un deposito segreto. In ottobre, quando i bolscevichi stavano preparando l’insurrezione, fu responsabile dei tram che trasportavano armi in partenza dal deposito. Si occupò anche di mantenere operativo il servizio nella notte tra il 25 e il 26 ottobre, per collaborare alla presa del potere. Quel giorno si unì al distaccamento sanitario della difesa della città, nel quadro dell’attività significativa delle bolsceviche attorno e dentro la vita militare: dal 1905 e durante la guerra, diffusero le idee rivoluzionarie anche fra i ranghi dell’esercito, come parte del lavoro preparatorio del loro partito verso la rivoluzione stessa. Dopo la presa del potere, molte di loro si arruolarono nell’Armata Rossa per difendere le conquiste della Rivoluzione. Secondo Kollontaj, alla fine della guerra civile vi erano 66.000 donne nell’Armata Rossa, mentre circa 1.850 erano morte in combattimento. 

Tornando al 1917, il 18 marzo, un’assemblea di operaie di quattro grandi fabbriche decise di invitare le loro sorelle a unirsi nella lotta per i loro diritti, al fianco dei lavoratori. All’inizio di aprile, 40.000 donne si mobilitarono a Pietrogrado, rifiutandosi di lasciare le strade fino a quando non fosse stato approvato il diritto di voto, strappando il 20 luglio dello stesso anno, al governo provvisorio di Kerenskij, appena subentrato a L’vov, l’impegno di consentire il voto a tutte le donne di età superiore ai 20 anni nella futura assemblea costituente. 

L’impazienza per le promesse non mantenute del governo provvisorio però crebbe senza sosta. Le vedove e le mogli dei soldati marciarono per chiedere un aumento delle pensioni e la definitiva fine della guerra. A maggio, 40.000 lavandaie guidarono il primo grande sciopero contro il governo provvisorio, chiedendo salari più alti, una giornata lavorativa di 8 ore e migliori condizioni. 

Eugenia Bosh, Inessa Armand e Aleksandra Kollontaj furono tra i dirigenti bolscevichi di spicco che in quei mesi si occuparono di pronunciare discorsi a operai e soldati, scrivere articoli, organizzare incontri e collaborare all’organizzazione della rivoluzione. Aleksandra Kollontaj si dedicò a sostenere lo sciopero dell’8 marzo insieme ad altri militanti; Sof’ia Goncharskaia, che nel 1905 era stata una figura chiave nella creazione del sindacato delle lavandaie, nel maggio 1917 fece il giro di tutte le lavanderie, sparse per la città, per coinvolgere nel movimento quante più lavoratrici possibile.

Pace, pane e terra: in tutto il vecchio impero russo, operai e contadini sono mobilitati, nel periodo tra la rivoluzione di febbraio e quella di ottobre, da queste rivendicazioni, che cozzano contro la politica del governo provvisorio. È questa profonda radicalizzazione sociale che consente ai bolscevichi di conquistare la maggioranza dei soviet tra settembre e ottobre e di dare l’assalto al cielo, guidando la rivoluzione d’ottobre che stabilisce quello dei soviet come unico potere politico sovrano nel paese. I primi decreti del nuovo governo sovietico sono infatti l’appello alla pace immediata, la nazionalizzazione delle terre e la loro consegna ai contadini.

Il grande successo del legame tra politica socialista e emancipazione delle donne nella Russia dei soviet

La rivoluzione russa del 1917, d’altra parte, concesse alle donne conquiste che fino ad allora non erano state ottenute in nessun paese capitalista. Nel suo libro Women, the State and revolution, la storica americana Wendy Goldman (1993) afferma che il Codice sovietico del 1918 “non costituì né più né meno che la legislazione familiare più progressista che il mondo avesse mai visto. Ha abolito lo status giuridico inferiore delle donne e ha creato l’uguaglianza secondo la legge“. Il Codice stabiliva il divorzio su semplice richiesta di una delle parti e “spazzava via secoli di leggi sulla proprietà e privilegi maschili” abolendo la legittimità e garantendo uguali diritti a tutti i bambini, sia a quelli nati all’interno dell’istituzione matrimoniale, sia a tutti gli altri. 

Nell’agosto 1919, le iscritte al partito crearono lo Zhenotdel (Dipartimento per il lavoro fra le donne), composto da operaie, contadine e casalinghe, per svolgere un lavoro speciale tra le donne, tra le difficoltà della guerra civile. Nel novembre 1920 l’aborto fu legalizzato in Unione Sovietica, attraverso un decreto che denunciava la legislazione criminalizzante di altri paesi.

“Chto dala Oktiabr’skaia revoliutsiia rabotnitse i krest’ianke” (Ciò che la Rivoluzione d’Ottobre ha dato alle donne operaie e contadine), poster sovietico del 1920, raffigura una donna che indossa un grembiule da fabbro, con un martello in mano e una falce ai suoi piedi. Con la mano destra indica edifici con cartelli che recitano “asilo nido”, “biblioteca”, “circolo delle donne lavoratrici”, ecc. Sono state stampate 25.000 copie di questo poster, un’edizione importante.

Alexander Goikhbarg, il giurista marxista di 34 anni che redasse il Codice della famiglia del 1918, sosteneva allora che questa legislazione avrebbe svolto una funzione transitoria, non per rafforzare la famiglia o lo stato, ma per collaborare alla sua “estinzione”, come è concepito nel marxismo il ​​passaggio dal capitalismo al socialismo. Furono anni di intenso dibattito e sperimentazione, dove l’emancipazione della donna, la liberazione sessuale e la trasformazione dei rapporti personali furono concepite come parte della lotta per la costruzione del socialismo. Per arrivare a quel punto però, era necessario raggiungere la piena uguaglianza per le donne, non solo davanti alla legge, ma, soprattutto, davanti alla vita.

Wendy Goldman sottolinea che la concezione bolscevica sull’emancipazione delle donne si basava su quattro pilastri fondamentali: “La libera unione, la liberazione delle donne attraverso il lavoro salariato, la socializzazione del lavoro domestico e il dissolvimento della famiglia” (Goldman 1993: 12). Non si proponeva semplicemente una divisione egualitaria del lavoro domestico tra uomini e donne, ma la separazione di questi compiti dal singolo nucleo familiare e trasferirli nella sfera pubblica, socializzando il lavoro in nuovi rami della produzione. La famiglia, come unità di riproduzione e consumo, perderebbe così alcuni dei suoi fondamenti principali.  Liberare le donne dalla “schiavitù domestica” fu uno dei grandi compiti della rivoluzione. 

La creazione di asili nido, scuole, mense, centri di alfabetizzazione e altre iniziative erano la strada giusta, secondo Lenin, ma tra le difficoltà della guerra civile e della NEP (Nuova Politica Economica), erano del tutto insufficienti, come riporta Clara Zetkin (2019: 62) nelle sue memorie su Lenin:

Sappiamo perfettamente che tutto questo non è molto, rispetto alle esigenze delle masse lavoratrici femminili, che è molto distante dal rappresentare la loro completa ed effettiva emancipazione. Ma, rispetto a quanto stava accadendo nella Russia zarista e capitalista, rappresenta un enorme progresso. E può anche essere paragonato senza paura con la realtà di quei paesi dove il capitalismo regna ancora senza ostacoli e senza controllo. Questo è un buon inizio nella giusta direzione. 

La lotta per l’emancipazione femminile, in un paese con una popolazione all’80% di contadini, ha affrontato antichi pregiudizi e il peso della religione. Per Lenin, “il demone più difficile da combattere” era l’influenza dei sacerdoti nelle campagne, per i quali era necessario attaccare le condizioni di miseria, povertà e mancanza di educazione su cui facevano affidamento. 

Il ‘tradimento’ storico dello stalinismo contro le donne

Gli anni della guerra portarono con sé costi umani e materiali senza precedenti. La giovane Unione Sovietica, attaccata da 14 eserciti stranieri, riuscì a sopravvivere grazie alla resistenza accanita di milioni di operai e contadini. A questo periodo seguirono gli anni duri della NEP, che concedeva spazi di ripresa al libero mercato e all’accumulazione di proprietà privata, con un notevole aumento della disoccupazione. In queste condizioni di estrema difficoltà economica e di isolamento internazionale dell’URSS, dopo la sconfitta della rivoluzione in Europa, la burocrazia stalinista emerse come una nuova casta burocratica di partito a capo dello Stato. Quella burocrazia intraprese un processo di controrivoluzione interna, liquidando fisicamente chiunque le si oppose nel partito bolscevico e nei soviet, e smantellando importanti conquiste della rivoluzione: in questa direzione, a metà degli anni ’30 vi era stata una battuta d’arresto senza precedenti per quanto riguarda la situazione delle donne in URSS. Nel giugno 1936, lo Stato sovietico rese illegale l’aborto, come parte di una campagna per promuovere la “responsabilità familiare”. Con un discorso opposto a quello difeso dai bolscevichi nel 1920, Stalin dichiarò nel 1936: “L’aborto che distrugge la vita è inammissibile nel nostro paese. La donna sovietica ha gli stessi diritti degli uomini, ciò però non la esime dal grande e nobile dovere che la natura le ha assegnato: è madre, dà la vita” (Navailh 1992). Lev Trotsky, uno dei principali leader della rivoluzione, espulso dal partito nel 1927 da Stalin, denunciò le argomentazioni avanzate dalla burocrazia sull’aborto: “Una filosofia da preti che dispone del pugno del gendarme” (Trotsky 2007).
Ma nonostante questa enorme battuta d’arresto, Trotsky non era solo. Molti militanti bolscevichi come Evgenia Bosch, Nadezhda Joffe o Natalia Sedova lottarono nelle file degli oppositori, al fianco di Trotsky, per riprendere lo slancio della rivoluzione, opponendosi alla burocratizzazione dello Stato sovietico.

Il destino di alcuni dei legislatori russi che nel 1920 svilupparono teorie d’avanguardia sull’estinzione dello stato e della famiglia parla da sé: Pashukanis e Krylenko furono arrestati e fucilati nel 1937, mentre l’autore del rivoluzionario Codice del 1918, Alexander Goikhbarg, fu confinato in un ospedale psichiatrico dallo stalinismo. Tra il 1936 e il 1939 furono fucilate 700.000 persone, accusate di opposizione al regime: una controrivoluzione che consolidò il regime burocratico staliniano.

Wendy Goldman sottolinea che non solo il partito comunista ha continuato a presentarsi come l’erede della rivoluzione, ma che “la tragedia più grande di tutte è che le generazioni successive di donne sovietiche diseredate dei pensatori, delle idee e degli esperimenti generati dalla loro stessa rivoluzione, hanno imparato a chiamare questo “socialismo” e a chiamarlo “liberazione” (Goldman 1993: 343).

L’emancipazione delle donne, le rivoluzioni e il femminismo socialista

L’immenso ruolo delle donne nella storia delle rivoluzioni è stato reso invisibile da gran parte della storiografia, ma il loro ruolo è innegabile. La retorica stessa che la questione di genere sia secondaria è un fraintendimento – o un’accurata distorsione – dello stalinismo a favore delle proprie politiche “pro-famiglie”. Infatti le donne non hanno avuto un ruolo centrale solo nella rivoluzione russa: furono le donne a dare il via alla rivoluzione francese, nel 1789 con una marcia per il pane a Versailles. Tuttavia, in Francia la più importante rivoluzione borghese della storia non aveva concesso alle donne gli stessi diritti degli uomini. Le prime pensatrici femministe denunciarono i limiti del progetto illuminista: la “libertà” e la “fraternità” non si applicavano alle donne, né ai lavoratori; l’universalità dei “diritti dell’uomo” erano i diritti dei maschi, e nemmeno di tutti, ma in particolare “dell’uomo egoista, è membro della società civile, ossia individuo ripiegato in sé, nel suo interesse privato e nel suo privato arbitrio, e separato dalla comunità”, come ha sottolineato Marx in Sulla questione ebraica (2010: 143-145) dei cittadini borghesi

Con la rivoluzione francese inizia a svilupparsi il femminismo socialista, sulla base di importanti testi che hanno permesso una rivoluzione copernicana nello studio delle radici storiche dell’oppressione delle donne, tra cui L’origine di Engels. Flora Tristán fu una pioniera di questo percorso, occupando posizione transitoria tra il socialismo utopico e il socialismo scientifico marxista. Nel suo libro L’Union Ouvrière (1843) si spinge fino a delineare una proposta per l’organizzazione sociale e politica della classe operaia e affronta per la prima volta il rapporto tra classe e genere: il terzo capitolo del libro è interamente dedicato alle donne, da lei definite “le ultime schiave” della società francese. Nel suo libro sfida le lavoratrici e sottolinea che non è possibile sostenere un progetto di emancipazione umana senza tenere conto delle donne.

Lo sviluppo di un femminismo socialista e la reale forza e incisione delle donne nella storia preparano la strada per il futuro percorso della rivoluzione nel nostro secolo. Ci permettono di comprendere l’importanza che la questione femminile ha avuto, ha e avrà nell’abbattimento del capitalismo, e quanto possano essere complessi gli obiettivi che le rivoluzioni ci pongono, e che non si limitano alla “sola” espropriazione della classe dominante.

Se continuiamo sulla strada di Engels, non possiamo che affermare che lo sviluppo della proprietà privata ha portato con sé l’oppressione delle donne come elemento strutturale della proprietà paterna, patriarcale, della discendenza. Questa ha fatto sì che si sviluppasse la struttura sociale della famiglia come ancora oggi la conosciamo – nonostante la nostra morale e le norme sociali rispetto ad essa siano cambiate nel tempo. Il mantenimento di una struttura familiare, quindi, con lo sviluppo del capitalismo rimane un pilastro del sistema. L’importanza dell’abolizione della famiglia, per la propria liberazione, era chiara già cento anni fa alle donne; non a caso, come abbiamo già accennato, uno dei più grandi sforzi delle bolsceviche dopo la rivoluzione d’ottobre fu quello di disincentivare, fino a voler abolire, il lavoro domestico, proprio nella convinzione che la collettivizzazione del lavoro di cura scardinasse dall’interno la struttura familiare patriarcale; a differenza della controrivoluzione staliniana degli anni ‘30 dove, nella forma degenerata e repressiva che lo stato operaio assumeva, si recuperava un’ideologia reazionaria che poneva le donne all’interno della famiglia tradizionale come “guardiane della casa”. 

Questa lezione, seppur fondamentale, non è la sola che la rivoluzione russa ci può dare in quanto femministe. Con il capitalismo, le donne iniziano ad essere inserite nel mondo del lavoro in modo massivo: ciò offre la possibilità di emanciparsi almeno economicamente dal marito, ma come la stessa Kollontaj analizza, la tendenza del capitalismo non è quella di permettere passi in avanti senza avere qualcosa in cambio. Di fatti, l’immissione della donna nel mondo del lavoro ha permesso oggettivamente un avanzamento dal punto di vista dell’emancipazione femminile, ma non le ha sollevate dalla oppressione del lavoro domestico o di cura che la società ha continuato e continua a scaricare sulle spalle delle donne, in particolare su quelle delle classi subalterne, cioè coloro che effettivamente vivono la doppia oppressione. Storicamente, il capitalismo ha mantenuto il ruolo tradizionale delle donne nella famiglia e nel lavoro domestico, evitando di riconoscere loro un qualsiasi ruolo pubblico. Ciò è passato anche dalla dipendenza economica della moglie nei confronti del marito, che tradizionalmente riceve tutto il denaro col quale l’intera famiglia sopravvive. Tuttavia l’esigenza del capitale di svalorizzare la forza-lavoro – ma anche la crescita dei bisogni sociali (come ad esempio l’educazione dei figli e la cura degli anziani)  – ha minato la capacità del salario dell’uomo di mantenere l’intero nucleo familiare. Tali aspetti hanno premuto (e tutt’ora premono) nella direzione di una femminilizzazione della classe lavoratrice, in un contesto di forti divari salariali tra uomini e donne a parità di occupazione e una distribuzione per nulla paritaria del lavoro domestico. 

In questo solco, già Kollontaj nei primi anni del 900 discusse delle particolarità della giornata di lavoro femminile: caratterizzata da una prima parte di sfruttamento in fabbrica (per dieci, dodici o quattordici ore) e da una seconda dedicata alla gestione dei figli, del marito, della casa, del cibo. Questa, la realtà che ha portato le femministe socialiste a parlare di doppia oppressione: sia capitalista rispetto allo sfruttamento del lavoro salariato, che patriarcale a causa dello sfruttamento del lavoro di cura non riconosciuto come tale dalla società capitalista, che non ha nessun interesse economico a prendersi carico socialmente del lavoro di riproduzione della forza lavoro, il quale rimane dunque in gran parte tra le mura domestiche e a carico delle donne, nonostante il processo di proletarizzazione che le ha coinvolte.

“Il capitalismo dipende anche dal lavoro domestico”

L’importanza data dal socialismo alla liberazione delle donne dal lavoro domestico è evidente nelle discussioni tra Clara Zetkin e Lenin (Zetkin 1925):

Disgraziatamente si può ancora dire di molti compagni: “Gratta un comunista e troverai un filisteo!”. Evidentemente dovete grattare il punto sensibile: la loro concezione della donna. Può esserci prova più riprovevole della calma acquiescenza degli uomini di fronte al fatto che le donne si consumano nel lavoro umiliante, monotono della casa, sciupano, sperperano energia e tempo, acquistano una mentalità meschina e ristretta, perdono ogni sensibilità, ogni volontà?

I nomi che abbiamo richiamato costituiscono solo una piccolissima parte di coloro che hanno contribuito allo sviluppo di un femminismo socialista, rivoluzionario, che, gettando le sue basi nell’intreccio della questione dello sfruttamento con quella dell’oppressione, si è costruito lottando contro i femminismi separatisti o liberali, che non indicano soluzioni reali, strutturali alle donne per la loro emancipazione.

La rivoluzione russa è patrimonio della lotta per l’emancipazione della donna e di genere

La rivoluzione russa, come scrisse il giornalista e testimone diretto John Reed (Reed 2012), fece tremare il mondo intero e dimostrò concretamente che vincere contro il capitalismo è possibile, con una strategia corretta e un partito rivoluzionario all’altezza degli eventi. Anche per le donne partecipare attivamente, essere elette a capo dei consigli di fabbrica, organizzare le truppe, gli scioperi, decidere al pari di un uomo ha significato che è possibile essere le protagoniste della nostra storia come donne e come parte della nostra classe. Ma la rivoluzione russa non si è limitata a questo: le conquiste che le donne sovietiche si assicurano grazie ad essa sono ancora un miraggio per tantissime donne. Pensiamo all’aborto legale in Argentina, approvato solo due anni fa: se in Russia la rivoluzione non fosse stata tradita e le donne che ne rivendicavano a pieno l’eredità uccise o esiliate, come abbiamo ricordato, sarebbe stato legale per 102 anni consecutivi. Pensiamo, venendo all’Italia, alla possibilità di divorziare in modo rapido, senza vincoli, o a che enorme passo in avanti avremmo potuto fare dal punto di vista dei diritti civili e riconoscimento di tutta la comunità LGBT+, considerando il livello di sperimentazione e apertura che i rivoluzionari tentarono di conquistare nonostante le guerre e le carestie. La stessa Kollontaj (1923), dopo la rivoluzione, scrisse dell’importanza di un eros alato libero dai vincoli sociali, di un amore “cameratesco”, di come da questo sarebbe potuta crescere una rivoluzione della morale e della cultura degradante che il capitalismo porta con sé, di come avrebbe potuto rivoluzionare l’individuo di una nuova società. La realtà odierna, molto più amara, è che persino una legge, come il DDL Zan – una norma minimale e ancora orientata verso criteri punitivi – ha attirato una feroce lotta “bipartisan” per negare persino elementari diritti alla vita e alla dignità delle persone non eteronormate. Di là dalle Alpi, la “civile e progredita” Germania ha atteso fino al 1994 per depenalizzare completamente l’omosessualità – 74 anni dopo rispetto all’Unione Sovietica!
Ma oltre alla conquista dei diritti sociali e civili che restano un esempio storico ancora per tante società “avanzate” di oggi, quello che veramente ci fa da lezione è l’esempio storico della rivoluzione e delle rivendicazioni che essa ha portato avanti rispetto all’emancipazione delle donne. Uno dei terreni dove il ribaltamento delle politiche rivoluzionarie dei primi anni, operato dalla burocrazia staliniana, è stato più brutale ed evidente, lasciando  un lungo strascico ideologico che influenza ancora settori “comunisti” – come il PC di Marco Rizzo in Italia -, i quali ripropongono ancora oggi apertamente o in forma velata una contrapposizione tra la lotta economica e quella per i diritti politici e sociali, di fatto proponendo una depoliticizzazione e un adattamento alle politiche di riforma del sistema di entrambi questi ambiti. Se la lotta di classe oggi è una lotta per l’emancipazione di tutta l’umanità, il punto è però proprio collegare le diverse istanze degli sfruttati e degli oppressi, non porle in competizione in base a una scala di valori morali a dir poco miopi.

Assemblea nell’officina Citroën – Javel, 1938, foto di Willy Ronis

Per le bolsceviche di allora, così come ancora tutt’oggi per noi femministe rivoluzionarie, la liberazione della donna non sarebbe stata un sottoprodotto automatico della rivoluzione socialista, poiché è necessario un impegno costante per far avanzare il progresso di rimodellamento di una società che, essendo libera dalla divisione in classi e dallo sfruttamento, si riorganizzi in una collettività che permetta agli uomini e alle donne di vivere liberi, anche dai residui patriarcali. Proprio perché le donne bolsceviche erano profondamente consapevoli e convinte di ciò, in seguito alla rivoluzione si dettero quattro assi centrali del loro lavoro: l’unione libera, l’emancipazione femminile attraverso la partecipazione al lavoro, la liberazione delle donne dal lavoro domestico attraverso la socializzazione di questo, e l’abolizione della famiglia.

Per chiarire come raggiungere questi obiettivi non ci sono parole migliori di quelle di Lev Trotsky, scritte nel 1923 nella sua “Lettera a una assemblea di donne lavoratrici a Mosca”: 

Due strade sono aperte per la trasformazione della vita quotidiana: quella dall’alto e quella dal basso. Il percorso “dal basso” è quello che unisce le risorse e gli sforzi delle singole famiglie. È il modo per creare grandi unità familiari, con cucine condivise, lavanderie, ecc. Il percorso “dall’alto verso il basso” è il percorso dell’iniziativa statale o dei soviet locali per la costruzione di alloggi collettivi per i lavoratori e di ristoranti comunali, lavanderie e vivai. In uno stato operaio e contadino non ci può essere contraddizione tra questi due percorsi, uno deve essere complementare all’altro. Gli sforzi dello stato non andrebbero da nessuna parte senza la lotta indipendente delle famiglie della classe lavoratrice per un nuovo stile di vita. Ma senza la consulenza e l’assistenza dei soviet locali e delle autorità statali, anche le iniziative più energiche delle singole famiglie della classe lavoratrice non potrebbero portare a un successo significativo.

Siamo profondamente convinte di avere oggi il dovere storico di riappropriarci di questi eventi, di questa esperienza e di questa tradizione: non si tratta solo di memoria, ma di riportare all’interno del dibattito transfemminista le parole d’ordine della rivoluzione russa e delle femministe socialiste. Un’urgenza più attuale che mai: non solo perché le giovani donne scalpitano per reclamare la propria libertà, ma perché il femminismo dell’ultima ondata si sta ulteriormente allontanando da una prospettiva rivoluzionaria, cedendo sempre di più a piccoli compromessi che non rompono con la tradizione patriarcale e con il capitalismo, che non danno una prospettiva di cambiamento radicale. Non riconquistare l’eredità del femminismo rivoluzionario ci rende impotenti nell’elaborare una strategia, perché esso è indispensabile per rimettere a fuoco la tematica delle relazioni sociali e della famiglia anche nelle battaglie della comunità. Bisogna invece riconquistare lo spirito, l’orgoglio critico, di Stonewall e non lasciare che il capitalismo utilizzi la nostra lotta per renderci docili. Dobbiamo rompere con i ‘compromessi storici’ quando non c’è nessuno che difende i nostri interessi. Per questo dobbiamo riorganizzarci come hanno fatto le donne russe nel non troppo lontano 8 marzo del 1917 per rivendicare la volontà di affossare il sistema capitalistico, per riconquistare l’opportunità di sperimentarci come persone nuove, libere nella nostra individualità e collettività, dalla famiglia, dal lavoro domestico e salariato, dallo sfruttamento e dall’oppressione. 

Josefina Martínez, Scilla Di Pietro

Note

1. Il dibattito relativo a questa sessione del Congresso di Gotha del 1896 della SPD tedesca fu noto come dibattito sulla Frauenagitation, cioè sulla agitazione fra le donne.

2. La mera lettura dell’opera di Engels rende piuttosto evidente che Bax aveva posizioni diverse. Engels, per esempio, prende posizione contro il ruolo socialmente relegato che la donna casalinga “angelo del focolare” assume nella società moderna, congiungendo il ruolo attivo delle donne nella vita sociale e nell’economia con la loro possibile emancipazione dalla dinamica serva-padrone nei confronti dell’uomo-patriarca: “Popoli presso cui le donne devono lavorare assai più di quanto non spetti loro secondo la nostra idea, hanno per le donne una stima spesso molto più reale che non i nostri europei. Infatti la signora della società civile, circondata di omaggi apparenti, ed estraniata da ogni effettivo lavoro, ha una posizione sociale infinitamente più bassa della donna della barbarie, la quale lavorava duramente, ma era considerata presso il suo popolo come una vera signora (lady, frowa, Frau = padrona) ed era tale anche per il suo carattere” (1963: 77). Nel Manifesto, insieme a Marx, criticando le paure della borghesia rispetto all’evoluzione dei rapporti tra sessi nel comunismo, afferma che si tratta “di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione” (2005:32), idea difficilmente conciliabile con quella di un genere femminile marginale, se non esterno, alla lotta per il socialismo e all’attività di partito. 

3. Qui, come per le altre date inerenti il 1917 in Russia, ci si riferisce al calendario gregoriano “europeo”, adottato in Russia solo dopo la rivoluzione.

Questo articolo fa parte del numero 2, primavera 2022, della rivista Egemonia.

Bibliografia di riferimento

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Nata a Buenos Aires nel 1974. È una storica (UNR). Autrice del libro Revolucionarias (Lengua de Trapo, 2018), coautrice di Cien años de historia obrera en Argentina (Ediciones IPS). Vive a Madrid. Scrive per Izquierda Diario.es e altri media e milita nella corrente femminista internazionale Pan y Rosas.

Nata a Napoli il 1997, già militante del movimento studentesco napoletano con il CSNE-CSR. Vive lavora a Roma. È tra le fondatrici della corrente femminisa rivoluzionaria "Il Pane e Le Rose. Milita nella Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR) ed è redattrice della Voce delle Lotte.