Non tutte le attività che occupano i salariati hanno lo stesso peso dentro il processo complessivo di produzione di merci e riproduzione dei capitali. Ci sono posizioni “strategiche” che permettono di moltiplicare la “forza operaia” di alcuni settori. Si tratta di inquadrare questa forza nell’insieme della lotta di classe: un’operazione fondamentale per elaborare una strategia rivoluzionaria.
Nell’editoriale del secondo numero di questa rivista abbiamo indagato e rivendicato la centralità che la classe operaia riveste tuttora nel quadro del capitalismo italiano, e le conferme empiriche, per quanto limitate, che processi di lotta come quello GKN-Insorgiamo danno rispetto alla possibilità dell’egemonia della classe lavoratrice su più vasti settori sociali e, in prospettiva, della conquista del potere politico da parte di questa classe come obiettivo di una strategia anticapitalista.
Tramite tale articolo ci proponiamo di approfondire questo lavoro di messa a fuoco del contesto concreto in cui si forma l’attività economico-produttiva nel paese, e dal quale può evolvere la lotta di classe. In particolare, baseremo il ragionamento sul concetto di “posizione strategica”, riprendendolo dall’importante lavoro dello storico statunitense John Womack Jr., Working Power over Production1, nel quale offre una prima trattazione sistematica del tema, in particolare sul piano tecnico-economico.
La formazione storica di “posizioni” della classe operaia e la difficoltà di un pensiero strategico
Non tutte le attività che occupano i salariati hanno lo stesso peso dentro il processo complessivo di produzione di merci e riproduzione dei capitali che fa da struttura fondamentale, da architrave della società contemporanea. Innanzitutto, va considerato l’allargamento colossale della platea della classe lavoratrice nell’ultimo secolo: soltanto nel periodo 1990-2020, mentre la popolazione mondiale cresceva da 5,28 a 7,76 miliardi di persone (+47%), la forza-lavoro è aumentata da 2,32 a 3,39 miliardi di persone (46%)2. Se si tiene conto degli anziani (pensionati) e dei minorenni non ancora entrati nel mercato del lavoro (fatta la tara di una piccola minoranza di “dipendenti” non considerabili come parte della working class, come i manager), la classe lavoratrice costituisce già da anni una maggioranza netta della società mondiale, non dei soli paesi più sviluppati.
All’interno di questo processo storico, anche per comprendere il motivo dello sviluppo ineguale della “forza operaia”, è utile tenere a mente almeno due dinamiche fondamentali: la conversione di una parte via via più larga della popolazione contadina in classe lavoratrice e popolazione urbana; l’erosione dei divari all’interno della massa enorme delle fasce “medio-alte” della popolazione lavoratrice, prima più rigidamente separate per condizioni di vita e di lavoro dal proletariato industriale. Da tali strati una quota sempre crescente tende a ridursi a senza-riserve costretti ad avere un lavoro salariato per sopravvivere, in modo analogo se non identico alla classe operaia in senso stretto, sotto i colpi delle congiunture negative e delle cicliche crisi economiche.
Le politiche coscienti da parte della classe dominante di mantenere in vita dei cuscinetti sociali di piccoli proprietari (commercianti, contadini, artigiani ecc.), di ceti medi intellettuali-impiegatizi, di professioni qualificate, a mo’ di massa conservatrice (o attivamente reazionaria all’occorrenza) contrapposta alla classe lavoratrice, trovano il loro limite nell’aumento di quest’ultima collegato all’accumulazione di capitale argini di profitto non incassati per evitare il dilagare totale del capitale e un conseguente compattamento sociale di tutti i subalterni attorno alla classe lavoratrice. Ciò non toglie, ripetiamo, che l’estrema difficoltà nel mantenere e accrescere gli strati sociali intermedi è un fattore fondamentale per comprendere l’aumento di numeri e forza della classe lavoratrice contemporanea.
Si tratta di mettere a fuoco l’insieme di questa enorme popolazione proletarizzata, distinguendo i ruoli, le connessioni, le peculiarità e i vari rapporti di forza che questa composizione vasta ed eterogenea genera, non soltanto nell’economia ma nella società e nella politica.
Il posizionamento privilegiato di aziende, settori, concentrazioni industriali nell’insieme della produzione conferisce un’influenza superiore alla media alla forza-lavoro ivi impiegata: non soltanto rispetto alla propria azienda, al proprio settore o distretto territoriale, ma su un’area economica più vasta. Una determinata quantità di forza-lavoro che opera sulla stessa quantità di capitale fisso (macchine, impianti…), espressa in valore, nella misura in cui può bloccare la riproduzione di una quantità maggiore di capitale, ha una posizione più strategica. Vedremo come, espandendo il concetto in senso politico, si possono individuare caratteri strategici delle posizioni di ulteriori segmenti della classe lavoratrice rispetto a quelli individuati da questa definizione economica più stretta.
La disomogeneità della “forza operaia” dà una forma concreta al contesto strategico della lotta di classe: non soltanto in una macro-distinzione tra proletariato industriale e non, o tra lavoratori produttivi e improduttivi (cioè che accrescono o no un capitale col loro lavoro, cfr. Garroni 2007), ma anche tra i ranghi di questi stessi sottogruppi, appunto tra le singole “posizioni” della classe lavoratrice.
Dunque, la composizione complessa della nostra classe impone di pensare a come legare le differenti posizioni strategiche tecnico-economiche al loro impiego in una politica socialista della classe lavoratrice con l’obiettivo della conquista del potere tramite la lotta di classe fino alla sua massima forma, la rivoluzione sociale. Lungi dall’essere un ragionamento tradizionale, diffuso e consolidato, quello sulle posizioni strategiche richiama la difficoltà con cui il pensiero marxista (e quello anticapitalista in generale) ha messo a fuoco una propria dimensione strategica, senza limitarsi a una debole connessione tra i propri principi politici, il proprio programma e una serie di “consolidate tattiche”, come evidenziano Albamonte e Maiello in Estrategia socialista y arte militar (2017, in particolare cfr. 16-26)3.
Entrando, appunto, nello specifico della questione delle posizioni strategiche, lo storico John Womack Jr., studioso del movimento operaio e in particolare della storia della lotta di classe e della politica rivoluzionaria in Messico, segnala due linee problematiche nell’elaborazione dei comunisti in proposito:
La prima è la difficoltà che i comunisti hanno avuto per tutto questo tempo nel discutere pubblicamente di qualsiasi “strategia” per il lavoro, perché la parola sembrava indicare un complotto contro le autorità costituite, democratiche, dispotiche o comuniste; se anche avessero ordito complotti, non li avrebbero comunque discussi in pubblico. La seconda linea, più aperta allo studio, è la difficoltà di altri rossi e della sinistra vecchia e nuova nel distinguere tra potere tecnicamente strategico del lavoro e potere sociale e politico, nella misura in cui (come i sociologi di allora) in genere non vedevano o dimenticavano presto il primo, e spingevano solo sul secondo. Tuttavia, ancora una volta, il mio punto di vista non è storico, a prescindere dal suo interesse storico. È per indicare il lungo periodo in cui la sinistra ha perso l’attenzione pubblica sul potere strategico dei lavoratori nella produzione, il potere dei lavoratori sulla produzione, mentre tale attenzione era costantemente dedicata ai movimenti civici e alle elezioni (Womack 2006: 21).
È opportuno spendere qualche parola sulla difficoltà che segnala Womack. Essa è data, più che da particolari e limitate situazioni di clandestinità dell’azione politica dei socialisti in certi momenti storici, dal principio opportunista di nascondere o annacquare i propri obiettivi politici per paura della loro “impopolarità” e per il timore di una risposta repressiva più netta da parte della classe dominante e dell’apparato statale. Su ciò, non potendo dilungarci in questa sede, ci limitiamo a ribadire che perlomeno i comunisti, come affermarono Marx e Engels (2005: 57), disdegnano di nascondere le loro opinioni e intenzioni e dichiarano apertamente che i loro obiettivi possono essere raggiunti soltanto con il rovesciamento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. La “crisi della sinistra” odierna, d’altronde, esiste proprio anche perché da molto tempo, seppure con posizioni teoriche e strategie diverse, ci sono approcci simili di dissociazione autoimposta tra un’intima simpatia per l’idea della rivoluzione sociale e del comunismo come modello di società futura, e la convinzione che sia utopistico, sterile fare di questi principi una politica aperta che permetta di conquistare a un programma rivoluzionario l’avanguardia della classe lavoratrice e via via la netta maggioranza della popolazione politicamente attiva. Un approccio che, evidentemente, lascia tutto lo spazio possibile non solamente a quelli che sono profondamente convinti che il nostro obiettivo pratico debba limitarsi a riformare e migliorare il capitalismo, ma soprattutto a tutti i partiti “di governo” che si battono per il diritto alla proprietà privata dei capitalisti (mentre il resto della popolazione può essere spogliato dei propri beni senza tanti problemi) e per la conservazione di questa società. Una contraddizione che, parafrasando il filosofo Immanuel Kant, potremmo così formulare: “Il progresso democratico sopra di me, la lotta per il socialismo dentro di me”, e che produce il terribile danno della riproduzione di una cultura, di un’antropologia che contrappone una ristretta cerchia di “compagni” a una vasta massa di povera gente e di proletari barbarici, reazionari, la cui radicalizzazione e organizzazione centrate sulla lotta di classe e per il socialismo sono viste come impossibili, o quasi.
La seconda difficoltà costituisce il nodo di cui cerchiamo di occuparci nel prosieguo di questo articolo.
Che cosa sono dunque le posizioni strategiche della classe operaia?
Innanzitutto, diamo una definizione più precisa delle posizioni strategiche “tecniche” della classe operaia, sulle quali il dibattito teorico era già presente a fine Ottocento per via dello stimolo che l’uso concreto di tali posizioni, da parte del movimento operaio – già allora molto forte in diversi paesi – dava all’analisi dei rapporti economici e della lotta di classe.
Come sintetizza efficacemente Julia Soul (2008), commentando Womack:
Il concetto di posizione strategica è a prima vista semplice: si tratta di concepire quelle posizioni che tecnicamente, cioè nel processo produttivo, sono in grado di paralizzare il maggior numero di posizioni “a monte” o “a valle”. Il carattere strategico dei settori è concepito negli stessi termini. In linea di principio, la posizione strategica non implica livelli di qualificazione, né dimensioni di imprese o settori. Solo posizioni e relazioni determinate dalle caratteristiche tecniche del processo produttivo.
Questa visione, sostiene l’autore, non va a discapito di una storia delle forze sociali, politiche, culturali o morali dei lavoratori. Solo che, “[a] differenza di queste [forze], quella che si vede nel lavoro è la forza specifica ed esclusivamente operaia, anzi è l’unica forza operaia” (p. 51). L’unica forza sia in termini positivi – ciò che i lavoratori organizzati dal processo produttivo possono produrre – sia in termini negativi – ciò che possono non produrre.
Womack, dunque, ci invita a prendere in considerazione seriamente la base materiale del pensiero strategico sulla lotta di classe nell’epoca moderna, cioè, essenzialmente, tra la classe lavoratrice e la borghesia: non si tratta semplicemente di cogliere la tendenza prevalente, di fondo, per cui i capitalisti sono portati a far moltiplicare e a impoverire la classe lavoratrice, alimentando situazioni sociali oggettivamente intollerabili, dunque potenzialmente esplosive, rivoluzionarie. Si tratta di mettere a fuoco il movimento concreto della lotta di classe e immaginare il suo possibile sviluppo affinché effettivamente la classe oggi subalterna in questa lotta, la classe operaia, possa imporre la propria volontà sul suo avversario e conquistare il potere economico e politico. Proprio su questo Womack invita a non pensare a una strategia per la classe lavoratrice con un approccio superficiale e metafisico, dove la “autonomia del politico” releghi l’attività e la lotta della classe operaia a strumento di pressione per una “lotta politica” che si gioca su altri terreni, di fatto scorporata dalla lotta di classe. Si può individuare in questo preciso punto una radice fondamentale di tutte le reinterpretazioni del soggetto rivoluzionario nella nostra società, anche di quelle che formalmente si richiamano, se non al marxismo politico, alla critica dell’economia politica di Karl Marx.
Rivendichiamo, invece, la necessità di partire dal pensiero di Marx e Engels, sintetizzato dal secondo in una lettera a Joseph Bloch (1890), per cui “la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante”. Ciò non significa, volgarmente, che l’economia determina tutto il resto, interpretazione che ha avuto molta fortuna anche nel marxismo “ortodosso” della Seconda Internazionale. Piuttosto, ne consegue che nel nostro movimento è da rigettare l’approccio idealista per cui si possa pensare e parlare di una strategia per vincere la lotta di classe, senza partire dalle basi materiali che danno il contesto strategico di questa lotta, che definiscono le forze in campo, le possibili azioni e le loro conseguenze: i rapporti di forza e la gerarchia politica, non solo economica, si evolvono a partire dalle posizioni di forza tecnico-economiche tra le classi sociali e dentro le classi sociali.
Considerando i termini strettamente politici, la riflessione di Womack fornisce importanti spunti per una critica delle strategie “marxiste critiche” o “post-marxiste” che hanno proposto come soggetto politico centrale (“rivoluzionario” o meno) del nostro tempo una massa subalterna volutamente più larga e indefinita: il caso più noto e che avuto forse più influenza ideologica a sinistra è quello della moltitudine di Toni Negri e Michael Hardt i quali, non a caso, hanno proposto una revisione dell’analisi dei rapporti tra classi anche sul piano geopolitico internazionale, con la caratterizzazione dell’equilibrio internazionale imperialista post-crollo dell’URSS come di un mondo avvolto dalla presa tentacolare dell’Impero statunitense. Il fatto che non sia chiara la strategia per cui la moltitudine possa avere la meglio sull’Impero non è affatto casuale e passa anche dalla mancata indicazione di quale forza sociale il soggetto rivoluzionario deve avvalersi per conquistare il potere politico.
L’analisi delle posizioni strategiche, al contrario, è uno strumento necessario per applicare lo stesso metodo dialettico di Marx allo studio della classe lavoratrice, del suo effettivo ruolo e della sua forza nella società, e delle sue possibili politiche. Da un’indefinita classe lavoratrice che ci appare come un enorme corpo sociale sfocato, tramite un processo di astrazione, possiamo mettere a fuoco un quadro concreto dei diversi “posti di combattimento” e della diversa forza tecnico-economica immediata che caratterizzano le relazioni dei diversi settori di lavoratori in rapporto all’economia e fra sé stessi, in costante evoluzione dialettica.
In questo senso, la discussione politica degli ultimi mesi sulla necessità, per gli operai GKN, di “passare il testimone” a una convergenza più ampia di lavoratori in lotta e a un vero e proprio movimento centrato sulla lotta di classe, è oggettivamente legata anche al livello tecnico-economico delle posizioni strategiche. In una recente intervista, il leader del collettivo di fabbrica Dario Salvetti (2022) sottolinea come “le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo e della cultura fanno meno rumore rispetto alle grandi vertenze industriali”, il che non è solo dovuto a questioni contingenti di esposizione mediatica e politica, anzi: la natura “intellettuale” del lavoro dei primi si associa fisiologicamente a una maggiore concentrazione di attivisti della sinistra larga, in un’epoca di debolezza politica del movimento operaio nelle fabbriche, e ne aumenta la capacità immediata di spendersi in campagne politiche e non solo conservativo-sindacali. Il fatto è che essi sono decisamente marginali nel quadro economico generale e scioperando bloccano l’attività di pochissimi altri lavoratori, specie in situazioni di crisi e compressione come quella prodotta nel mondo della cultura con la pandemia.
Salvetti segnala, però, anche la natura dinamica di una posizione strategica, parlando di quella della propria fabbrica – e dunque del proprio collettivo operaio – attualmente ferma in vista di un (ancora incerto) processo di conversione. Queste variazioni, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, determinano il contesto strategico dove certi piani di lotta e di organizzazione, e dunque certe opzioni e scelte politiche, diventano più o meno possibili, più o meno “naturali”, e dove si gioca la lotta tra tendenze politiche perché l’attività si sviluppi in una o in un’altra direzione.
Una fabbrica interna a una multinazionale è un organismo inserito in una filiera produttiva e, in assenza di uno stato in grado di sostituire quella filiera produttiva, anche se abbiamo impedito che portassero via i macchinari e garantito tutti i contratti di lavoro a tempo indeterminato con i loro diritti, la fabbrica è ora un organismo avulso da qualsiasi filiera produttiva. Per questo siamo costretti a subire la cosiddetta «reindustrializzazione», cioè la trasformazione della fabbrica in uno scatolone vuoto in cui mettere altre produzioni. Non era quello che volevamo, è un meccanismo che abbiamo subito per il contesto e i rapporti di forza in cui siamo. E dentro questo meccanismo c’è un limbo in cui non siamo più la vecchia fabbrica e non siamo ancora quella nuova. Dovremo passare per un lungo lasso di tempo caratterizzato dalla Cassa integrazione, e sappiamo per esperienza che la Cassa integrazione produce assuefazione. Cambia la natura del tessuto operaio, toglie potere contrattuale e ci trasforma in percettori di ammortizzatore sociale che lottano per prolungarlo.
Questo è il punto in cui ci troviamo. Stiamo continuando a portare avanti l’assemblea permanente, a presidiare la fabbrica esternamente e internamente ma non facendo produzione il nostro potere contrattuale è ridotto: lo sappiamo noi e lo sa anche la nostra controparte4.
Si può ben intuire, prendendo in esami casi singoli come questo, come le implicazioni a larga scala e lungo il tempo di questa dinamica possano significare la vittoria o la sconfitta non soltanto di singoli conflitti economici o di singoli cicli di lotta di classe in un territorio limitato: si tratta di variazioni importanti della forza sociale che può spalancare o meno possibilità di lotta politica e di organizzazione anche in profonda contraddizione e divergenza tra di loro, cosa che si è riflessa nel dibattito teorico (ci limitiamo qui a quello marxista) e nella lotta politica nel movimento operaio da oltre un secolo. Di seguito, seppure in forma accennata, daremo conto dei temi di questo dibattito nell’epoca “classica” del marxismo, a cavallo tra Ottocento e Novecento.
La classe operaia come grande attore sociale, gli scioperi di massa e il dibattito sulle posizioni strategiche nel marxismo “classico”5
La seconda metà (e in particolare l’ultimo ventennio) dell’Ottocento fu un’epoca di trionfo per l’accumulazione e l’espansione del capitale, che poteva finalmente contare sul dominio sociale della borghesia su tutti i paesi “sviluppati” e “civili” e via via sul resto del pianeta tramite la colonizzazione di interi continenti. Tale processo non solo generò la produzione di ricchezza materiale con ritmi sconosciuti nella storia dell’uomo, ma moltiplicò rapidamente il numero dei moderni proletari, specie in Europa e negli USA, al punto di poterli contare a milioni o decine di milioni nei singoli paesi. L’evoluzione e la connessione della produzione industriale e del mercato, non solo a livello nazionale ma su scala globale, generava delle posizioni strategiche che davano non soltanto un’inedita forza sociale alla classe operaia, ma anche posizioni strategiche con una forza tecnico-economica spettacolare a certi settori operai, mettendoli al centro anche della lotta di classe e della politica (inter)nazionale.
Questo processo si accompagnava a uno sviluppo fenomenale delle organizzazioni operaie, al punto che fu possibile superare la crisi che aveva portato, dopo la sconfitta della Comune di Parigi nel 1871, allo scioglimento della Prima Internazionale, fondata tra gli altri dagli stessi Marx ed Engels. Nacque così l’Internazionale Socialista nel 1889, potendo contare su partiti nazionali veri e propri, in formazione o già consolidati, che complessivamente contavano qualche centinaio di migliaia di militanti e dirigevano un più ampio settore di lavoratori tramite la direzione dei sindacati e di altri organismi: numeri che continuarono ad aumentare ovunque almeno fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Questa, però, non era che la punta dell’iceberg di un processo molto più ampio di emersione della classe operaia, sia a un livello meramente “sociologico” con la moltiplicazione dei suoi numeri, sia come soggetto sociale e politico che si era sviluppato sufficientemente (almeno nei paesi col capitalismo più avanzato) per coordinarsi e paralizzare interi paesi con la propria lotta. Si assistette così alla prima ondata internazionale di scioperi di massa: in Inghilterra nel 1897, in Francia nel 1898, poi lo sciopero generale in Belgio per la conquista del suffragio universale ed eguale nel 1902, seguito dagli scioperi in Olanda nel 1903, in Russia nel 1902, 1903 e 1904, in Italia nel 1904 e, infine, lo sciopero generale e la nascita dei soviet, i consigli dei lavoratori e dei contadini, nella rivoluzione russa del 1905.
Lo scoppio di questi scioperi e, in diversi casi, le conquiste da essi ottenute, non dipendevano soltanto dall’aumento esponenziale delle fila del proletariato, ma anche dal fatto che la classe operaia era collegata strategicamente al centro della produzione concentrata capitalista. L’approccio dei marxisti alle potenzialità crescenti della classe operaia, ovviamente, non rimaneva circoscritto alle relazioni lavoratore-datore di lavoro, come è sul piano tecnico-economico su cui si concentra Womack. In particolare, la rivoluzione russa del 1917, e il processo di sciopero generale che la caratterizzò, costituì un’applicazione della forza operaia e una sua evoluzione politica a un livello storico superiore. Ciò accadeva proprio nel paese considerato più arretrato tra le grandi potenze, e costituiva una contraddizione rispetto all’ipotesi ufficiale del marxismo “ortodosso” dell’epoca, per cui sviluppo del capitalismo, evoluzione politica della classe operaia e maturazione delle condizioni per la conquista del potere erano affasciati in un unico progresso lineare attraverso il quale sarebbero dovuti passare tutti i paesi, dunque prevedendo l’instaurazione di un governo della classe lavoratrice prima in Inghilterra e in Germania – i paesi più avanzati – e poi mano a mano in tutti gli altri.
Lev Trotsky, ben collegato al dibattito marxista europeo, già al tempo riuscì a gettare le basi di una spiegazione organica di questa apparente contraddizione, elaborando il concetto di sviluppo ineguale e combinato, applicando il metodo dialettico di Marx non solo all’accumulazione di capitale, ma allo sviluppo storico della società nel suo insieme, dimostrando l’incorrettezza della tesi “ortodossa” dello sviluppo lineare e per tappe storiche. A partire da questo concetto, gli fu possibile elaborare (in una prima forma già in questo periodo, e in una forma complessiva nel 1929) la teoria-programma della rivoluzione permanente, che indicava la prospettiva di far evolvere il processo rivoluzionario in Russia fino alla presa del potere da parte della classe lavoratrice, alleata ai contadini, senza passare per una tappa storica di democrazia borghese. La base materiale da cui Trotsky faceva derivare il suo pronostico consisteva nella formidabile concentrazione della classe operaia russa, per quanto molto minoritaria, in grandi unità industriali, con uno sviluppo tecnico-scientifico comparabile con quello dei paesi “avanzati”, e nei centri urbani, che dominavano la sterminata campagna e le sue masse di contadini. Erano la possibilità di sviluppare fortissime posizioni strategiche della classe operaia che permettevano di immaginare una sua egemonia e direzione di un più vasto movimento rivoluzionario, ancor prima che questa classe diventasse effettivamente una maggioranza sociale6.
Rosa Luxemburg fu, insieme a Trotsky stesso, fra i dirigenti socialisti che trattarono più significativamente del 1905 russo come irruzione delle masse lavoratrici sulla scena politica, come soggetto politico in lotta per decidere del proprio destino. Nell’opera Sciopero di massa, partito, sindacati, scritta in contemporanea agli eventi (anche grazie alla sua conoscenza della lingua russa), dà conto di come, attraverso gli scioperi la classe operaia, con i suoi metodi, influenzasse tutto il processo sulla base delle sue posizioni strategiche raggiunte prima della rivoluzione. Così, fa notare come un’ondata di scioperi e lotte nel 1902-3 fosse partita dalle officine ferroviarie di Rostov, diffondendosi in Ucraina e nel meridione russo fino alle fabbriche di Baku sul Mar Caspio; mentre nel gennaio 1905 fu a partire dall’importante sciopero alla fabbrica Putilov di San Pietroburgo, una posizione strategica nell’industria, che partì la rivoluzione. In entrambi i resoconti, la Luxemburg mostra il ruolo delle posizioni strategiche nell’estensione dello sciopero che si sviluppa come sciopero di massa. Nonostante ciò, John Womack la criticherà per non aver riconosciuto il ruolo ancora maggiore che le posizioni strategiche avrebbero avuto di per sé. Le analisi di Rosa, secondo Womack,
implicano chiaramente una spiegazione industriale, anche se non tecnica. Tuttavia […], si rifiutò di riconoscerlo e rivendicò invece “una sollevazione spontanea delle masse” […] Facendo collassare l’industriale nel politico, interpretò erroneamente un’azione industriale strategica di possibile significato politico come un’azione impulsiva, inevitabile ed esclusivamente politica (2007, pp. 108-109).
Tuttavia, dove Womack vede una debolezza è proprio dove si trovano i punti più forti della riflessione della Luxemburg, cioè l’articolazione tra l’impulso spontaneo delle masse, l’uso di posizioni strategiche e l’evoluzione del movimento, nella sua esperienza, verso una prospettiva politica.
Contro l’idea volgare di un “puro spontaneismo” della Luxemburg, ella sottolinea costantemente la sinergia tra l’agitazione della socialdemocrazia russa e l’azione spontanea delle masse. Queste osservazioni, naturalmente, non sono ingenue: puntano direttamente contro la nuova burocrazia sindacale tedesca e il crescente conservatorismo della SPD, il partito socialdemocratico tedesco che rimaneva formalmente marxista. Proprio nel 1905 in Germania, la sconfitta dell’imponente sciopero dei minatori della Ruhr7 aveva dimostrato che la pura posizione strategica confrontata con gli altri due elementi (impulso spontaneo e prospettiva politica) poteva cessare di essere una “forza operaia” e diventare il suo contrario. Lo sciopero dei minatori minacciava di paralizzare l’economia del paese, ma l’azione mirata della burocrazia sindacale e del governo su questa “posizione strategica” fu usata come leva per impedire al movimento di sciopero nel suo insieme di acquisire un carattere politico8.
Questa dinamica (inversa all’esempio russo dei ferrovieri di Rostov del 1902, dove l’azione degli operai e la socialdemocrazia convergevano) mostra il limite di qualsiasi visione che cerchi di concepire la forza operaia delle “posizioni strategiche” isolata dall’azione indipendente della base e della politica della sua direzione. Mentre le diverse cause che modificano il corso delle lotte possono certamente essere analizzate separatamente in sede teorica, queste non possono essere trattate in maniera isolata nella realtà. Questa è una delle maggiori debolezze dell’analisi di Womack che si possono individuare. Come sottolinea Clausewitz (1970):
… sarebbe un pensiero infelice voler discutere la strategia secondo il valore di questi elementi isolati, poiché in guerra essi sono il più delle volte molteplici e intimamente connessi tra loro; perderemmo invano a costruire su questa base astratta l’arco fattuale del mondo reale (p. 268).
Le “posizioni strategiche”, anche se hanno trovato la forza della classe operaia, d’altra parte, non corrispondono immediatamente alla classe nel suo insieme, ma ai settori della classe operaia che le detengono. Così, a causa della loro “potenza di fuoco” sono anche più capaci di ottenere concessioni particolari dalla borghesia. Su questa stessa base, con l’imperialismo, come sottolinea Lenin (1966, p. 53), si sviluppa l'”aristocrazia operaia”. Questo corporativismo è il fondamento, più stabile – al di là della cooptazione diretta o della corruzione dei dirigenti – della frammentazione (e differenziazione sociale) del proletariato di cui si serve la burocrazia sindacale. Dall’altro lato, ci sono i settori della classe che non occupano posizioni strategiche, quindi con meno capacità di negoziazione e organizzazione, il che li rende, da un lato, più deboli e, dall’altro, potenzialmente più esplosivi. Accettare in un modo o nell’altro questa divisione significa precisamente negare la “forza operaia” nella sua totalità reale.
È nell’intersezione tra lotta sindacale e lotta politica, tra settori organizzati e non organizzati, tra l’azione di massa e dei dirigenti, che si gioca il valore concreto delle posizioni strategiche e, in definitiva, quello della “forza operaia” nel suo insieme, cioè la sua forza strategica propriamente detta. Come abbiamo visto, il potenziale della forza operaia in sé non evolve necessariamente verso lo sviluppo e la vittoria della lotta di classe, men che meno in una sua evoluzione rivoluzionaria: chiama in causa la coscienza e l’organizzazione politica della classe, e dunque la capacità e gli obiettivi che si dà la direzione che essa pone alla sua testa. Il “collasso dell’industriale nel politico” che Womack attribuisce alla Luxemburg è invece uno dei principali risultati teorici di quest’ultima, non solo nella sua analisi della Russia ma, soprattutto, nelle sue lotte all’interno della socialdemocrazia tedesca. In questo senso, il ragionamento della Luxemburg non è minimamente accostabile a quello dei negatori della base tecnico-economica della forza operaia che abbiamo richiamato a inizio articolo.
Dalla tecnica alla politica: l’importanza dello sviluppo delle posizioni strategiche nella lotta di classe
Tornando al nostro secolo in questo ultimo paragrafo, accenniamo a un caso concreto significativo per pensare alle posizioni strategiche nel loro possibile sviluppo più ampio, politico, che è per noi fra le premesse fondamentali di una strategia rivoluzionaria.
Nel maggio dell’anno scorso ha fatto clamore a livello internazionale l’azione dei portuali di Livorno, mobilitatisi in reazione all’annunciato passaggio della Asiatic Island, carica di munizioni destinate alle forze armate israeliane, impegnate nell’escalation che aveva avuto origine dal tentativo di sgombero violento di parecchie famiglie palestinesi del quartiere Sheikh Jarrah a Gerusalemme. La denuncia politica e la sola minaccia di sciopero sono riusciti ad annullare il previsto attracco con l’eventuale carico di ulteriore materiale bellico. Non si è trattato solamente di rivendicare la capacità, da parte di un numero ristretto di lavoratori, di bloccare flussi di merci che hanno in quel porto un nodo, dunque arrestando o rallentando l’attività di altri settori di lavoratori e danneggiando i capitalisti direttamente e indirettamente coinvolti nell’attività portuale locale. Si è trattato di poter impiegare questa forza a partire dall’organizzazione sindacale già esistente (in questo caso, USB) e dal legame, in particolare, con i lavoratori di un altro porto importante, Genova, dove appunto la base materiale della forte posizione strategica tecnico-economica ha permesso un’incisività straordinaria ai lavoratori, in particolare a un loro settore di avanguardia organizzato nel CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali). Proprio il CALP aveva segnalato ai compagni livornesi la situazione. Questa azione si inseriva nel complesso della significativa mobilitazione in Italia (e non solo) contro l’ennesima aggressione militare israeliana a danno dei palestinesi, e rivendicava la lotta all’imperialismo e al militarismo dell’Italia e della NATO, schierati con le brutali politiche israeliane. Un ottimo esempio di come la solidarietà attiva e l’unità d’azione anche su scala internazionale si possono fondere in un’unica direttrice strategica del proletariato. La stessa classe lavoratrice palestinese, nella sua secolare lotta di liberazione nazionale e di difesa dall’ennesimo attacco militare, ha potuto far leva sulla sua posizione strategica dentro lo stesso stato sionista, dov’è largamente impiegata, per scatenare uno sciopero di massa che si è rivelato un pieno successo, portando al cessate il fuoco soltanto tre giorni dopo. Il fatto che la “forza” operaia dei portuali italiani e della classe operaia palestinese fosse impiegata in un certo modo, e verso certi obiettivi, non è affatto un prodotto scontato della mera base tecnico-economica delle rispettive posizioni strategiche, ma chiama in causa tutti i fattori della sfera sociale dei lavoratori coinvolti, oltre la direzione del movimento stesso. Ma su quest’ultima in particolare cade la responsabilità della preparazione stessa dello scontro ancora prima della sua conduzione. Come si è già scritto nel primo numero della nostra rivista, studiando il caso degli operai della TNT e del Si Cobas di Piacenza (Duò 2021):
Affinché possa veramente sprigionarsi l’importanza economica di un settore sulla crescita del movimento operaio, è necessario innanzitutto che vengano costruiti rapporti di forza a tutti i livelli, da quello strutturale-economico a quello politico-ideologico.
Per elaborare una strategia rivoluzionaria per la lotta di classe, dunque, non si tratta solamente di sapere individuare le rispettive posizioni strategiche, ma di sviluppare concretamente la capacità di inquadrare e di dirigere la “forza operaia” in una direzione anticapitalista. Porre il problema in questi termini permette anche di trattare dei rapporti di forza tra le classi, e di come si può intervenire per farli evolvere in prospettiva rivoluzionaria. Ciò vorrebbe anche dire non doverne parlare più soltanto per slogan, lasciando la sostanza della questione alle burocrazie conservatrici del movimento stesso, quando la costruzione di certi rapporti di forza è un processo inseparabile da quello dell’espressione di un’organizzazione e di una direzione rivoluzionaria della classe lavoratrice stessa.
Giacomo Turci
Questo articolo fa parte del numero 3, estate 2022, della rivista Egemonia.
Note
1. La versione originale in inglese di quest’opera, inviata come contributo a un congresso di storia economica, è stata in parte rimaneggiata dall’autore in occasione della sua pubblicazione come libro in lingua spagnola, abbreviando alcune parti e aggiungendone altre, in particolare per quanto riguarda i riferimenti al movimento operaio e alla storia del Messico, di cui Womack è studioso. Ci richiamiamo, dunque, a entrambi i lavori.
2. I dati sono ricavati dal database della Banca Mondiale, rispettivamente disponibili a:
https://data.worldbank.org/indicator/SP.POP.TOTL
https://data.worldbank.org/indicator/SL.TLF.TOTL.IN.
3. È di prossima pubblicazione in italiano una traduzione a cura nostra di una parte di questo importante lavoro dei due dirigenti del Partido de los Trabajadores Socialistas, sezione argentina della corrente internazionale, la Frazione Trotskista – Quarta Internazionale, a cui fa capo anche il gruppo politico che anima questa rivista, la Frazione Internazionalista Rivoluzionaria.
4. Corsivi nostri.
5. Per la trattazione di questo paragrafo ci rifacciamo a Albamonte e Maiello (2017). Cfr. pp. 79-87.
6. Sulla peculiare situazione russa e sul pensiero di Trotsky in merito, cfr. Trotsky L (1976) Storia della rivoluzione russa. Milano: CIL, pp. 37-67, 319-325); Trotsky L & Parvus A (2017) Alle origini della rivoluzione permanente. Bolsena: Massari; Trotsky L (1973) La rivoluzione permanente. Milano: Mondadori.
7. La loro influenza fu fondamentale per la proliferazione di scioperi in altri settori con meno “potenza di fuoco”, producendo la più grande ondata di scioperi che la Germania avesse conosciuto fino ad allora.
8. La giovane burocrazia dei Sindacati Liberi (socialdemocratici), in blocco con il resto dei sindacati (cattolici, liberali e polacchi), riuscì a vincere la resistenza dei lavoratori non sindacalizzati che volevano continuare lo sciopero, separarli dai non sindacalizzati e mettervi fine con l’aspettativa di ottenere concessioni governative per il settore. Un obiettivo raggiungibile grazie alla “forza operaia” ma, appunto, di segno contrario allo sviluppo della lotta di classe.
Bibliografia
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Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.