Riceviamo e pubblichiamo in tre parti un saggio sulla questione dello Stato, che riprende il discorso di diversi fondamentali pensatori marxisti per riproporre, nel contesto sociale e nel dibattito politico odierno, una riflessione profonda sul legame tra classi sociali e Stato, e sul superamento di quest’ultimo tramite l’autogestione della società civile.
Questo contributo anticipa un nostro dossier di prossima pubblicazione sul “Kautsky debate” che è sorto negli ultimi anni negli USA attorno alla questione di quale strategia, riformista o rivoluzionaria, dovrebbero adottare il movimento operaio e il socialismo di oggi.
A questo proposito, contrariamente all’ipotesi dell’autore, pensiamo che le forme di governo “socialiste” che hanno attraversato nei decenni scordi l’America Latina, pur incoraggiando (o più spesso tollerando più o meno “benevolmente”) l’auto-organizzazione della classe lavoratrice, contadine e dei nativi oppressi, non abbiano costituito nessuna forma di “transizione al socialismo” proprio nella misura in cui quest’ultima storicamente si è dispiegata a partire dalla passaggio, né graduale né istituzionale, dallo Stato borghese a quello operaio basato sui consigli (cioè proprio su quella auto-organizzazione che nel “socialismo” sudamericano sta ai margini del potere politico) e nell’espropriazione sostanziale del grande capitale e dell’apparato industriale, elemento sempre e comunque mancante in questi come in altri casi.
Qui potete leggere la prima parte e la seconda parte.
Pensare lo Stato, superare lo Stato
L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine. […] Lo Stato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè il monopolio della decisione politica, questa fulgida creazione del formalismo europeo e del razionalismo occidentale, sta per essere detronizzato1.
Questo dice Schmitt ma sembra che per tutto lo scritto non riesca a farsene una ragione ritornando in più parti a delineare una via politica che sia necessariamente interna allo Stato. La rivoluzione d’ottobre lo mette alle strette ma non riesce ad accettare le conseguenze descrivendo così una teologia della politica piuttosto che una filosofia. Proprio come la borghesia, Schmitt, non riesce a fare a meno dello Stato. Pur condannandolo alla sconfitta imminente, al “museo dell’antichità”, non ne esce mai completamente. Concepisce lo sviluppo della polemica politica fuori dallo Stato ma è la sua risoluzione, cioè il momento fondamentale, viene contenuta nello Stato. Le borghesie tedesche ed italiane dovendo scegliere tra fascismo/nazismo e socialismo si buttano tra le braccia dei primi poiché pur abbandonando (anche se non del tutto) il loro carattere politico, rimangono comunque proprietari di privilegi socio-economici.
La concezione materialistica della storia, invece, è ripresa da Lenin e da Rosa Luxemburg non solo per pensare la società futura ma per definirne anche gli stadi di transizione. La prima fase del comunismo, detta socialismo, è quella secondo cui il proletariato si organizza come classe dominante e obbliga la borghesia o a sciogliersi entro la società o a fuggire oltre confine in un altro Stato borghese. Nelle discussioni che Lenin intrattiene nel suo tempo con i socialdemocratici tedeschi o i socialisti-rivoluzionari russi o anche gli anarchici, differenzia sempre quella che dev’essere “la lettura marxista”. Questo primo stadio del comunismo si può comprendere come una rivoluzione in atto e in potenziale, poiché momento di transizione. Essa contiene in sé la condizione della soppressione di tutte le classi ma utilizza ancora le forme organizzative dello Stato moderno: l’esempio dell’Unione Sovietica ci dimostra questo, ammettendo anche delle riserve a ciò che Lenin prese a riferimento dalla Comune (poiché la nuova configurazione bolscevica non ebbe un avanzamento tale nell’emancipazione umana fermandosi invece allo Stato socialista). L’esercito era ancora professionale, il lavoro salariato e la burocrazia, soprattutto nella fase staliniana, divenne pervasiva in ogni angolo della vita sociale, cosa fondamentale poi fu la mancanza del principio di “eleggibilità assoluta, revocabilità assoluta”. La seconda fase, detta propriamente comunismo, è quella in cui ogni ente della società umana produce liberamente e in cooperazione con gli altri per il soddisfacimento dei bisogni propri e quelli altrui. Marx definisce il comunismo nella Critica del programma di Gotha con questa frase: “da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”. Tutti gli individui nella produzione di ciò che è loro necessario o superfluo non saranno espropriati di una parte del loro lavoro e neanche saranno indotti a lavorare per procurarsi dei mezzi per soddisfare i loro bisogni ma produrranno essenzialmente secondo le loro capacità produttive in cooperazione generale con gli altri. Di conseguenza questo schema sociale di produzione presume che intellettualmente e praticamente l’individuo sia messo di fronte alla progettualità della sua vita con tutto sé stesso, il lavoro sarà coordinato dalla sua vita e viceversa, nessuna funzione sarà demandata come accade con lo Stato borghese e l’emancipazione dell’essere umano si potrà dire compiuta. L’uomo sarà emancipato quando sarà padrone del suo stesso lavoro, dei suoi bisogni e quindi delle sue forme sociali.
Per questo gli oppositori del marxismo (leninismo) che Lenin chiama opportunisti vengono riportati alla loro contraddizione essenziale dell’emancipazione dell’essere umano nei cieli della politica e non quella che invece tocca gli esseri sociali in carne ed ossa nel loro lavoro pratico e quindi intellettuale. Non vogliono che l’entità statale sia relegata al “museo dell’antichità” perché pensano sia una macchina necessaria alla vita sociale, una condizione ineliminabile e intrinseca alla natura degli umani.
È il movimento della storia che abolisce le cose esistenti, che collega con un filo rosso Marx, Lenin e Luxemburg: la concezione materialistica della storica che pensa in prospettiva la generazione della società comunista da quella capitalista. Il comunismo nasce dalle esigenze sociali del capitalismo, non è un ideale che debba instaurarsi ex novo ma si produce attraverso le contraddizioni dell’attuale logica sociale, i contrasti di classe e le miserie del proletariato: questo è il terreno da cui germoglia la società futura. Anche se Lenin discute quasi scolasticamente di questa epistemologia, non dobbiamo invece farci trarre in inganno dai socialdemocratici e dei naturalisti dello Stato, poiché in questi manca proprio la matrice della storia quale sovvertimento della configurazione sociale attualmente esistente. Invece fanno teologia del politico ricercando quale sia il vero volto dello schema sociale che vivono. Il comunista non giustifica nulla del mondo che vive ma tutto mette a critica e mira a trasformare. L’opportunismo dei riformisti e l’estremismo distruttivo degli anarchici, entrambi, si allontanano dallo sviluppo della storia, i primi perché arretrano di fronte alle proprie potenzialità i secondi per l’immediatezza della loro critica. Kautsky e Bakunin perdono il movimento della storia, nel primo il carattere trasformativo e nel secondo il carattere graduale. La storia, per il riformismo e per l’anarchismo, non è progetto della nuova società.
Non seguire gli insegnamenti della storia significa costruire ideali che sono al di fuori di essa. Il materialismo pratico che segue il movimento della storia per trarne le sue esperienze, con le innumerevoli forme di rivoluzione che fin ad oggi si sono avute, compie una loro analisi per trarne delle conseguenze pratiche. E in questo va riscontrata l’inclinazione scientifica del metodo. Se nella Comune di Parigi si ebbe l’abolizione completa di ogni burocrazia statale, almeno come germe, bisognerà trarne le dovute analisi per poter concepire una formula che si adatti allo sviluppo storico. Ed è in questo che sia Lenin che Marx concordano quando parlano dello statuto dello Stato nel percorso della storia.
Superare la società di classe per superare lo Stato
In questo si risolve tutto il discorso fatto sulla politica da parte di Schmitt:
Se i diversi popoli, religioni, classi e altri gruppi umani della terra fossero così uniti da rendere impossibile e impensabile una guerra fra di loro, […] se cadesse perfino la distinzione di amico e nemico, anche pura eventualità, allora esisterebbe soltanto una concezione del mondo, una cultura, una civiltà, un’economia, una morale, un diritto, un’arte, uno svago ecc. non contaminate dalla politica ma non vi sarebbe più né politica né Stato. Se e quando tale “stato” del mondo e dell’umanità sorgerà, non so. Per ora esso non esiste2.
Oltre a confutare questa non-esistenza con l’esistenza storica della Comune di Parigi, si nota l’incapacità o la non volontà a prendere anche solo coscienza di una società possibile in cui i contrasti tra gli uomini vengono messi al bando attraverso la risoluzione positiva di questi contrasti e in cui ogni forma di autorità, come anche la guerra, non trova nessuna giustificazione o senso storico. Schmitt così si disarma da solo e lascia che la storia si faccia da sé mentre lui sta a guardare o meglio a non dire ciò che veramente vorrebbe da nazista. Si può conseguire con certezza che la coppia amico-nemico in questo autore è illusoriamente dialettica, sviluppo, poiché si neutralizza con l’intento di poter conservare il proprio mondo e la stessa dicotomia: è la dialettica storica negativa hegeliana. Lenin con Marx, invece, assume il materialismo storico e mira a superare le contraddizioni per poterle metterle da parte perché la trasformazione radicale è anche trasformazione della misura che fino a quel momento aveva analizzato tutto tramite sé stessa.
Ma sul fronte storico dobbiamo trarre conclusioni riguardo la rivoluzione russa e lo Stato. Se dovessimo seguire la metodologia storica del materialismo storico dovremmo affermare che nelle fasi successive all’ottobre ’17, già dal III Congresso panrusso dei Soviet, la società russa ha generato e sviluppato entro di sé un apparato statale entro cui un determinato gruppo sociale ha potuto proliferare e virare su una prospettiva che è stata quella che ha governato ogni forma di vita particolare sul proprio territorio delineandosi sempre di più come Stato totalitario burocratico-militare e del Terrore e non invece come Stato socialista che viene meno a sé stesso. Non potremmo azzardare di interpretare cosa furono gli eventi successivi della popolazione come una instauratio ex novo storica, come se si potesse astrarre dalle condizioni precedenti e non farne conto come base di sviluppo. È legittimo però considerare che in fase rivoluzionaria la massa del proletariato ha conquistato con la forza la capacità di imporre la decisione delle proprie sorti e si è così svincolata, almeno in parte, dalle catene della società precedente. Così la convergenza del regno della libertà, la rivoluzione, e del regno della necessità, la storia, produce nel suo seno infinite variabili in cui la morte di Lenin ha il suo peso ma non assolutamente. Come dovremmo anche considerare che entro di sé la società russa ha prodotto lo stalinismo e la sua tendenza a formare un potere dittatoriale. E c’è una descrizione teorica interessante che Trotsky fa nel capitolo “L’agonia della monarchia” della Storia della rivoluzione russa riguardo il rapporto tra individualità e contesto sociale storico. Se non può essere risolta la questione su cosa sia stata la rivoluzione francese, a più di duecento anni, non bisogna essere precipitosi su quella russa, in primis perché la difficoltà di interpretazione di ogni rivoluzione sta nel fatto che ognuna di queste contiene nel suo farsi le potenzialità di molteplici realtà non arrivate a risoluzione, ma soprattutto non ha trovato ancora una società nuova che le dia ragione di cosa sia stata a fronte del suo sviluppo.
Più volte Lenin si dice contrario a trasformazioni che avvengono dall’interno delle istituzioni borghesi, anzi dicendo che è impossibile compierle perché altrimenti non sarebbero rivoluzioni, così criticando il solito “cretinismo parlamentare” già desunto da Marx nel 18 Brumaio. La storia però ha dimostrato diversamente, ma non gli ha dato completamente torto nelle sue affermazioni. Il Sudamerica è stato ed è tutt’oggi un laboratorio politico che ha dato prova di forme diverse di sviluppo socialista, ieri con Salvador Allende e oggi Hugo Chavez. Insomma abbiamo molteplici modalità di arrivare all’organizzazione del proletariato come classe dominante e soprattutto molteplici modalità di governo dello stesso ma in nessun caso si può dire che il socialismo è stato un movimento soltanto istituzionale, ha sempre coniugato in sé la direzione politica e quella militare attraverso la sua emersione dal mondo sociale. Le diverse strategie e i diversi tentativi storici recenti di conquista di un ruolo di comando politico ed economico nella società da parte del movimento operaio si sono dovuti confrontare col limite di un’ipotesi “istituzionale” che rimuove tout court la fase conflittuale organica della lotta di classe, cioè la lotta armata per difendere le conquiste o per rimuovere barricate di privilegi che non fanno beneficenza del proprio status. È quest’ultima misura, che Lenin non manca di valorizzare come necessaria: la necessità che il proletariato organizzato ha di mantenere il suo dominio dall’inizio della sua ascesa al compimento del comunismo mondiale in quanto è il passaggio necessario per evitare controrivoluzioni. La posizione sociale borghese non accetta di essere messa in discussione e le scelte degli Stati Uniti sul Sudamerica e su Cuba ne sono la prova. Perciò, la teoria dello sviluppo del socialismo di Lenin può anche essere tacciata di determinismo storico ma sulla prova di forza che il proletariato deve affrontare per la dissoluzione della società delle classi non è occorsa ancora nessuna contraddizione.
Note
1 Ibidem, p. 39.
2 Ibidem, p. 139.
Bibliografia
Trotsky, Lev (Lev Davidovič Bronštejn):
Storia della rivoluzione russa, trad. it. di L. Maitan, Arnoldo Mondadori, 1969.
Marx, Karl:
Opere filosofiche giovanili, trad. it. di Galvano della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1974;
L’ideologia tedesca, trad. it. di G. Pischel, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947.
Luxemburg, Rosa:
Scritti politici, a cura di Lelio Basso, Editori Riuniti, Roma 1970.
Lenin, Vladimir (Ul’janov, Vladimir Il’ič):
Stato e rivoluzione, a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1966.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich:
La fenomenologia dello spirito, trad. it di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008.
Ranciere, Jacques:
Ai bordi del politico, a cura di A. Inzerillo, Cronopio, 2011.
Schmitt, Carl:
Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972.
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