Crisi di regime e lotta di classe: dopo lo choc iniziale della pandemia (che ha provocato centinaia di migliaia di morti) potrebbe essersi aperta una seconda fase della crisi.


Prima fase della crisi: la questione sanitaria

Lo spostamento dell’epicentro della pandemia di COVID-19 dalla Cina in Italia e in Europa ha segnato l’inizio della crisi sanitaria mondiale. L’11 marzo l’OMS ha annunciato il passaggio dallo stadio di epidemia a quello di pandemia e massicce misure di confinamento sono state adottate in Europa a cominciare da Italia, Francia e Spagna. Retorica marziale, confinamento poliziesco e appelli all’unità nazionale si sono sommati a misure finanziarie di portata storica, anticipando una crisi economica di enormi dimensioni. In questa prima fase della crisi, la questione sanitaria è stata al centro dell’attenzione e i dibattiti politici si sono concentrati sull’aumento della curva dei contagi e sulla possibile saturazione dei servizi sanitari già segnati da 30 anni di offensive neoliberali.

Nella contraddizione generata tra urgenza sanitaria e volontà dei grandi gruppi capitalisti di continuare la produzione anche a costo della salute dei lavoratori, le lotte operaie sono riemerse e hanno caratterizzato la prima fase della crisi. In molti paesi i lavoratori dei settori non essenziali (come quello automobilistico ed aeronautico) hanno imposto la chiusura delle officine. Si tratta di episodi guardati con inquietudine da MEDEF [equivalente francese dell’italiana Confindustria, NdT] che ha parlato di “atteggiamenti brutali da parte dei lavoratori”.

Sul versante internazionale hanno ripreso vigore in Europa le tendenza nazionaliste già rafforzate dopo la crisi del 2008, con provvedimenti come il blocco delle frontiere e il divieto di esportazione di materiale sanitario. La Cina ha approfittato delle tendenze centrifughe europee e del temporaneo ripiegamento degli USA per guadagnare prestigio fornendo materiale sanitario a paesi europei come l’Italia ma anche a diversi paesi dell’Africa, cercando così di apparire come la potenza capace di portare avanti la lotta contro la pandemia. Si è scatenata insomma una vera guerra di propaganda.

Quando però è emerso con chiarezza che l’andamento del contagio era relativamente contenuto in Europa e che nuove andate si verificavano negli Usa e in America Latina, sulla scena politica mondiale sono emerse altre priorità, segnando l’inizio di una fase nuova della crisi. Lungi dall’essere risolta, la questione sanitaria è passata lentamente in secondo piano, eclissata dalla profondità della crisi economica e dalle tensioni tra le varie potenze mondiali, ma anche dal rischio sempre maggiore di vere rivolte popolari davanti alla severe misure di contenimento, alle devastanti conseguenza economiche e all’acuirsi della crisi politica in diversi paesi. Gli esempi più evidenti nelle ultime settimane riguardano il Libano, scosso dalle rivolte della fame” e il Brasile, in piena crisi politica.

Verso una nuova «Grande Depressione»

La pandemia di Covid-19 ha colpito un’economia capitalista ancora fortemente indebolita dalle contraddizioni esplose a seguito della gestione della crisi del 2008-2010: alti livelli di indebitamento degli stati e delle imprese, bassi tassi di investimento, rallentamento dell’economia cinese e del commercio internazionale facevano temere agli economisti l’avvio di una nuova crisi economica.

Questa nuova fase della crisi non prende avvio dalla guerra commerciale tra Usa e Cina, come vorrebbero molti commentatori, ma dallo sconvolgimento delle catene del valore e dal blocco parziale della produzione e del commercio mondiale a seguito delle misure adottate per il contenimento della pandemia. Con tutta evidenza questo ha accelerato tendenze recessive già esistenti sulle quali ha pesato anche la guerra commerciale tra Cina ed USA. La caduta cumulativa dei principali indici di borsa internazionali tra il 30 ed il 40% è diventata una realtà concreta a fine marzo, quando sono stati diffusi gli indicatori economici del primo trimestre 2020, segnati dall’aumento della disoccupazione e dal crollo del prezzo del petrolio. Tutti gli elementi di criticità che all’inizio della crisi sanitaria restavano sullo sfondo, oggi sono balzati sotto ai riflettori.

Il Europa il calo del PIL per il primo trimestre si attesta su livelli record: -5,2% in Spagna, -5,8% in Francia, -4,7% in Italia [nelle stime più prudenti, ndt]. Il principale motore dell’UE, la Germania, ha registrato un calo complessivo delle attività produttive pari al 89% rispetto ai livelli di fine 2019. Per la zona Euro la BCE prevede una caduta complessiva del PIL tra il -5% ed il -12%: nel 2009 si era registrata una diminuzione del 4,9%.

Questo scenario di profonda recessione ha ripercussioni in tutti i paesi, con un impatto più o meno duro in rapporto alla situazione economica di ciascuno di essi e alla loro collocazione in seno al mercato internazionale. Cina e USA, per citare solo le due principali potenze, hanno registrato una diminuzione del PIL pari al 6,8% e al 4,8% nel primo trimestre 2020. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) prevede una diminuzione del PIL mondiale del 3,6% (dopo la crisi del 2008 si era registrata una diminuzione del PIL mondiale dello 0,1%).

La crisi ha avuto anche effetti immediati e via via più manifesti sulla vita di milioni di lavoratori. Il capitalismo ha scaricato sui lavoratori le perdite legate a questa recessione mondiale dei mercati: in sole 5 settimane, il tasso di disoccupazione negli USA è salito del 20% portando a 30 milioni il numero totale dei disoccupati. A titolo di confronto, il tasso di disoccupazione tra 1929 e 1933 (Grande Depressione) non aveva superato il 25%. E queste cifre sono ancora più ampie se analizziamo la situazione mondiale: l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) stima che su una popolazione mondiale attiva di 3,3 miliardi di persone, ben 1,6 miliardi rischia seriamente di perdere il lavoro.

Petrolio e aeronautica i settori più colpiti

La battuta d’arresto dell’economia mondiale a seguito della pandemia ha registrato uno dei peggiori picchi il 20 aprile scorso con l’affossamento della quotazione WTI del prezzo del petrolio, indice che serve a determinare il prezzo del greggio negli USA (mentre l’indice che determina il prezzo mondiale è il BRENT). Nella quotazione WTI il petrolio greggio era valutato -37,63$ al barile, vale a dire che i produttori dovevano pagare i clienti per sbarazzarsi delle scorte di petrolio prodotte. La riduzione della domanda mondiale del 30-40% a seguito della crisi ha dato luogo ad un surplus di produzione che a sua volta ha determinato l’affossamento del prezzo del greggio con conseguenze negative sui produttori americani e sulla banche creditrici.

Questo shock petrolifero dimostra l’importanza dell’impatto della pandemia sull’economia globale, lo squilibrio della produzione e quello del commercio internazionale e i rischi sistemici collegati a questi squilibri. A breve termine gli inevitabili fallimenti di questi settori economici fortemente indebitati potrebbero aggravare la situazione impattando sulla struttura finanziaria del paese e facendo esplodere la disoccupazione nelle città del Texas che hanno economie legate al petrolio. Nel primo trimestre 2020 questo settore ha già visto il licenziamento di 51.000 lavoratori a seguito della minore domanda cinese. Tutto questo potrebbe avere conseguenze elettorali per Trump perché storicamente il Partito Repubblicano è molto forte in Texas.

Altra conseguenza della caduta globale del prezzo del petrolio è la pressione economica sui paesi fortemente dipendenti dall’esportazione di greggio, vale a dire sia i paesi africani (Angola, Nigeria) e latino-americani (Venezuela), sia gli esportatori più ricchi come le monarchie del Golfo. Alcuni analisti sottolineano le contraddizioni economiche, sociali e politiche che la caduta del prezzo del greggio sta causando in Arabia Saudita. Il paese potrebbe essere costretto ad applicare misure di contenimento dei salari dei dipendenti pubblici ancor più restrittive. Questa situazione potrebbe in breve tempo portare alla rottura del “patto sociale” su cui si fonda il regime. Le conseguenze economiche potrebbero avere ripercussioni anche sui paesi della regione come il Libano, l’Egitto e persino la Giordania. Questi non sono paesi esportatori, ma una parte significativa della loro popolazione lavora per il regno saudita. Esplosioni di malcontento sociale non possono essere escluse.

L’altro settore simbolico duramente colpito dalla crisi è quello aeronautico. Costruttori e compagnie aeree sono sottoposti a fortissime pressioni economiche e mentre giganti del settore come Boeing e Airbus ricevono cospicui finanziamenti dagli stati, non esitano a licenziare in maniera massiccia. Boeing ha annunciato un piano di licenziamento di 16.000 lavoratori. Airbus ha risolto migliaia di contratti a tempo determinato paventando il rischio di fallimento per fare pressione sugli operai. Non possiamo infine dimenticare che alcuni fornitori come il gruppo Daher hanno già annunciato il licenziamento di 3.300 lavoratori. Rolls-Royce ha annunciato la settimana scorsa 8.000 licenziamenti nel settore della produzione dei motori per aerei. Per quanto riguarda le compagnie aeree, Ryanair annuncia 3.000 licenziamenti, 12.000 quelli previsti da IAG (International Airlines Group). Questa settimana anche la compagnia aerea nazionale del Sud Africa ha dichiarato fallimento e il futuro dei suoi lavoratori è assolutamente incerto.

La crisi di questo settore emblema del capitalismo (che vede un’enorme concentrazione di capitali da parte di un piccolissimo gruppo di grosse imprese) rischia di diventare un grosso problema politico per i governi. La distruzione di posti di lavoro potrebbe diventare presto fonte di acute tensioni sociali e conflitti di classe.

Tensioni internazionali

Condotta principalmente dagli Stati Uniti ma anche dalle potenze europee, la nuova offensiva contro la Cina testimonia la crescente consapevolezza che il modello di produzione internazionale basato sulla Cina come “officina del mondo” ha raggiunto il suo limite. A maggior ragione con una Cina che sta diventando un serio concorrente in alcuni settori strategici, come quello dell’innovazione tecnologica. Per le potenze imperialiste occidentali non è più accettabile il fatto che la Cina abbia il monopolio di intere catene di approvvigionamento e produzione (come le mascherine, che sono diventate una questione centrale in tutto il mondo). Il Covid-19 sta quindi accelerando la tendenza alla diversificazione delle catene di produzione internazionali, ma anche il trasferimento di determinate industrie (prodotti farmaceutici, ecc.) a livello nazionale o regionale, dove cioè risulta più semplice ed efficace il controllo politico dei governi locali da parte delle potenze capitaliste.

Ragionando in questi termini, possiamo comprendere meglio l’aggressività degli Stati Uniti in Medio Oriente, in Iran, ma soprattutto in America Latina. L’imperialismo nordamericano ha già svolto un ruolo importante nel colpo di stato istituzionale contro Dilma Rousseff (2016) in Brasile e nella detenzione arbitraria dell’ex presidente Lula Da Silva (2018) . Ha anche giocato un ruolo importante in Bolivia durante il colpo di stato militare e di polizia che ha rovesciato Evo Morales. Oggi gli USA aumentano la pressione su Cuba e sul Venezuela, dove recentemente un gruppo paramilitare, addestrato da mercenari nordamericani, ha cercato di rovesciare Nicolas Maduro.

Verso la seconda fase: crisi politiche e lotte di classe

La crisi sanitaria e l’aggravarsi della crisi economica hanno contribuito a minare non solo le basi delle relazioni internazionali, ma anche i rapporti tra le varie classi all’interno dei singoli paesi. L’unità nazionale di fronte alla pandemia, sostenuta dalla maggior parte dei governi, è servita nella prima fase della crisi a dare un’apparenza di stabilità a regimi politici deboli come in Spagna o a sistemi politici profondamente segnati dalle lotte di classe come Cile e Francia. Questo clima di unità nazionale è destinato però a sfaldarsi sotto i colpi della crisi sanitaria e a causa delle brutali conseguenze della recessione.

Segnali che testimoniano l’esaurimento della fase di stabilità politica manifestata all’inizio della crisi sanitaria emergono ora seppur lentamente e con sfumature diverse a seconda dei contesti. In Spagna il Partito Popolare (PP), principale partito di opposizione, sta minacciando di non sostenere più i provvedimenti del governo e di votare contro l’estensione delle misure di contenimento. Negli Stati Uniti, la popolarità del presidente è in calo. Le intenzioni di voto per le elezioni presidenziali di Novembre favoriscono Joe Biden (53%) contro Trump (42%). La polarizzazione politica accelera, come testimoniano le dimostrazioni armate contro le misura di contenimento da parte di gruppi di estrema destra in Michigan e le divisioni nel partito democratico a seguito dell’annullamento delle primarie a New York. In Bolivia la cancellazione delle elezioni da parte del governo golpista di Añez ha ulteriormente polarizzato la situazione politica. Le tensioni tra l’opposizione del MAS, maggioritario in parlamento, e governo sono sfociate in manifestazioni di piazza.

Il Brasile è l’esempio emblematico di queste crisi di regime. La crisi è iniziata a seguito dell’atteggiamento negazionista di Bolsonaro di fronte alla pandemia: il presidente ha deciso di non assumere misure di contenimento per non bloccare l’economia del paese. Ma l’odio contro il presidente non ha tardato a manifestarsi, soprattutto nelle più grandi città del paese. Di fronte al negazionismo di Bolsonaro si è rafforzata la posizione dei governatori delle grandi città come Rio de Janeiro o San Paolo, che hanno applicato misure di contenimento. Le divisioni in seno al regime spingono le forza armate a comportarsi da “arbitro” della situazione, togliendo peso politico al presidente. La crisi politica si è ulteriormente aggravata a seguito delle dimissioni del ministro della Giustizia, l’influente Sergio Moro, e della possibile apertura di un processo di impeachment.

Sebbene il Brasile non abbia conosciuto fenomeni di lotta di classe negli ultimi mesi, la debolezza dei regimi apre brecce alle lotte di classe. E questo proprio quando le conseguenze della crisi economica e sanitaria spingono sempre di più i lavoratori e le classi popolari a ribellarsi.

L’offensiva della borghesia, l’improvvisa perdita di reddito e di posti di lavoro danno origine a diversi fenomeni di lotta di classe: ricordiamo l’ondata di scioperi che ha attraversato gli USA a metà aprile per rivendicare migliori condizioni di lavoro, gli scioperi in Messico da parte dei lavoratori delle maquiladoras [stabilimenti industriali posseduti o controllati da soggetti stranieri, in cui avvengono trasformazioni o assemblaggi di componenti esportati da paesi maggiormente industrializzati, ndt], le manifestazioni in Bolivia contro il governo golpista e le rivolte in Colombia, Venezuela e Panama da parte della popolazione ridotta alla fame.

Le rivolte della fame che hanno scosso il Libano dalla fine di aprile sono l’esempio più lampante che le conseguenze della crisi economica hanno dato nuovo vigore alle lotte di classe. Come altri paesi del mondo, il Libano vive forti tensioni sociali dalla fine del 2019, ma la fase che si sta aprendo adesso segna una evidente radicalizzazione. Afferma Al Jazeera:

Mentre un tempo a manifestare erano folle variegate di persone e famiglie con bambini al seguito, con bandiere libanesi e cartelli, adesso sono sempre più spesso giovani uomini e donne a scendere in strada, pietre e molotov alla mano.

Sotto la pressione dell’emergenza sanitaria, le lotte della prima fase riguardavano solo specifici settori ed erano mirate, avendo come obiettivo la chiusura dei settori produttivi non essenziali. Quelle che emergono oggi sotto i colpi della crisi economica hanno una portata più generale e sono dirette contro il regime in quanto tale. Emergono i primi segnali di quelle “tempeste sociali, insurrezioni e rivoluzioni” da cui ci hanno messo in guardia i media borghesi come Bloomberg. È in questa prospettiva che dobbiamo prepararci e avanzare verso l’obiettivo dell’unione organizzata degli sfruttati e degli oppressi.

Philippe Alcoy

Traduzione di Ylenia G. da Révolution Permanente

Redattore di Révolution Permanente e della Rete Internazionale La Izquierda Diario. Vive a Parigi e milita nella Courante Communiste Revolutionnaire (CCR) del NPA.