Riportiamo in video e come testo l’intervista a Emilio Albamonte, dirigente del Partido de Trabajadores Socialistas (PTS) d’Argentina, nello speciale #trotsky2020 dedicato all’attualità dell’idee del rivoluzionario russo Lev Trotsky, morto il 21 agosto 1940, 80 anni fa, ucciso dal sicario stalinista Ramon Mercader.
La redazione di TvPts, che si occupa della produzione multimediale che ruota attorno al giornale online del PTS La Izquerda Diario, intervista Emilio sulla situazione politica contemporanea, sul significato e la validità delle idee di Trotsky oggi, sul legame tra crisi, lotta di classe e programma rivoluzionario oggi.
Per concludere questo atto di omaggio a Lev Trotsky, abbiamo pensato, da TvPts, di farti una serie di domande per riflettere sul significato storico di Trotsky e della sua corrente, nonché sul momento attuale del trotskismo in questa situazione di crisi economica, politica e sociale acuita dalla pandemia del Coronavirus. Per cominciare, qual è il significato storico del teorico e politico rivoluzionario che oggi onoriamo?
Sì, per le nuove generazioni, al momento del suo assassinio Trotsky era una figura temuta. Non solo dallo stalinismo, ma da tutti i governi capitalisti. Winston Churchill lo aveva descritto, anche in esilio, in isolamento, come “l’orco della sovversione internazionale”.
Negli anni ’30, nei campi di concentramento della Siberia ghiacciata, si sentivano centinaia di persone uccise a colpi di arma da fuoco gridare “Viva Trotsky!” Cosa significava quel grido di quei militanti bolscevichi, veterani, che in molti casi erano stati i protagonisti del ‘17 e avevano combattuto nell’Armata Rossa? È stata una protesta con l’ultimo respiro, contro la liquidazione della democrazia sovietica, dei consigli dei lavoratori e dei contadini, da parte della burocrazia che ha brutalmente frenato le conquiste della democrazia operaia. Era una protesta contro la collettivizzazione forzata e il massacro di milioni di contadini. Contro l’istituzione del gulag. Infine, contro l’espropriazione politica del potere della classe operaia e la costituzione di un regime totalitario.
Questo coraggio e questa lucidità è stata anche quella di molti seguaci di Trotsky in Occidente. Ricordiamoci di Rudolf Klement, che portava con sé i documenti di fondazione della Quarta Internazionale, e riemerse morto nella Senna, assassinato dalla GPU [la polizia politica staliniana, ndt], pochi giorni prima della conferenza di fondazione del settembre 1938. Ricordiamo Martin Monath, un giovane militante che nella Francia occupata dai nazisti organizzò delle cellule nell’esercito tedesco, dando un enorme esempio di fratellanza internazionale dei lavoratori, che furono scoperte e provocarono l’assassinio da parte della Gestapo di tutti i cospiratori- Pur fallendo nei loro obiettivi, sono riusciti a dare l’esempio di come milioni di vite umane avrebbero potuto essere salvate, se i grandi partiti socialdemocratici e stalinisti, invece di incitare l’odio sciovinista tra le nazioni, avessero sviluppato su larga scala la fraternizzazione tra i lavoratori, ora in uniforme.
Prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, gli operai avevano condotto enormi rivoluzioni che furono brutalmente tradite dai socialdemocratici e dagli stalinisti, come le rivoluzioni cinesi del ’27 e del ’28, la grande srivoluzione spagnola e la guerra civile degli anni Trenta, o l’ascesa degli operai in Francia, traditi dal Fronte Popolare. Solo Trotsky e i suoi seguaci in Occidente, imprigionati, esiliati e uccisi da nazisti, stalinisti e persino capitalisti “democratici”, si opposero alla politica suicida denunciata dai compagni tedeschi [nello speciale #Trotsky2020, ndr], che culminò nella Seconda Guerra Mondiale.
Insomma, il grido “Viva Trotsky!” delle centinaia di persone che affrontano il plotone d’esecuzione ha sintetizzato queste grandi lotte e queste grandi sconfitte della classe operaia internazionale.
Come si potrebbe definire la situazione dopo la morte di Trotsky?
Molte cose sono cambiate e altre no. Il fascismo fu sconfitto dagli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, come tutti sappiamo. La burocrazia stalinista è sopravvissuta per alcuni decenni dopo il trionfo dell’Unione Sovietica sui nazisti, per un periodo che sembrava realizzare il suo sogno di industrializzazione e socialismo in un paese, ma poi, inevitabilmente, l’economia ristagnava sotto le pressioni dell’imperialismo mondiale e i tentativi di rivoluzioni politiche in Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia furono sconfitti, facendo finalmente avverare una delle previsioni di Trotsky nel suo grande libro, La rivoluzione tradita, che la burocrazia al potere sarebbe diventata il restauratore del capitalismo.
È vero, ci sono stati molti cambiamenti, su tutto, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma come siamo arrivati alla situazione attuale?
Prima di tutto va detto che il movimento trotskista rimase decapitato. Deutscher la definì “una piccola barca con una grande vela”, che scomparve sotto il piccone stalinista. Nella situazione oggettiva, tutto è stato cambiato in modo che nulla cambiasse, come diceva lo scrittore italiano Lampedusa ne Il gattopardo.
Lo stalinismo fece un patto con gli accordi di Yalta e Potsdam con i vincitori capitalisti della guerra, con l’America e con l’Inghilterra, dove le zone di influenza furono divise, pur essendo ancora in competizione tra loro, per deviare o sconfiggere la rivoluzione internazionale. Non potevano, però, fermare grandi rivoluzioni come quella cinese, anche se sono riusciti a impedire che importanti processi di indipendenza nel mondo semicoloniale si facessero strada verso il socialismo.
Il capitalismo, che ha guadagnato qualche decennio di tregua rilanciando la produzione per coprire quanto distrutto in guerra, il famoso Piano Marshall, non solo ha continuato a sottoporci a crisi ricorrenti, come la crisi petrolifera degli anni Settanta, ma anche, spaventato dalle enormi lotte operaie dalla fine degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta, ha lanciato la grande controffensiva neoliberale, riuscendo a infliggere una grande sconfitta ai lavoratori non solo in Occidente ma anche conquistando per il capitale quelli che chiamavamo Stati operai, fondamentalmente Russia e Cina. Nonostante questi progressi, non ha potuto evitare la grande crisi del 2008, che ha aperto un ciclo di crisi storica, che ora si approfondisce con la pandemia. Sembra che stiamo vivendo non solo una crisi congiunturale del capitalismo, ma una crisi storica più simile a quella degli anni ’30 che non la serie di crisi a cui assistiamo dagli anni ’70 in poi.
Perché dici che assomiglia a una crisi storica come quella degli anni ‘30?
Guarda, prima di tutto, perché fa parte del ciclo aperto nel 2008. Nonostante i parziali recuperi, il capitalismo non è mai riuscito a ripristinare la situazione di crescita che esisteva prima di quest’anno. In questi primi mesi della pandemia, si è profilata la minaccia di massicci fallimenti aziendali, con la conseguenza di milioni di nuovi disoccupati, salari più bassi e povertà diffusa. Nel frattempo, gli Stati nazionali stanno attuando salvataggi multimilionari che aggravano i loro enormi debiti senza trovare soluzioni strutturali per le economie dei loro paesi.
La cosiddetta “globalizzazione” che ha segnato la storia degli ultimi decenni, ormai in crisi, ha aperto la strada all'”America First” di Trump, alle lotte per tecnologie come il 5G, alla ripresa della corsa agli armamenti, alle guerre commerciali con la Cina e alle tendenze nazionaliste nei vari Paesi, e insieme a questo, non dobbiamo dimenticare, a una rinnovata lotta di classe.
Sono state fatte molteplici analisi delle conseguenze economiche e sociali della crisi, ma si parla molto meno della lotta di classe come fattore decisivo.
Sì, come abbiamo visto nel corso del 2018 con i gilet gialli in Francia o con i grandi scioperi dei lavoratori guidati dai ferrovieri e dai collettivi contro la riforma delle pensioni, il mondo è stato scosso anche da un’ondata di rivolte per motivi economici, democratici e politici, da Hong Kong in Estremo Oriente, attraverso il Medio Oriente con Libano, Iran e Iraq, o il Nord Africa con Algeria e Sudan. E ha raggiunto il nostro subcontinente, l’America Latina, con la grande rivolta dei giovani e dei lavoratori cileni. Senza dimenticare le giornate rivoluzionarie in Ecuador, le grandi lotte dei lavoratori colombiani, la resistenza al colpo di Stato in Bolivia. Tutto questo per cercare di riassumere gli eventi degli ultimi anni. Ma dobbiamo ricordare che dopo la crisi del 2008, c’è stata una rivoluzione allora sconfitta in Egitto e un intero processo chiamato primavera araba, e grandi azioni di massa in paesi decisivi come la Turchia, la Spagna e il Brasile. Si parla poco della lotta di classe, ma è molto presente dall’inizio della crisi del 2008.
Oggi, quasi all’inizio di questa nuova fase della crisi esacerbata dal coronavirus, assistiamo alla più grande mobilitazione nella storia di afrodiscendenti e di sfruttati nel cuore razzista dell’imperialismo americano.
Come definiresti, allora, la situazione attuale nel suo complesso?
Guarda, se devo definirlo in poche parole, mi sembra che stiamo entrando in una nuova fase in cui si stanno aggiornando le caratteristiche dell’epoca imperialista, che Lenin, Trotsky e la Terza Internazionale chiamavano crisi, guerre e rivoluzioni.
Quali sono le condizioni oggettive per far avanzare i marxisti rivoluzionari? Quali sarebbero le condizioni soggettive perché questa fase non si concluda con nuove sconfitte e frustrazioni? Quali sono le possibilità delle rivoluzioni socialiste?
Cercherò di rispondervi sinteticamente, ma è una domanda che meriterebbe una risposta molto lunga. Devo cominciare dicendo che come equilibrio del XX secolo, nonostante il carattere pompieristico dello stalinismo e della socialdemocrazia, ci sono stati grandi processi rivoluzionari. Molti di loro sono stati sconfitti o deviati dai loro obiettivi socialisti da vari tipi di direzione politica. Già nel 1906, riferendosi alla socialdemocrazia tedesca, che all’epoca aveva milioni di voti e di iscritti e guidava gran parte dei sindacati, Trotsky prevedeva che, per il carattere centrista della sua direzione, essa potesse trasformarsi in un fattore enormemente conservatore in situazioni acute. Questo è stato previsto un decennio prima che la Socialdemocrazia votasse in parlamento i crediti che hanno permesso la carneficina della prima guerra mondiale. Così come tutti i potenti partiti europei della Seconda Internazionale. Si sono schierati in difesa delle loro patrie borghesi e hanno tradito i loro giuramenti per affrontare la guerra con scioperi generali coordinati. Questo tipo di tradimento è stato ripetuto e poi ampliato dagli stalinisti di ogni tipo. Questa divenne una linea d’azione comune, che comprendeva anche le guerre tra paesi che avevano sconfitto il capitalismo.
Il carattere rivoluzionario del trotskismo nella vita di Trotsky non è in dubbio; lui e la sua corrente si sono opposti e hanno proposto alternative rivoluzionarie di fronte a tutto questo ciclo di grandi rivoluzioni e tradimenti.
Dopo la morte di Trotsky e la seconda guerra mondiale, lo stesso movimento trotskista, ormai decapitato, divenne consigliere di quei grandi partiti riformisti o, all’altro estremo, si rifugiò in posizioni propagandistiche settarie, non poteva allora essere un’alternativa a questo corso che si concluse con la perdita, per mano del capitalismo e dell’imperialismo, di molte delle grandi conquiste della classe operaia.
Allora, pensi che la situazione soggettiva sia molto negativa per la grande crisi che stiamo affrontando?
Sì e no. Dobbiamo vederlo in modo dialettico. L’esistenza dell’URSS e le rivoluzioni trionfanti hanno dato grande autorità a dirigenti come i maoisti o la leadership cubana nel nostro continente, per proporre politiche di conciliazione di classe che avessero un impatto qualitativo in modo che ogni nuova rivoluzione fosse deviata o tradita.
Molte volte combinate con politiche di estrema sinistra, come la strategia di guerriglia imposta dai cubani negli anni Settanta nel nostro continente.
La storia del XX secolo ha visto alcune rivoluzioni trionfanti sotto una leadership stalinista o borghese, che, invece di lottare per l’estensione delle loro conquiste, avevano come obiettivo la realizzazione del “socialismo in un unico paese”. Processi che dopo alcuni successi nei primi decenni, sono andati indietro, hanno ristagnato e infine trasformato le principali burocrazie in restauratori del capitale, provocando una profonda retrocessione politica nella classe operaia, non solo in quei paesi, ma a livello internazionale.
Il lato positivo di questa tragedia storica è che oggi, di fronte alla crisi che stiamo affrontando, non ci sono enormi apparati con milioni di militanti e prestigio per fermare, deviare e infine sconfiggere i processi rivoluzionari che si stanno aprendo.
Per fare un piccolo esempio, i nostri giovani compagni cileni, che formano il PTR, sono riusciti a fare un coordinamento ad Antofagasta, nel nord del paese, nella zona mineraria, e hanno ottenuto per lo sciopero generale un fronte unico con il sindacato CUT, guidato dal partito comunista che ha chiesto un atto comune di tutta la regione nel bel mezzo dello sciopero e della rivolta, che ha raccolto più di 20 mila lavoratori.
Ciò era impossibile, naturalmente, negli anni ’70, quando il PC aveva decine di migliaia di militanti, faceva parte del governo e finì per sostenere la mostruosità di mettere Pinochet nel gabinetto di Allende, il che permise ai capi del colpo di Stato di controllare tutte le posizioni un mese prima del colpo di stato.
Se, da un punto di vista, questo ciclo di sconfitte e resistenze ha indebolito il morale e anche la struttura del proletariato, dal punto di vista degli ostacoli da affrontare, stiamo molto meglio. Questi apparati consegnarono conquiste e rivoluzioni a costo di svalutare se stessi e di perdere la maggior parte dell’egemonia che esercitavano sulle classi lavoratrici.
Per concludere la risposta alla vostra domanda, la profondità della crisi che si manifesterà nel prossimo periodo e la debolezza di qualsiasi tipo di direzione riformista o burocratica è un vantaggio per noi trotskisti, se sviluppiamo e rafforziamo l’accumulo di quadri e dirigenti che abbiamo raggiunto in molti paesi, possiamo svolgere un ruolo decisivo nell’ascesa dei lavoratori che incombe: forse molto di più di quello interpretato dai trotskisti nelle precedenti crisi e promozioni.
Dove si esprime oggi il movimento di massa?
I socialdemocratici riformisti sono diventati apertamente neoliberali. Anche i grandi partiti stalinisti di massa, come quello italiano, sono diventati direttamente neoliberali. I partiti “comunisti”, come in Francia, in Uruguay o in Cile, sono incomparabilmente più deboli oggi di allora. Le nuove formazioni riformiste, o neo-riformiste come le chiamiamo noi, come Syriza e Podemos, sono essenzialmente fenomeni elettorali, senza militanza, e sono quindi anche espressione di questa debolezza.
Per rispondere alla vostra domanda su un altro piano: settori importanti delle masse, con grandi differenze tra i vari paesi, continuano ad esprimersi nei sindacati, che, pur essendo impotenti e senza prestigio, sono il luogo centrale dove spesso si esprimono le lotte dei lavoratori.
Per questo bisogna lavorarci dentro.
I loro dirigenti burocratizzati oscillano tra richieste di riforme generalmente impotenti, quando non diventano direttamente agenti della controrivoluzione, come hanno fatto in Argentina negli anni ’70, nell’ambito delle Tre A che uccisero 1500 dei migliori attivisti dei lavoratori prima del 24 marzo 1976.
Nel Programma di transizione, Trotsky afferma che i sindacati non raggruppano, nel migliore dei casi, più del 25% della classe operaia, ma che molte volte, in essi e nelle loro organizzazioni di base, negli organi delegati, nelle commissioni interne, ecc. si trovano i settori più coscienti e organizati. Per questo Trotsky sostiene che chi volge le spalle ai sindacati, volge le spalle alle masse.
È necessario aumentare il peso militante all’interno dei sindacati per rimuovere le direzioni burocratizzate dai loro scranni, per ottenere appelli alla lotta affinché nell’azione stessa, per quanto minima, la classe operaia porti a compimento l’esperienza con questa casta marcescente e ci permetta di conquistare i sindacati per una lotta di classe coerente.
Naturalmente, la lotta all’interno della minoranza sindacalizzata della classe operaia non è sufficiente per guidare le grandi masse che entrano in combattimento in un processo rivoluzionario. Dobbiamo avanzare un programma che stabilisca l’egemonia dei lavoratori sull’immensa massa di lavoratori precari e informali che la crisi fa crescere di giorno in giorno. La lotta per il recupero delle nostre organizzazioni è inseparabile dall’unire le fila dei lavoratori, oggi divisi tra occupati, precari e disoccupati, avendo anche una politica verso l’imponente movimento di lotta delle donne, il movimento nero, quello degli immigrati e verso i ceti medi in rovina perché non siano conquistati dalla destra.
Tutto questo dovrebbe incoraggiarci. Se la crisi si svilupperà e agiremo bene, avremo la possibilità di formare partiti con un’influenza di massa e di rifondare la Quarta Internazionale. E in questo speriamo di convergere con le tendenze del nostro movimento che cercano, come noi modestamente facciamo, di far emergere un programma e una strategia coerente.
Senza andare oltre, il successo della Rete Internazionale La Izquierda Diario, con milioni di visualizzazioni duranti i picchi della lotta di classe, e che vengono pubblicate quotidianamente in più lingue, sembra anticipare questa prospettiva.
Dici che si sta aprendo un’opportunità per i trotskisti di costuire partiti rivoluzionari in diversi paesi e di ricostruire la Quarta Internazionale. Ma cosa significa essere un trotskista oggi che il XXI secolo è già a buon punto?
Sì, com’è difficile dirlo in poche parole! Alcuni compagni ci dicono che la definizione di “trotskista” si riferisce solo a un “problema ideologico” che implica che non è fondamentale dal punto di vista dello sviluppo di una pratica rivoluzionaria oggi. Non è un semplice problema di “nomi”. Quando parliamo di “trotskismo” non ci riferiamo a un’ideologia a sé – come può essere quella di professare questa o quella religione, essere cattolici, protestanti o buddisti – ma a una teoria con basi scientifiche che fonda un programma e una strategia affinché gli sfruttati possano vincere nella loro lotta contro gli sfruttatori. Tutto questo è condensato nella teoria-programma della Rivoluzione Permanente e nel Programma di Transizione, che ci danno in qualche modo un GPS per percorrere la strada che porta al trionfo della classe operaia e degli oppressi sia a livello nazionale che internazionale.
Per le nuove generazioni, qual è la teoria del trotskismo?
I compagni che mi hanno preceduto hanno spiegato diversi aspetti della teoria della rivoluzione permanente.
Già nel XXI secolo è chiaro che è solo un’illusione pensare che i paesi arretrati, o cosiddetti sottosviluppati, si svilupperanno e libereranno centinaia di milioni di persone che vivono in miseria in tutto il mondo dalle mani delle borghesie locali, legate da uno e mille legami con il capitale finanziario internazionale.
In America Latina fino a pochi anni fa abbiamo vissuto un ciclo di ascesa di chi scommetteva sullo sviluppo delle famose borghesie nazionali, come Lula, i Kirchner o Chavez. La sola vista del disastro in cui il Venezuela è rimasto dopo due decenni di chavismo, ci impedisce di dover parlare ancora molto. Incolpare solo i blocchi e i tentativi di golpe imperialista è solo una scusa per i seguaci di quei governi.
Solo paesi come la Russia o la Cina, che hanno condotto enormi rivoluzioni in cui la borghesia è stata espropriata, anche se esse sono degenerate o nate già deformate, sono riusciti a uscire dall’arretratezza e dalla dipendenza, anche se il dominio delle burocrazie stalinista e maoista hanno finito per bloccare queste rivoluzioni nei confini nazionali e portare alla restaurazione del capitalismo.
Ancora una volta, la teoria della rivoluzione permanente ha mostrato la sua superiorità contro le pseudo teorie del socialismo in un solo paese.
Questa teoria riguarda solo i paesi arretrati?
No. Nei paesi avanzati i compiti sono direttamente socialisti, cioè non è necessario liberarsi dalle caste terriere o dall’imperialismo che applica meccanismi di oppressione e di saccheggio, i lavoratori lì potranno poi arrivare alla presa del potere, perché dovranno affrontare una borghesia molto più forte, ma essendo paesi avanzati con un’alta produttività del lavoro, se prenderanno il potere, oltre a liberare contestualmente i paesi arretrati, potranno avanzare molto più rapidamente nella lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, cioè per gli obiettivi comunisti del nostro programma. Il fatto che i lavoratori tedeschi, guidati dalla socialdemocrazia e dallo stalinismo, non abbiano trionfato né nel ’21, ’23 né nel ’29, non solo ha permesso l’ascesa di Hitler, ma ha anche lasciato la Russia da sola in mezzo all’arretratezza, il che spiega gran parte dell’ascesa della burocrazia stalinista, come ha spiegato il compagno tedesco nel suo intervento. Immaginate se l’alto livello scientifico e tecnico dei lavoratori tedeschi fosse stato legato alla prontezza di combattimento dei lavoratori e dei contadini russi, avremmo evitato lo stalinismo, il fascismo e la stessa Seconda Guerra Mondiale. Questi erano il programma e la strategia di Lev Trotsky.
Qual è il programma per far sviluppare le mobilitazioni?
Per liberare il proletariato dal moderno sistema della schiavitù salariale sia nei paesi arretrati che in quelli avanzati, mi riferirò per qualche istante non solo alla fredda lettera del programma, ma al metodo con cui esso può farsi carne tra le grandi masse.
I milioni di persone che si mobilitano quando scoppiano processi rivoluzionari non avanzano nella loro coscienza attraverso la semplice propaganda. Solo una minoranza di lavoratori avanzati che formano l’avanguardia e più specificamente la militanza dei partiti rivoluzionari, può raggiungere una coscienza rivoluzionaria con questo mezzo. Trotsky scrive il Programma di transizione nel 1938 partendo da questa premessa. Proseguendo la tradizione dei primi anni della Terza Internazionale, cerca di stabilire un ponte tra le richieste e le esigenze attuali dei lavoratori e quegli slogan che portano alla presa del potere.
Per farvi un semplice esempio:
La crisi, se si aggrava, porterà alla chiusura di fabbriche e aziende, quindi cosa possono fare i lavoratori di quelle aziende in uno scenario in cui ci sono sempre più disoccupati? Prenderle in consegna e metterli in produzione sotto il controllo dei lavoratori stessi, chiedendo la nazionalizzazione senza indennizzo, dice il programma di transizione. Nel mio paese [l’Argentina, ndr] c’è una grande esperienza in questo senso, dove noi trotskisti siamo stati all’avanguardia in questo tipo di iniziative. Se la situazione che stiamo descrivendo dura diversi anni e ha il potenziale per diventare rivoluzionaria, come noi prevediamo oggi, questo si porrà non in una o due fabbriche ma in interi rami della produzione e dei servizi, il che implicherebbe un livello di pianificazione generale, con la possibilità di farne una scuola di pianificazione socialista. Ma poi viene la domanda: con quali risorse finanziarie queste imprese funzioneranno nel bel mezzo della crisi? O funzioneranno senza risorse sulla base di salari che non coprono le basi della sussistenza, simili ai sussidi per i disoccuati? Solo se le banche private vengono espropriate e tutti i risparmi nazionali vengono unificati in un’unica banca, i lavoratori possono evitare che queste risorse finanziarie vadano in speculazione e fuga di capitali e quindi ottenere il denaro per il funzionamento di quelle imprese e industrie, preservando naturalmente il risparmio del piccolo risparmiatore che viene sempre truffato dai banchieri. Qualcosa di simile accade con gli investimenti: come si procureranno gli investimenti necessari per queste industrie, la valuta estera, cioè i dollari che sono necessari per acquistare ciò che deve essere importato dall’estero? Come faranno ad aggirare il ricatto e le negoziazioni delle corporazioni capitaliste che controllano il commercio internazionale dei paesi? In Argentina, ad esempio, questo commercio è controllato da una manciata di aziende cerealicole transnazionali e proprietari terrieri. I lavoratori devono imporre il monopolio statale del commercio estero per esercitarlo nell’interesse della maggioranza.
Quello che ho detto è un mero esempio che indica che quando la crisi è profonda e i lavoratori entrano in una fase rivoluzionaria, la loro coscienza cambia e avanza man mano che vivono i problemi che devono affrontare. Non si tratta solo di fare propaganda, anche se bisogna fare molta lotta teorica e ideologica, ma di sollevare in ogni momento gli slogan giusti affinché i lavoratori possano progressivamente risolvere le enormi difficoltà che dovranno affrontare. Tutto questo è vero, purché si tenga conto del fatto che non solo abbiamo nemici esterni, come i capitalisti e i loro Stati, ma anche interni, come i dirigenti burocratizzati dei sindacati o i movimenti sociali, che cercheranno, con l’inganno e/o la repressione in ultima istanza, di rafforzare i pregiudizi riformisti dei lavoratori stessi dicendo loro che nulla è possibile se non essere mendicanti dell’assistenza statale o padronale.
Dove entra in gioco il programma su come i lavoratori devono organizzarsi?
Il Programma di transizione propone che intorno alla lotta per le sue rivendicazioni la classe operaia possa e debba sviluppare la sua auto-organizzazione per strappare i sindacati dalle mani della burocrazia che li subordina allo Stato per trasformarli in agenti dei piani di austerità degli stessi capitalisti, e che in questo modo debba avanzare nella costituzione di organizzazioni veramente democratiche in grado di riunire tutti i settori in lotta e di garantire anche l’autodifesa contro la repressione e le bande parastatali.
I lavoratori russi, e poi i lavoratori di numerose rivoluzioni, hanno creato organizzazioni di gran lunga superiori ai sindacati. Il loro nome originale era soviet, che non significava altro che “consiglio” e univa i lavoratori della città al di sopra dei sindacati con delegati revocabili incaricati dai loro colleghi di discutere e centralizzare le risposte a qualsiasi problema creatosi in quella situazione di lotta di classe.
Vi faccio un piccolo esempio. È impossibile parlare oggi dell’egemonia dei lavoratori, che sono coloro che controllano le leve dell’economia su altri settori oppressi, senza organi di democrazia diretta che facciano convergere la lotta dei lavoratori con i potenti movimenti che si sono espressi negli ultimi decenni, come l’imponente movimento delle donne e delle dissidenze sessuali, o i movimenti antirazzisti e la lotta contro le catastrofi ambientali.
Solo questo tipo di organizzazione, di gran lunga superiore a quella dei sindacati, può unificare e centralizzare tutte le rivendicazioni.
Qual è l’obiettivo finale del programma?
Comincerò con il penultimo.
L’obiettivo è che intorno a questa esperienza la classe operaia e i settori oppressi giungano alla conclusione della necessità di conquistare il proprio potere. Una repubblica operaia, quella che Marx chiamava la “dittatura del proletariato”.
Così come la borghesia, sotto regimi democratici o autoritari, mantiene sempre la dittatura del capitale imponendo costantemente i propri interessi, il proletariato deve imporre gli interessi delle grandi maggioranze operaie e popolari. Una repubblica operaia che funziona sulla base della democrazia di chi lavora, attraverso consigli di delegati eletti per unità di produzione, azienda, fabbrica, scuola, ecc., in modo che i lavoratori governino nel senso più ampio del termine, non limitandosi a votare ogni due o quattro anni, ma definendo quotidianamente il corso politico della società e la pianificazione razionale delle risorse dell’economia.
In altre parole, i consigli dei lavoratori sono passati dall’essere organi di centralizzazione della lotta ad essere la base di un nuovo Stato, dei lavoratori.
Ti facciamo ora una delle domande più difficili: come togliere il potere ai capitalisti e alle loro forze armate e di sicurezza?
Posso risponderti in termini generali.
Ricordo un recente articolo della New Left Review, dove il sociologo socialdemocratico di sinistra Wolfgang Streeck analizza il pensiero militare di Engels e porta il dibattito ai giorni nostri per dire che i progressi tecnologici, lo sviluppo dei droni per gli omicidi selettivi, per esempio, o lo sviluppo di sofisticati sistemi di spionaggio informatico, significano che qualsiasi prospettiva rivoluzionaria deve essere oggi esclusa.
Questa è una discussione della prima importanza, in quanto tratta la possibilità o meno di una rivoluzione. L’errore fondamentale della tesi di Streeck è quello di ridurre la forza al suo aspetto tecnico-materiale. Trotsky è partito dalla tesi del generale prussiano Clausewitz secondo cui non si tratta solo di “forza fisica”, ma anche del suo rapporto con quella che lui chiamava “forza morale”. Nel caso di una rivoluzione operaia, il numero dei lavoratori e dei loro alleati, che è infinitamente maggiore di quello di qualsiasi esercito o coscritto professionale; e la loro volontà di portare la lotta fino alla fine. A questo si aggiunge, naturalmente, la qualità della direzione, che non può essere improvvisata nella lotta stessa.
Vediamo alcuni esempi.
Un secolo fa Trotsky analizzò il caso delle ferrovie, che all’epoca erano un enorme progresso perché permettevano agli eserciti di trasportare le truppe nelle città in poche ore. Rispose che non si deve dimenticare che una vera e propria insurrezione di massa comporta prima di tutto lo sciopero che paralizza le ferrovie stesse. Oggi potremmo dire qualcosa di simile con i sofisticati sistemi di informazione della polizia di cui parla Streeck, cosa succede se i lavoratori delle telecomunicazioni abbassano gli interruttori, o i lavoratori dell’elettricità tagliano la fornitura a certi luoghi, come fanno di solito i lavoratori in Francia? La borghesia può avere armi migliori e più mezzi di repressione, ma sono i lavoratori che muovono la società, e una vera e propria insurrezione di massa comporta uno sciopero generale, che è alla base di ogni insurrezione.
Già Hannah Arendt, non sospettabile di trotskismo, riteneva che la guerra civile spagnola avesse dimostrato che gli operai guidati dagli anarchici, armati di fucili e coltelli, con il loro enorme numero e grazie alla divisione in seno alla classe dominante, erano riusciti a trionfare nelle città dove dominavano, sconfiggendo l’esercito molto professionale di Franco sollevato contro la Repubblica. La Arendt concludeva che, in situazioni rivoluzionarie, non si può contare solo sul numero e sulla capacità tecnica delle forze dell’ordine, ma si deve anche vedere la volontà degli oppressi di combattere e la volontà dei repressori di sparare.
L’obiettivo principale delle milizie operaie è quello di far dubitare e paralizzare tale volontà repressiva.
Perché hai detto che era il penultimo obiettivo del programma?
Semplicemente perché il fine ultimo è il comunismo, un concetto che è stato imbastardito per gran parte del secolo scorso dallo stalinismo e dai cosiddetti “socialismi reali”. Si tratta di recuperare la lotta per una società senza classi sociali, senza Stato, senza sfruttamento e senza oppressione. Questo è il comunismo. Non può mai essere una questione nazionale, ma il prodotto dell’unione e del coordinamento di tutte le forze produttive dell’umanità a livello internazionale e, in ultima analisi, globale. Questo aumenterà all’infinito la capacità produttiva della nostra specie per liberare gli esseri umani dal lavoro forzato brutalizzante. Ricordiamo che la parola “trabajo” (lavoro in spagnolo), deriva da uno strumento di tortura applicato dai romani agli schiavi, chiamato “trepalium”.
Una buona parte della filosofia del XX secolo è stata dedicata a insistere unilateralmente sui mali della tecnologia. Queste visioni negative vanno da quelle dell’estrema destra, come quella del simpatizzante e affiliato nazista Martin Heidegger, attraverso i postmodernisti, a quelle della sinistra socialdemocratica, come Adorno e Horkheimer. Senza andare oltre, oggi possiamo vedere molte serie che raccontano distopie, dove la tecnologia domina gli esseri umani nello stile di Black Mirror. Macchine che schiavizzano masse amorfe e indifese di persone che non possono resistere al loro dominio. Non stanno facendo previsioni, stanno esacerbando alcune caratteristiche della dittatura delle grandi multinazionali e dei loro stati nell’odierno capitalismo.
Solo i rivoluzionari marxisti possono immaginare il potenziale dei progressi della scienza e della tecnologia per ridurre a un minimo insignificante il tempo che ogni individuo dedica al lavoro come un’imposizione in una società non capitalista. Non possiamo dimenticare che le decisioni strategiche sulla progettazione, l’uso e lo sviluppo delle tecnologie sono prese dalle persone, non dalle macchine stesse. Non siamo schiavi dei robot, ma viviamo sotto il dominio delle multinazionali e dei loro stati, la schiavitù moderna è quella del lavoro salariato. Tutto, compresa la scienza e la tecnologia, è subordinato a questo comando.
Lo sviluppo della scienza e della tecnologia permette di ridurre il tempo di lavoro socialmente necessario per la produzione dei beni di cui abbiamo bisogno per vivere. Ma come diceva Marx, sotto il capitalismo, questo non si trasforma in più tempo libero per le grandi maggioranze, ma in masse di disoccupati, sottoccupati e precari che vivono in miseria ad un polo della società, e all’altro, ogni altra parte della classe operaia che è costretta a impiegare la vita nel lavoro con 13 o 14 ore al giorno. Tutto a beneficio dei capitalisti e delle loro grandi multinazionali, e per far sì che 25 miliardari abbiano la stessa ricchezza di metà dell’umanità, distruggendo il pianeta e la natura.
La conquista del potere da parte della classe operaia permetterebbe di porre fine a questa assoluta irrazionalità e di distribuire le ore di lavoro, distribuendole in modo equo, garantendo allo stesso tempo uno stipendio secondo le esigenze sociali. La prospettiva della rivoluzione socialista, appunto, è quella che può aprire la strada nel XXI secolo per mettere gli enormi progressi della scienza e della tecnologia al servizio della liberazione dalla schiavitù salariale, compreso il lavoro domestico, dispiegando così tutte le capacità umane in un rapporto equilibrato e non predatorio con la natura. Pertanto, quando parliamo di lotta per uno Stato operaio, ci riferiamo a uno Stato di transizione verso una società senza classi, dove lo Stato scompare nella sua funzione repressiva.
Come ha sottolineato Trotsky, lo scopo del comunismo è quello di sviluppare la tecnica in modo che l’ambiente che lo circonda dia all’essere umano tutto ciò di cui ha bisogno e molto di più, ma questo obiettivo risponde a un altro scopo superiore che è quello di liberare per sempre le facoltà creative dell’essere umano da tutti gli ostacoli, le limitazioni o le dipendenze umilianti e che le relazioni personali, la scienza, l’arte, non debbano più subire alcuna ombra di obbligo dispotico.
Vuoi aggiungere qualcosa come conclusione?
Sì, abbiamo ripassato velocemente i diversi problemi che stiamo affrontando. In questo giorno di commemorazione del tragico assassinio di Trotsky, penso che il miglior tributo che possiamo rendergli sia quello di svelare le opportunità che la crisi capitalista apre a noi rivoluzionari. Ecco perché questo video e questa intervista possono solo terminare dicendo
Viva la vita e l’eredità di Trotsky, dedicata a liberare gli sfruttati e gli oppressi di tutta la terra!
Viva la lotta per la ricostruzione della Quarta Internazionale!
Dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) argentino, co-autore con Matias Maiello di "Estrategia Socialista y Arte Militar" (Ediciones IPS, 2017).