Unione Popolare si presenta a queste elezioni come una lista in alternativa a tutte le altre. I presupposti su cui è costruita e il suo programma, però, rendono chiaro che questa “alternativa” non rappresenta la soluzione all’assenza di una forte sinistra anticapitalista e centrata sulla lotta di classe.


La natura e i limiti di Unione Popolare e del suo programma

Partiti e gruppuscoli che si trovano alla sinistra delle forze riformiste sono soliti criticarle per la presentazione di programmi elettorali che non avrebbero niente di rivoluzionario. Si tratta di un’accusa sciocca. Niente di quanto possa essere scritto o detto ha un carattere rivoluzionario di per sé. L’unica cosa che trasforma meri proclami in un programma reale di cambiamento sociale e politico è il coinvolgimento diretto delle masse. E queste, come sappiamo, non possono essere chiamate ad agire neanche dal più coeso partito rivoluzionario che sia possibile immaginare. Qualsiasi programma elettorale ha quindi un doppio carattere: reale e fittizio. È fittizio, perché come ci ricorda la classica vulgata giornalistica, non ha alcuna possibilità di incidere in quanto tale sullo stato di cose presenti. Detto altrimenti, la differenza tra la rilevanza politica di Jean-Luc Mélenchon in Francia e la sostanziale irrilevanza di Luigi de Magistris in Italia non riguarda cosa possiamo trovare nei due programmi politici, così come non è questione terminologica – elemento per cui il copia-incolla del nome è operazione intellettualmente sciocca. Eppure, qualsiasi programma politico è anche reale perché svela la natura profonda di una forza politica e influenza militanti e simpatizzanti, sia all’interno del partito che, in reazione, all’esterno.

Nel complesso, Unione Popolare si caratterizza come una proposta politica neoriformista. Utilizziamo questa etichetta particolare, neoriformismo, innanzitutto per segnalare come esso non si ponga come un’espressione politica della classe lavoratrice e del suo movimento, a differenza del vecchio riformismo di origine socialdemocratica o stalinista. Data l’impossibilità di trattare in maniera estesa con l’intero programma elettorale di Unione Popolare, ci soffermiamo su tre elementi principali.

Per prima cosa, il linguaggio utilizzato. A differenza delle tradizionali forze socialdemocratiche che, per quanto immaginassero l’avvento del socialismo in senso gradualista, riservavano una centralità alla classe lavoratrice e rivendicavano la presenza di interessi contrapposti nella società, il riformismo odierno si caratterizza per riferimenti generici ai settori meno abbienti e mira ad una diversa redistribuzione delle risorse all’interno del contesto dato. Nel testo di Unione Popolare, la parola “lavoratori” o “lavoratrici” compare appena 9 volte. In 4 occasioni è, peraltro, riferita in modo specifico ai lavoratori autonomi. Al contrario, il termine “imprese” lo troviamo ben 11 volte e solamente in un passaggio è associato ad un aspetto negativo – nello specifico, le imprese che costringono i lavoratori ad aprire partite IVA (p. 4). Quasi sempre, il tono è più di stampo patriottico, di conciliazione tra le classi sociali, che socialisteggiante. Si va, ad esempio, “dal sostegno alle imprese che assumono giovani, anche con la riduzione della pressione fiscale e semplificazione amministrativa e burocratica” (p. 4) – misura sulla quale Unione Popolare troverebbe una convergenza con Forza Italia, secondo quanto recentemente dichiarato da Silvio Berlusconi – ad espressioni come “la nostra industria” (p. 2), oppure “al servizio degli interessi economici del paese” (p. 11) che svelano addirittura (lo diciamo senza alcun intento denigratorio, ma con fine analitico) una natura più assimilabile al corporativismo che al riformismo. Non meno sorprendenti sono altre scelte terminologiche. Il programma di Unione Popolare “è scritto dalla società civile” (p. 2) – concetto che, a differenza del carattere progressista che ricopre per il campo liberale, fa riferimento nella tradizione socialcomunista e secondo la classica interpretazione di Antonio Gramsci a quei corpi che creano consenso ed egemonia per la difesa dell’ordine esistente – e “con il contributo di esperti” (p. 2) – termine vago che sembra alludere al campo scientifico, non compreso però come produttore di un sapere che è determinato storicamente e socialmente, ma come necessariamente vero. Infine, non può non essere notato come una più forte tassazione degli extra-profitti delle aziende energetiche dovrebbe essere utilizzata, secondo Unione Popolare, “per aiutare famiglie e imprese” (p. 4). Proprio così, famiglie e imprese, come strombazzato da tutte le altre forze politiche. E qui sembra ovvio chiedere: perché non per aiutare lavoratori e lavoratrici?

Il secondo elemento sul quale ci vogliamo soffermare è forse il fattore sul quale la campagna elettorale di Unione Popolare si è più impegnata: ovvero, l’idea che quanto presentato sia l’unico programma pacifista e contro la guerra. La sezione specificatamente dedicata a questo tema è il capitolo terzo. Anche qui però, vi sono numerosi elementi critici. Due in particolare ci sembrano quelli maggiormente problematici. In prima battuta, si deve evidenziare come per Unione Popolare si debba “operare per il superamento della Nato” (p. 5). Questo rappresenta una svolta profonda rispetto alla tradizionale posizione di uscita incondizionata dalla Nato sostenuta a sinistra. Inoltre, al di là della vaghezza della formulazione, in assenza di come questo superamento dovrebbe avvenire, quanto affermato significa nei fatti permanenza all’interno dell’alleanza militare atlantica (che in realtà non è solamente atlantica, anzi). Il passaggio dedicato all’ONU non è meno problematico, dato che questa istituzione viene vista come garanzia della legittimità politica delle operazioni militari a livello sovra-statuale e che quindi andrebbe “rafforzata e sottratta ai veti incrociati delle superpotenze” (p. 5). Questa formulazione non solamente è indefinita – quali sono gli strumenti per superare i veti incrociati delle superpotenze? – ma rappresenta anche una chiara inversione della direzione causale della relazione – le superpotenze dominano l’ONU in quanto tali e non per le regole formali lì presenti (ad esempio, diritto di veto), che certamente contribuiscono in tal senso, ma che in nessun caso ne sono la fonte ultima. Il rafforzamento di qualsiasi entità sovra-statuale in un mondo dominato da relazioni capitalistiche è strutturalmente destinato a riprodurre le stesse dinamiche, per quanto questo possa avvenire con forme e strumenti diversi. Un programma di radicale rottura non guarda quindi a cosa fanno gli stati capitalistici quando si incontrano, ma a come e in che misura chi subisce le decisioni di questi può reagire e coordinarsi. Il focus sullo stato, in opposizione al processo di auto-emancipazione dal basso come sostenuto dal marxismo, è in definitiva il punto di legame tra stalinismo e socialdemocrazia. Unione Popolare non fa altro che riprodurlo su un terreno che è peraltro più arretrato di quanto storicamente fatto da queste due tradizioni.

Il terzo ed ultimo elemento riguarda quella che Unione Popolare considera come la parte più radicale del proprio programma: reale tassazione degli extra-profitti delle aziende energetiche, che dovrebbe salire dal 25 al 90 percento, e nazionalizzazione del settore energetico. Nessuna delle due misure è scorretta. Il problema però non è tanto quanto è presente, ma tutto ciò che manca. Si accenna agli extra-profitti, ma non si fa menzione dei profitti, accettando così una divisione che viene dal campo liberale, precisamente dal governo Draghi stesso. In maniera ancora più rilevante, si restringe la nazionalizzazione al solo settore energetico. Nel corso degli anni novanta, in gran parte per la spinta dei governi di centrosinistra, lo stato italiano ha privatizzato più di qualsiasi altro paese dell’Europa Occidentale. La lista dei settori privatizzati è lunghissima. In molti casi, gli effetti sono stati disastrosi da ogni punto di vista. In un programma politico generale – che non può avere la stessa profondità di un parziale slogan agitatorio – si tratta quindi di non rivendicare solamente la nazionalizzazione del settore dell’energia, ma anche di tutti gli altri. Ma anche questo non è sufficiente e sembra strano dopo il recentissimo caso di Ita Airways – nazionalizzazione con  il conseguente licenziamento di circa 10 mila lavoratrici e lavoratori – che Unione Popolare non abbia in alcun modo affrontato il problema. Nessuna nazionalizzazione garantisce un miglioramento delle condizioni di vita e della posizione politica della classe lavoratrice. Da una parte, si indennizza la stessa vecchia proprietà, quando essa ha già saccheggiato ricchezza dallo Stato e dai suoi dipendenti. Dall’altra, rimane la tendenza a macinare profitti e all’attacco ai lavoratori su pressione della borghesia nazionale che controlla lo Stato. Ecco perché va rivendicata la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio.Tale processo non si detta però dall’alto, ma emerge dal basso. Questo, si badi bene, non significa che sia spontaneo. Il processo si mette infatti in moto quando un posto di lavoro raggiunge un certo grado di avanzamento sindacale e politico, che è parzialmente il prodotto delle battaglie economiche, ma che se fosse esclusivamente ridotto a queste non raggiungerebbe mai il potenziale per far esprimere la richiesta di una nazionalizzazione sotto controllo operaio. Per questo tipo di domande serve che la classe lavoratrice sia già stata conquistata alle posizioni socialiste. E per questo è richiesto una forza politica che coscientemente lavori per attrarre a sé la parte più avanzata del movimento operaio. Qualcosa che Unione Popolare non ha fatto, non farà, e che soprattutto non è interessata a fare. Nell’ultima parte di questo articolo proveremo a dire perché.

Votare o meno per Unione Popolare?

Alla sinistra di Unione Popolare si trovano diverse migliaia di militanti che, a vario titolo, possiamo definire comunisti. La maggior parte di questi si trovano in piccole organizzazioni che, per quanto con numeri differenti, fluttuano sulla società. Mancano cioè di una reale piattaforma di intervento e di un collegamento sostanziale ed organico con quella parte della classe lavoratrice che in virtù del proprio posizionamento all’interno del processo di creazione e realizzazione del plusvalore riveste una centralità strategica. Come abbiamo più volte analizzato sulla nostra rivista Egemonia, quando questo collegamento è presente, piccole e piccolissime organizzazioni politiche possono assumere una certa centralità in importanti processi di mobilitazione. In assenza di questi, il loro peso rimane però irrilevante. E visto che le elezioni si basano proprio sul principio di “una testa un voto”, nessuna delle organizzazioni e dei singoli alla sinistra di Unione Popolare ha la minima speranza di spostare, anche solo limitatamente, l’esito del voto del 25 settembre. Detto altrimenti, quanto diranno e faranno è ininfluente a livello sistemico. Questo non significa però che ogni posizione sostenuta sia equivalente. Lo sforzo qui deve essere quello di produrre chiarezza con i propri militanti e simpatizzanti, così come nel dibattito tra le varie organizzazioni che si trovano in questa area politica e di fronte alla platea più larga di attivisti e attiviste della classe operaia e dei vari movimenti che guardano o guarderanno a sinistra.

Noi sosteniamo che sia scorretto dare indicazione di voto per Unione Popolare. Come abbiamo provato ad argomentare, il loro programma è uno sbiadito neoriformismo. Ancora più rilevante è però la natura della militanza, le prospettive politiche e la base elettorale di Unione Popolare. Questa formazione è un cartello elettorale di forze politiche che in genere non hanno né una militanza né un elettorato operaio, oppure ne fanno una componente tra le tante del soggetto “popolo”. Al contrario, Unione Popolare attrae un voto ideologico che è largamente urbano e piccolo-borghese. Come tale, questa non è in grado di creare quelle contraddizioni sistemiche che le forze socialdemocratiche possono innescare una volta al potere. Se Unione Popolare dovesse diventare una forza con una pattuglia parlamentare minimamente rilevante da renderla appetibile in termini di coalizione, seguirebbe con ogni probabilità la parabola di Podemos in Spagna – diventerebbe, cioè, l’ala sinistra del fronte liberista, così come è stata Rifondazione Comunista (non a caso parte di UP) nel governo Prodi 2006-08, giustificandosi parlando della possibilità di un proprio peso “determinante” come ha fatto De Magistris in un’intervista a Il Manifesto lo scorso 20 agosto. In particolare, la cosa rilevante dal nostro punto di vista è che questa finirebbe per capitolare senza produrre quelle spinte centrifughe che partiti con una base operaia e con aspirazioni di giustizia sociale possono attivare quando, giunti al potere, si crei uno sfasamento tra quanto promesso e quanto realizzabile di fronte alla reazione delle classi proprietarie e degli apparati dello stato. Unione Popolare non potrà mai diventare questo, in quanto ha invertito la sequenza politica – sfondamento elettorale prima, formazione di un’avanguardia di classe in partito poi (e semmai). Non sfonderà elettoralmente e non costruirà mai un partito con un radicamento nella classe lavoratrice. In tal senso, è uno strumento inutile anche in senso riformista. E come tale non deve essere sostenuto, nemmeno tatticamente, da chi si trovi alla sua sinistra. 

Ciò di cui continuiamo ad avere bisogno è di una sinistra anticapitalista, rivoluzionaria della classe lavoratrice: un possibile riferimento per tutti gli sfruttati e gli oppressi, senza il peso della tradizione bancarottiera dei vecchi riformismi socialdemocratici e stalinisti, senza l’unione con “progressisti patriottici”. Una politica da costruire innanzitutto nella classe operaia, nella gioventù, tra le donne, tra i soggetti oppressi, al calore delle loro lotte, per organizzare un’avanguardia politica nei loro stessi movimenti e costruirne una direzione rivoluzionaria, non solo un riferimento elettorale.

Gianni Del Panta

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).