Dopo il rimbalzo post-COVID, da vari mesi l’industria italiana è tornata ad arrancare, con il caso emblematico dell’automotive, questo venerdì 18 ottobre in sciopero. Nel frattempo, a fronte di salari stagnanti rispetto ai profitti e all’inflazione, aumentano le rivendicazioni dei lavoratori. Nell’articolo forniamo alcuni elementi per capire la crisi industriale in Italia e criticare gli argomenti dei padroni – ma anche di certi dirigenti sindacali – per tenere bassi i salari e non lottare.


Da oltre 18 mesi la produzione industriale dell’Italia è in calo, segnando a luglio -5,5% rispetto al livello medio del 2021, periodo di riferimento dell’ultimo rapporto ISTAT. Si tratta di un dato drammatico, considerando le restrizioni contro la pandemia che erano allora in vigore. La grave crisi è trainata dal settore automotive con -24,8% rispetto a luglio 2023, in parte legato al progressivo ridimensionamento della produzione di Stellantis, ma soprattutto è associato all’incipiente crisi dell’industria automotive tedesca, verso la quale la componentistica, soprattutto quella del triangolo Milano-Bologna-Venezia, si è orientata prioritariamente negli ultimi 2 decenni. In ogni caso, i dati mostrano un calo generalizzato dell’industria nel contesto di un trend di crisi più che ventennale del Belpaese.

L’unico settore che non sembra conoscere rallentamento è quello militare – come dimostra l’importante spostamento di asset dalla produzione civile verso l’industria bellica – con il serio rischio che la borghesia provi a “risolvere” il problema premendo ancora più sull’acceleratore dell’escalation bellica, come suggerisce lo stesso report di Mario Draghi.

Una crisi prodotta dal fallimento dei capitalisti italiani

Sebbene da una parte tutto questo rifletta una crisi produttiva che ha estensioni europee, la debolezza del capitalismo nostrano è radicata in quella del capitale transnazionale e multinazionale con base in Italia. I grandi gruppi industriali e finanziari italiani sono sotto-dimensionati nel confronto con gli altri paesi imperialisti: basti pensare che nella lista stilata ogni anno da Forbes, in cui sono elencati i 2000 gruppi capitalistici più grandi del mondo per fatturato, l’Italia ha solo 28 aziende contro 49 per la Francia e 53 per la Germania. Questo è associato a un gap nella ricerca e sviluppo in settori più innovativi, come i semiconduttori e il digitale, e più in generale a un potere monopolistico globale relativamente scarso. In questo contesto, le aziende italiane giocano spesso una posizione di fornitori relativamente subordinati nei confronti di gruppi giganti con base in altri paesi imperialisti, Germania in primis, come nel già citato caso della componentistica automotive del Nord-est. In un quadro del genere, l’imperialismo italiano subisce anche la competizione della Cina. Nel nostro paese, infatti, settori come il tessile – altro protagonista della picchiata produttiva di questi mesi – rimangono ancora relativamente più importanti rispetto ad altri centri imperialisti, mentre il gigante asiatico vede un crescente miglioramento del proprio posizionamento nelle cosiddette catene globali del valore. 

Il discorso declinista rispetto all’economia e in particolare all’industria italiana non va però estremizzato: essa rimane infatti in una posizione di leadership mondiale in produzioni ad alta intensità di capitale e tecnologia come i macchinari (Italia seconda per quota di mercato in Europa) e il farmaceutico (in cui l’Italia è stato il quarto esportatore mondiale nel 2023). Certo, in particolare dopo il periodo di grave recessione tra il 2008 e il 2011, uno dei modi in cui l’imperialismo italiano ha affrontato la propria crisi di profittabilità e il gap crescente con i competitor è stato rappresentato dall’attacco ai salari, dall’aumento dell’orario di lavoro, e dalla diffusione di contratti precari. 

Tuttavia, l’estrazione di “plusvalore assoluto” non ha soppiantato la centralità dell’estrazione di “plusvalore relativo”. A tal proposito è interessante come, dalla crisi del 2008 in poi, il numero di robot per migliaia di lavoratori sia cresciuto più velocemente da noi che nel resto d’Europa, Germania compresa, almeno se si esclude dal computo il settore automotive. Sia detto, un dato del genere segnala quanto forte sia stato l’impatto del ridimensionamento di Stellantis sull’Italia (senza tenere conto dell’automotive, dal 2012 in poi la Spagna ha più robot per addetto); da qui si vede però anche l’importanza degli investimenti tecnologici, quindi dell’intensificazione dei ritmi produttivi, come strategia per massimizzare il plusvalore nel settore manifatturiero del nostro paese, in particolare nel triangolo Milano-Bologna-Venezia. 

Tale quadro contraddice almeno in parte il discorso dominante secondo il quale la stagnazione salariale degli ultimi decenni sia dipesa da una riduzione della produttività. Se è vero che il valore aggiunto per addetto si è sensibilmente ridotto, ciò è dipeso da una diminuzione che è avvenuta essenzialmente nel settore dei servizi. Al contrario, la produttività del lavoro nell’industria è cresciuta di 13 punti percentuali tra il 2008 e il 2021, anno in cui l’indicatore ha superato il livello pre-crisi. Un dato del genere, peraltro, sottostima l’incremento, visto che tiene conto anche dell’industria delle costruzioni, tendenzialmente meno produttiva della manifattura. 

I trend del valore aggiunto per addetto nell’industria e nei servizi sono interdipendenti: l’aumento degli orari e gli investimenti in macchinari che hanno alzato la produttività nel “secondario” hanno contribuito a ridurre gli occupati nel settore. Il “terziario” ha assorbito parte di questa riduzione, con l’effetto di vedere  la sua produttività diminuire, visto che per ragioni strutturali – iper-frammentazione e predominio di turismo e ristorazione – non sono stati possibili significativi miglioramenti tecnologici. Nell’interpretazione dei dati sulla produttività, va inoltre considerata la storica ineguaglianza dello sviluppo capitalistico nel nostro paese. A causa di questa dinamica, la crescita degli investimenti in tecnologia degli ultimi decenni ha infatti inevitabilmente favorito la concentrazione del capitale, così degli aumenti di produttività, nelle nelle regioni del nord – dove è sempre più concentrata l’industria – a scapito di quelle del centro-sud. 

Quanto detto fin qui dovrebbe suggerire che i lavoratori – in particolare nell’industria – abbiano tutto il diritto di rivendicare salari più alti, perfino in base alla logica difesa dai ricchi e dai capitalisti, secondo cui gli aumenti salariali possano avvenire solo accanto ad aumenti del valore aggiunto per addetto. Per cambiare la situazione del complesso della classe lavoratrice è però illusorio puntare tutto sulla richiesta di politiche industriali più lungimiranti e in grado di migliorare la produttività, come tende a fare la burocrazia sindacale: politiche industriali volte a favorire investimenti in tecnologia per l’industria esportatrice del nord, invece che uno sviluppo più armonico tra settori e geografie ricalcano i rapporti di forza all’interno della classe dominante, e quindi dello Stato, che non è un attore neutrale. L’esistenza di un settore dei servizi poco produttivo e povero, concentrato nel mezzogiorno, è inoltre vitale per garantire alla borghesia industriale del triangolo Milano-Venezia-Bologna un bacino di forza lavoro più facilmente sfruttabile. Infine, maggiore impegno da parte delle istituzioni nell’aiutare i capitalisti a ridurre il gap scientifico e tecnologico con i ‘competitor’ internazionali non avverrebbero all’interno di un gioco a bocce ferme, ma in un sistema di gerarchie tra paesi imperialisti – in cui l’Italia è relativamente debole – piuttosto consolidato.

Confindustria all’attacco dei lavoratori e delle lavoratrici: si sedimentano tensioni

Questa realtà materiale confuta la narrazione propagandata dai capitalisti nostrani che lega meccanicisticamente la trentennale stagnazione dei salari in Italia ad una produttività ferma al palo a causa di presunte “eccessive garanzie” concesse ai lavoratori e alle lavoratrici, quando in realtà ci troviamo di fronte al clamoroso fallimento della classe dominante italiana. Del resto esistono contesti storicamente molto più solidi economicamente quali Francia e Germania con lavoratori e lavoratrici molto più tutelati che in Italia, grazie ai risultati prodotti dalla maggiore capacità di lottare della classe lavoratrice d’oltralpe.

Al contempo giungiamo a questa situazione di crisi anche dopo il devastante shock della pandemia, che ha prodotto nella classe lavoratrice una riscoperta dell’importanza del benessere personale e dei tempi di vita, come anche di essere adeguatamente pagati. Un segnale evidente di questo fenomeno emerge nelle rivendicazioni dei principali sindacati metalmeccanici, che nel contesto delle trattative per i rinnovi contrattuali si sono sentiti spinti a costruire piattaforme più avanzate che nel passato chiedendo la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e maggiori aumenti. Rivendicazioni che però hanno incontrato finora solamente porte in faccia, con ben 7 incontri tra Confindustria e sindacati confederali andati a vuoto in 4 mesi e la volontà padronale di vincolare gli aumenti ai soli scatti dati dall’indice Ipca-Nei, i quali strutturalmente controbilanciano solo in parte l’inflazione e sono anche in buona parte riassorbiti in busta paga dai superminimi.

Da un punto di vista sindacale, pertanto, la risposta padronale a questa situazione di crisi si materializza con un esplicito tentativo di sterilizzare ancor più la trattativa per il rinnovo del ccnl metalmeccanico scaduto a giugno, dimostrando la volontà di non concedere nulla ai lavoratori e alle lavoratrici in termini di salario, dirottando il più possibile sul “fuori-busta” tra flexible benefits e sanità privata. Gli aumenti “senza precedenti” che lamentano gli industriali non sono altro che il parziale adeguamento a una inflazione del 14% nel biennio 2022-2023, ma vengono sbandierati come uno straordinario incremento di salario reale.

Se già la portata del disastro automotive sta costringendo Fiom, Uilm e Fim a chiamare allo sciopero del settore e alla mobilitazione di piazza per questo venerdì per far sfogare l’alta tensione accumulata tra gli operai e le operaie, la radicalizzazione di Confindustria contro la classe lavoratrice fa sedimentare tensioni eclatanti che costringono gli stessi sindacati confederali a rompere almeno in parte il torpore che li caratterizza. Lo scenario che si prospetta nei mesi prossimi e per il 2025 è di insofferenza crescente tra i lavoratori e le lavoratrici dell’industria che potenzialmente può portare a un crescendo di mobilitazione e lotta, con i sindacati confederali che cercheranno il più possibile di incanalare e contenere la contestazione agendo come mera valvola di sfogo. La domanda da porsi è se le tensioni che si stanno accumulando catalizzeranno processi di autorganizzazione in grado quantomeno di incrinare gli argini delle burocrazie confederali o se prevarrà esclusivamente il gioco delle parti.

Contro questa seconda eventualità, va rifiutata la logica che lega le condizioni di lavoro e di vita al successo del capitale e del suo Stato, non fosse altro perché questo successo si basa sulla capacità di sfruttare la classe lavoratrice, l’unica reale creatrice della ricchezza. Non è un problema dei lavoratori se i capitalisti italiani arrancano nella competizione internazionale e riproducono un sistema basato sul dualismo crescente tra settori ad alta e bassa produttività e sullo sviluppo ineguale a livello geografico. 

I divari di produttività tra settori e regioni non devono giustificare enormi differenze salariali: la massa di lavoro a bassi salari e iper-precarizzato nei servizi e nelle regioni depresse è infatti una spada di damocle per tenere stagnanti le retribuzioni nel triangolo Milano-Bologna-Venezia. Vanno allora rivendicati forti aumenti e riduzione dell’orario di lavoro nel settore industriale, come chiede la piattaforma FIOM, ma questo deve essere ottenuto con lo sciopero – come stanno già facendo da mesi i lavoratori delle ferrovie anche sfidando la crescente repressione – non cercando di far quadrare i bisogni dei lavoratori con le compatibilità dei capitalisti. La riduzione dell’orario di lavoro, accanto alla rivendicazione di un salario minimo agganciato a un paniere base calcolato all’inflazione, deve inoltre essere al centro di una mobilitazione volta a unire tutti i lavoratori. 

Un rilancio del sindacalismo combattivo all’interno della Fiom in rottura con la burocrazia sindacale della Cgil sarebbe fondamentale per liberare il potenziale conflittuale dei lavoratori dell’industria, come dimostrato su piccola scala dalla stessa esperienza degli operai Gkn di Campi Bisenzio (FI) – non a caso boicottati dall’attuale leadership Fiom. E l’occasione potrebbe essere fornita proprio dall’attuale riduzione dei margini di manovra per la concertazione delle burocrazie sindacali causata da questa crisi produttiva.

Lorenzo Lodi

Giuseppe Lingetti

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.

Nato a Roma nel 1993. Dottore di Ricerca in Fisica, ha militato nel Coordinamento dei Collettivi della Sapienza fino al 2018 e in Fridays For Future Roma fino a fine 2019. Attualmente lavora come programmatore software per un'azienda privata dell'industria ferroviaria.