Trump non solo ha bombardato l’Iran, ma ha anche fatto a pezzi il fragile equilibrio su cui poggiava ancora una parvenza di ordine mondiale. Dopo la guerra in Ucraina e il genocidio in Palestina, questa è un’ulteriore prova dell’accelerazione verso un’era di guerre, crisi e rivoluzioni; quest’ultime, forse, si stanno già preparando in questo mondo sempre più turbolento.

Proponiamo un commento di Juan Chingo scritto poco dopo l’attacco statunitense.


Donald Trump, ordinando un attacco aereo su larga scala contro le principali installazioni nucleari dell’Iran, ha compiuto il passo più rischioso e potenzialmente più devastante del suo secondo mandato. Un’operazione, descritta dai suoi consiglieri come “limitata e contenuta”, che la Casa Bianca cerca di presentare come un attacco chirurgico volto a neutralizzare una minaccia crescente, e non come l’inizio di una guerra totale in Medio Oriente.

L’attacco – colpendo con precisione i siti di Fordow, Natanz e Isfahan – costituisce una scommessa ad alto rischio da parte di Trump. A differenza di altre misure della sua amministrazione, come i dazi doganali, sui quali ha in parte finito per fare marcia indietro, il presidente è andato fino in fondo, ignorando persino i consigli di alleati chiave all’interno del movimento MAGA (Make America Great Again). La questione ora è se questa offensiva sarà una manovra riuscita di contenimento nucleare o il primo atto di una guerra che potrebbe consumare la regione e la presidenza di Trump.

Una strategia del colpo di forza, senza una via d’uscita chiara

Il messaggio di Trump è stato chiaro: qualsiasi risposta iraniana comporterà una reazione “ancora più forte” da parte di Washington. A suo avviso, l’Iran sta attraversando un momento di debolezza, dopo giorni di attacchi israeliani e sotto la pressione delle sanzioni economiche. Questa debolezza ha permesso ai bombardieri americani B-2 di entrare e uscire dal territorio iraniano senza incontrare alcuna resistenza. Circondato dalle forze americane e sotto il dominio aereo israeliano, il regime sciita sarebbe difficilmente in grado di sostenere uno scontro prolungato, assicurano i suoi consiglieri.

In altre parole, nonostante la decisione di attaccare gli impianti nucleari, gli Stati Uniti vogliono evitare di ritrovarsi coinvolti in una guerra prolungata. Trump spera che gli Stati Uniti possano incassare una risposta iraniana limitata e riuscire a tenersi fuori da un coinvolgimento più profondo nella guerra. Questa strategia potrebbe funzionare, ma è incredibilmente rischiosa. Infatti, il dilemma posto dal proseguimento dell’intervento militare si acuirà se l’Iran continuerà a rifiutarsi di piegarsi alle richieste imperialiste o se il Paese continuerà a disporre di una capacità nucleare significativa. Sebbene duramente colpito, il regime iraniano conserva un’ampia capacità di risposta: può mobilitare milizie alleate, chiudere lo Stretto di Hormuz, attaccare interessi americani o persino colpire direttamente le petromonarchie del Golfo (anche se quest’ultimo scenario lo isolerebbe ulteriormente dagli Stati della regione). Le opzioni sono sul tavolo e nessuna esclude un’escalation, anche se i costi di una tale dinamica sarebbero molto elevati.

Le difficili scelte del regime islamico

L’Iran si trova a un tragico bivio. Il Paese può optare per la moderazione e cercare una via d’uscita attraverso i negoziati, anche se ciò implicherebbe accettare una posizione di estrema debolezza, sia sul piano interno che su quello regionale. Ma per molti all’interno del regime, ciò equivarrebbe a una capitolazione intollerabile. Oppure può rispondere con la forza, trascinando la regione in un conflitto di più ampia portata, che metterebbe in gioco non solo l’equilibrio militare, ma la stessa sopravvivenza della Repubblica islamica.

L’ipotesi più probabile è che Teheran opti per una terza via: una risposta calibrata, simbolica ma di grande impatto, che le consenta di salvare le apparenze senza oltrepassare le linee rosse di Washington. I lanci di missili su Israele dopo i bombardamenti non costituiscono ancora un salto nella risposta. L’obiettivo sarebbe quello di mantenere la coesione interna al regime, sanzionare minimamente gli Stati Uniti o i loro alleati, evitando una guerra aperta. In parole povere, un’uscita “alla Saddam Hussein” dopo la guerra contro gli Stati Uniti nel 1991. All’epoca, Washington aveva preservato il leader iracheno, che aveva poi lanciato una feroce repressione interna per mantenere il potere.

Tuttavia, anche questa forma di moderazione comporta dei rischi. Basta un errore di calcolo, una vittima americana o un attacco troppo visibile perché il conflitto degeneri. Come avverte Ilan Goldenberg in un articolo pubblicato su Foreign Affairs dopo l’attacco americano:

Gli incidenti e gli errori di calcolo potrebbero aggravare notevolmente la situazione. L’Iran potrebbe tentare una risposta balistica più limitata, ma finire per provocare un “successo catastrofico” nel caso in cui un missile superasse le difese americane e causasse danni molto più gravi del previsto, trascinando gli Stati Uniti in un conflitto ancora più profondo.

Una guerra che definisce i contorni delle alleanze ma comporta dei rischi

Trump ha giustificato l’attacco come un atto necessario per «impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari». Ha ringraziato pubblicamente Benjamin Netanyahu, prima ancora dei piloti americani. Questo gesto non era insignificante. Israele non solo è stato informato, ma avrebbe anche svolto un ruolo chiave nell’operazione e nelle pressioni politiche che hanno portato a questa decisione. Un’ulteriore prova di ciò che sottolineavamo in un precedente articolo:

Tel Aviv non agisce più solo come alleato di Washington, ma come attore che cerca di manipolare il suo protettore. Si tratta di un pericoloso ribaltamento della tradizionale divisione dei ruoli tra il centro imperialista e i suoi Stati clienti, con conseguenze imprevedibili sui diversi scenari geopolitici mondiali, dove Washington cercava di delegare il suo antico ruolo di gendarme mondiale.

Ma questo allineamento potrebbe avere forti ripercussioni anche all’interno degli Stati Uniti. Nell’opinione pubblica americana – in particolare tra i settori nazionalisti e isolazionisti del movimento MAGA – il minimo costo umano, economico o militare derivante da questa offensiva ricadrà anche su Israele. Le parole di personalità come Tucker Carlson o Steve Bannon, che hanno messo in guardia da un «nuovo Iraq», potrebbero essere rafforzate se l’Iran scegliesse una risposta muscolare. Tanto più che all’altra estremità dello spettro politico, il comportamento di Israele a Gaza ha già ridotto notevolmente il sostegno all’alleanza tra gli Stati Uniti e lo Stato coloniale. Se gli Stati Uniti si trovassero coinvolti in una guerra di cui la maggioranza degli americani non è convinta, e se questa guerra prendesse una brutta piega, l’opinione pubblica americana si rivoltò con forza contro Israele, e le conseguenze potrebbero essere fatali.

Il mondo ne prende atto: senza bombe nucleari, nessuna garanzia

Il bombardamento dell’Iran segna una svolta per la presidenza di Donald Trump, ma potrebbe anche ridefinire l’architettura della sicurezza mondiale per decenni. Il messaggio inviato è tanto chiaro quanto brutale: la deterrenza non si basa più su trattati o negoziati, ma sulla capacità di colpire per primi e con forza. Per l’Iran, il dilemma è mortale: continuare l’escalation e rischiare la distruzione totale del regime, o accettare un accordo umiliante, che comporterà potenzialmente il vivere sotto una minaccia permanente.

Anche se sceglierà la via della moderazione, il regime non dimenticherà facilmente la lezione: non avere la bomba nucleare è stato un errore strategico. Oltre il Golfo Persico, gli echi dell’attacco risuonano già a Pyongyang, Islamabad, Pechino e Mosca. In un mondo in cui gli Stati Uniti possono lanciare un’operazione su larga scala senza l’approvazione del Congresso, senza un mandato internazionale e senza conseguenze immediate, la pura logica del rapporto di forza prevale sulla diplomazia. La domanda che aleggia in tutte le cancellerie del mondo non è cosa farà l’Iran, ma chi sarà il prossimo a cercare la propria garanzia nucleare. Perché dopo Fordow, Natanz e Isfahan, ciò che appare chiaro è che l’unica vera linea rossa in questo nuovo ordine mondiale caotico non risiede nel cosiddetto «diritto internazionale», ma piuttosto nella capacità di distruzione reciproca assicurata.

In altre parole, con la sua azione Trump non ha solo bombardato l’Iran, ma ha anche fatto saltare il fragile equilibrio su cui si basava una parvenza di ordine mondiale. Dopo la guerra in Ucraina e il genocidio in Palestina, si tratta di un’ulteriore prova dell’ingresso a tutta velocità in un’epoca di guerre, crisi e rivoluzioni, che forse si stanno già preparando in questo mondo in fermento, e senza dubbio più rapidamente di quanto immaginino i governi e gli stati maggiori di tutti questi Stati capitalisti reazionari che hanno sempre meno controllo sul corso degli eventi.

 

Juan Chingo

Traduzione da Révolution Permanente

Membro della redazione di Révolution Permanente, giornale online francese. Autore di numerosi articoli e saggi sui problemi dell'economia internazionale, della geopolitica e delle lotte sociali dal punto di vista della teoria marxista. È coautore con Emmanuel Barot del saggio "La classe ouvrière en France: Mythes & réalités. Pour une cartographie objective et subjective des forces prolétariennes contemporaines" (2014) ed autore del saggio sui Gilet Gialli "Gilets jaunes. Le soulèvement" (2019).